28 dicembre 2008

Chrome box reissue

I Chrome sono stati definiti "gli Stooges che suonano i Can nell'iperspazio". Sebbene questa definizione potrebbe applicarsi a dozzine di sonorità differenti, mi pare azzeccato ricordarla e, già che ci sono, provare a coniarne altre. Ad esempio, potrebbero essere i Pere Ubu che suonano Brian Eno senza mai essere usciti dal sottosuolo, oppure Zappa che suona Stockhausen nelle profondità dell'oceano.
Starete intuendo che, per capire davvero cosa facessero i Chrome, è necessario ascoltarli.

Bisognerà allora iniziare da qualche parte. E qui si scopre che hanno una discografia troppo complessa, questi Chrome. A complicarla ulteriormente sono venute negli anni diverse edizioni e ri-edizioni di album, raccolte, box e cofanetti vari.

Per capirci qualcosa, va innanzi tutto sottolineato che la discografia a nome Chrome si divide in diversi periodi, che si distinguono per la presenza o meno di uno dei due membri principali: Damon Edge ed Helios Creed.

La primissima fatica discografica, The Visitation, uscì per la verità nel 1976 con il solo Damon Edge nell'organico. Si tratta di un album che si fa rientrare per comodità nella prima fase del gruppo, ma costituisce un oggetto a se' stante, poichè già dal secondo album le cose cambieranno.

Seguirono infatti tra il 1977 e il 1983 diversi album, singoli ed EP con la formazione "classica", comprendente sia Creed che Edge. Questo è il periodo più interessante della storia del gruppo, ed è caratterizzato, dal punto di vista del collezionista, dalla difficilissima reperibilità sia dei vinili originali che delle ristampe in CD.

Dopo la defezione di Creed seguì una seconda fase, periodo nel quale restò il solo Damon Edge a capitanare la nave dei folli. Gli album susseguitisi tra il 1984 e il 1994 con la nuova formazione sono caratterizzati da un sostanziale distacco dal sound originale del gruppo.

Con la morte di Damon Edge nel 1995, fu però Helios Creed a riprendere il moniker Chrome ed a dare vita a diversi nuovi album con una nuova formazione, comprendente sia membri delle precedenti incarnazioni del gruppo, sia nuove presenze. L'ultima uscita di questa versione che potremmo definire "mark III" risale per il momento al 2002.

Maggiore interesse, abbiamo detto, suscita però il primo periodo, quello che va dal 1977 al 1983. Il miglior momento dei Chrome fu infatti quello in cui i due pazzoidi che ne tenevano il timone tiravano uno da una parte e uno dall'altra, favorendo un equilibrio incerto che era anche il marchio di fabbrica della formazione.

Già nel 1982 era stato pubblicato un "box", ovviamente in vinile, nel quale si riassumeva in 6 dischi il repertorio della band. Si trattava della riproposizione integrale degli album The Visitation, Half Machine Lip Moves e Blood On The Moon, e delle tre raccolte No Humans Hallowed, Chronicles I e Chronicles II, che racchiudevano singoli, EP e nuovo materiale.

Nel 1996 la Cleopatra ha riproposto un "box" in CD, con identica copertina e stesso titolo, ma con una tracklist decisamente rimaneggiata. Una scelta strana e certamente discutibile. Siccome però questa versione del box, in 3 CD, è stata appena ristampata, e siccome è in sostanza l'unica possibilità di mettere mano su quasi tutta la produzione Edge\Creed, eccomi a darvene conto.

Dopo attenta analisi dei brani inclusi e confronto delle tracklist, eccovi un resoconto di cosa contiene il box.

Le prime sei tracce del CD1 sono tratte da Alien Soundtracks (1977), dal quale dunque restano esclusi ben quattro brani. Dalla traccia 7 alla traccia 16 è proposto quasi per intero l'album Half Machine Lip Moves (1979), con la sola esclusione dell'ultimo pezzo del disco originale. Le tracce 17, 18 e 19 sono tratte dalla compilation Subterranean Modern, che uscì nel 1979 con tre pezzi dei Chrome, tre degli MX-80 Sound, tre dei Residents e tre dei Tuxedomoon. Questi tre brani sarebbero turrora inediti su CD se non fossero stati contemporaneamente inclusi in una nuova compilation dei Chrome dalla Cleopatra.
La traccia 20 è uno strano sunto dei cinque pezzi che componevano l'EP Read Only Memory (1979). I brani risultano tagliati e mixati tra loro, una scelta davvero discutibile. Nel box del 1982 l'EP veniva invece riproposto per intero all'interno del vinile No Humans Allowed. L'ultima traccia del CD è dedicata al lato B del singolo New Age (1980), anch'esso incluso in origine in No Humans Allowed.

Le prime 8 tracce del CD2 ripropongono, quasi integralmente, l'album Red Exposure (1980). Restano fuori però due pezzi del disco originale. Le tracce 9 e 10 sono dedicate ai due brani inclusi nel 12 pollici Inworlds (1981), anch'essi in origine inclusi in No Humans Allowed. Le tracce dalla 11 alla 19 (con l'esclusione della traccia 15) ripropongono quasi fedelmente l'album Blood On The Moon (1981), meno un brano, al posto del quale c'è però l'inclusione di uno strumentale inedito (la traccia 15, appunto).

Il CD3 si apre con un brano inedito (se non per la solita apparizione in No Humans Allowed). Dalla traccia 2 alla traccia 8 trovano posto i brani di 3rd From The Sun (1982), stavolta senza tagli. Le restanti tracce, dalla 9 alla 15, raccolgono diversi singoli e inediti, tutti originariamente presenti, nel box originale, nei due vinili Chronicles I e Chronicles II, e poi raccolti anche nell'album Raining Milk.

Vi è venuto il mal di testa? Anche a me. E dire che sarebbe bastato aggiungere un quarto CD per consentire la pubblicazione di tutti i brani del 1977 al 1983, senza tagli e rinunce. Il sospetto che non si sia voluto fornire l'opera omnia, in modo da non rendere del tutto inutile un'eventuale prossima ristampa degli album integrali, è lecito. Mi consolo da questo pensiero con l'ascolto di queste 55 tracce che arrivano direttamente dall'iperspazio, esempio assoluto di genialità, originalità e folle coraggio. Evviva.

23 dicembre 2008

A Certain Ratio: dopo dieci anni, Mind Made Up

A Certain Ratio è un nome storico della new wave inglese: furono infatti il primo gruppo a firmare per la Factory, prima che vi approdassero i Joy Division.

Dopo i primi fulminanti lavori a base di una originalissima miscela di funk e post punk (memorabile in particolare la cassetta del 1980 The Graveyard and the Ballroom), hanno diradato via via le uscite pur proseguendo in una carriera ai margini della scena musicale più in vista. L'ultimo album finora era Change The Station del 1996, un'opera ben fatta ma dal sound molto mainstream.

L'uscita di un nuovo CD non era perciò del tutto scontata. Quando ho visto Mind Made Up tra le novità mi sono detto: sarà un'altra raccolta. E invece.

E invece questo non solo è un disco di inediti, ma è un grandissimo ritorno, che cancella le banalità disco-soul del disco precedente e ci consegna una band fuori dal tempo, che guarda sia alle proprie origini che al futuro con uguale passione e coinvolgimento. E soprattutto, che si riappropria di tutti quesgli elementi che nell'ultimo decennio sono stati saccheggiati da decine di revivalisti, dimostrando che tranne rare eccezioni, è meglio l'originale della copia.

I Feel Light apre l'album con un giro di chitarra ruvida e sonorità new wave da palpitazione: attenzione, i nostalgici dovranno maneggiare con cura questo pezzo. Un ritmo dance si va a sovrapporre subito a chitarra e basso, ma è solo un trucco: la canzone è post punk puro, e da sola vale il prezzo del disco.

Segue Down, Down, Down, una traccia da manuale del white funk. Da subito si capisce che non ci saranno due tracce simili una dopo l'altra. Questo potrebbe essere un grande singolo dal refrain magnetico.

Everything Is Good cambia ancora le carte in tavola, con una disco d'avanguardia molto acida e paranoica, a tratti quasi industriale.

Way To Escape si apre con un giro di basso slappato molto disco eighties, ma si sposta poi con l'ingresso della voce verso atmosfere molto più rarefatte, sebbene sostenute da una chitarra decisamente funky. Un brano originale e decisamente piacevole.

Rialto 2006 è un remake del classico originariamente apparso nell'album Sextet. Forse non ce n'era tutto questo bisogno (l'originale resta splendido) ma questa versione si fa apprezzare e si veste di un arrangiamento non banale.

Mind Made Up è un nuovo esempio di funk-wave ipnotica, gelida e conturbante.

Teri inizia come un pezzo dei Coldplay (ascoltare per credere) e continua... come un pezzo dei Coldplay. Non male, ma forse troppo Coldplay e un po' fuori luogo in quest'album.

Bird To The Ground torna subito al funk ma con toni molto più solari rispetto ai primi brani, anche se la voce sussurrata tende a creare un'atmosfera vagamente inquieta.

Starlight è l'ultimo brano cantato e si poggia di nuovo su un gran firo di basso e su sonorità che ricordano da vicino il primo periodo della band. Il ritornello, estremamente accattivante ("keep on dancing / outer space", provate a non canticchiarlo già dopo il primo ascolto), si innesta imprevisto su una strofa sognante e tracciata da pennellate di synth futurista.

Which Is Reality?, Skunk e Very Busy Man sono tre strumentali che chiudono l'album tra funk, new wave e disco, una sorta di lunga jam session frenetica e appassionata.

Speriamo che a quest'album faccia seguito una carriera ancora su questa linea. Bentornati.

21 dicembre 2008

Teenage Jesus and Beirut Slump: Shut Up And Bleed

Ho nominato da poco i Teenage Jesus And The Jerks, parlando del DVD antologico di Lydia Lunch.

Gruppo dalla carriera discografica brevissima, i Teenage Jesus And The Jerks pubblicarono appena due singoli e due EP, per poi dissolversi rapidamente - anche se la leader continuò una lunga carriera di musicista e performer con diverse formazioni o in ambito solista.

Caratterizzati da sonorità dissonanti e dalla programmatica brevità delle composizioni, furono una delle band più influenti dell'epoca: seppero infatti rompere qualsiasi schema del rock e del pop, molto più di quanto non avesse fatto il punk, e restituire in modo quasi fisico l'angoscia metropolitana e l'incapacità di una generazione di riconoscersi in un qualsivoglia modello morale o culturale.

Assieme ai DNA di Arto Lindsay ed ai Theoretical Girls di Glenn Branca diedero uno scossone alla scena musicale newyorchese, consentendo la nascita di nuovi filoni musicali, ed in particolare spianando la strada ai Sonic Youth.

La discografia dei Teenage Jesus And The Jerks, essendo così limitata, è stata molto facile da raccogliere in CD. Già nel 1995 era stato pubblicato un album che in 12 brani - e 18 minuti - raccoglieva l'intera opera della band: venivano riproposti la somma dell'EP omonimo, che a sua volta raccoglieva già tutti i brani dei due singoli Orphans e Babydoll, e degli ulteriori tre pezzi pubblicati nell'EP pre-Teenage Jesus And The Jerks, che contenevai brani sviluppati da una formazione precedente della band, quando c'era anche James Chance al sax.

Pareva difficile che si potesse aggiungere qualcosa, e invece ora esce questo Shut Up And Bleed, che riesce nella quasi impossibile impresa di fornire nuovo materiale interessante, e che risulta dunque il benvenuto.

Oltre ai 12 brani "classici", questa edizione aggiunge altro materiale dei Teenage Jesus And The Jerks - soprattutto live di qualità discreta. In secondo luogo, vengono addizionati i pezzi inediti di un'altra band, attiva nello stesso periodo, anch'essa con Lydia Lunch alla voce: i Beirut Slump, un quintetto del quale nulla, fino ad ora, era stato tramandato ai posteri.

E valeva la pena riscoprirli: nervosi, a tratti folli, hanno poco da invidiare ai più famosi "fratelli" (che risultano maggiormente noti anche per la partecipazione alla raccolta No New York curata da Brian Eno).

Cosa dire di quest'album: splendido titolo, ottima copertina, musica fulminante, urgente ed auto-combustiva. Peccato solo per la scelta di mescolare le canzoni dei due gruppi, una soluzione che, pur non inficiando la riuscita dell'album, complica un po' l'ascolto "filologico". Ma si tratta di un peccato veniale che si perdona volentieri ad un oggetto tanto inaspettato quanto gradito come questa raccolta.

18 dicembre 2008

Milano new wave

La storia della new wave italiana fu soprattutto la storia di un paese provinciale, in cui il fenomeno rimase sostanzialmente imitativo e assunse solo raramente contorni di originalità. Lo testimoniano, oltre al semplice confronto con i modelli inglesi e americani, anche le tempistiche delle uscite discografiche, estremamente tardive rispetto allo svilupparsi del movimento.

In Italia mancarono sia la cultura del "fai da te", che tantissima parte ebbe nello sviluppo della nuova onda alla fine degli anni '70, sia un qualsiasi tipo di sostegno sul territorio, ad eccezione di poche zone fortunate - vedi Firenze e dintorni.

Tali circostanze relegarono tanti nuovi gruppi al rango di realtà da garage, impedendo il naturale sviluppo di un fenomeno che avrebbe avuto invece bisogno di rapidità e spontaneità. Quando le etichette discografiche si resero conto dell'esistenza di questo sottobosco, la spinta si era ormai esaurita, i modelli erano cambiati e le poche uscite di valore (emergono fra tutti Siberia dei Diaframma e Desaparecido dei Litfiba, ma era già il 1984) servirono più che altro a gettare le basi per band che si sarebbero evolute in direzioni diverse da quella iniziale.

Tutto ciò non significa che non ci sia stato, nel cosiddetto belpaese, nulla di interessante in ambito new wave, o che non valga la pena riscoprire nulla, se non altro in chiave storica.

Proprio in questo senso si sono succedute diverse ristampe realizzate dalla risorta Spittle Records, tra le quali spiccano le due raccolte Gathered e Body Section, che raccolgono il meglio delle band attive nei primi anni '80, e le ottime uscite relative alla new wave fiorentina (Neon e Rinf in particolare).

Già, la scena fiorentina. A parlare della new wave in Italia pare quasi che accadesse tutto nella città di Dante, mentre il resto del paese stava a guardare il festival di Sanremo. In verità dell'altro ci fu - come dimenticare ad esempio gli splendidi Frigidaire Tango, nati a Bassano del Grappa - ed in particolare qualcosa si mosse a Milano. Si, proprio nella città "da bere", la patria dell'aperitivo e dello yuppismo all'italiana.

Milano aveva il vantaggio, almeno sulla carta, della vicinanza all'Europa e di una maggiore presenza dell'industria discografica. In realtà però non si sviluppò una vera e propria "scena milanese": i gruppi degni di nota furono pochini e si sciolsero nel giro di pochi anni.

La nuova raccolta della Spittle Records è dunque dedicata proprio a quelle band che vale la pena ricordare: 5 brani ciascuno per quattro gruppi che animarono le serate meneghine nei primi anni '80.

Il CD di apre con gli Other Side, una formazione decisamente influenzata dalla new wave più "dark" (Joy Division, Cure). Pur con qualche buona idea, la pecca principale dei brani qui proposti è la scarsa originalità, che porta di conseguenza anche una certa ripetitività nelle soluzioni e nelle melodie. Non aiuta il fatto che le registrazioni sono molto incerte - la chitarra soprattutto è spesso fuori tempo - e il buon remastering non riesce a far dimenticare che si tratta probabilmente di demo casalinghe.
Molto più interessanti gli State of Art, che avevano abbracciato un funk-punk brillante e sperimentale, debitore di Gang of Four, A Certain Ratio e forse della no-wave newyorchese. I cinque brani che li rappresentano qui sono colmi di idee e pur con qualche ingenuità suonano ancora freschi ed interessanti.
Più elettronici i La Maison, influenzati dall'electro pop sorgente nei primi '80. Meno sperimentali di altre realtà italiche dell'epoca (vedi ad esempio Neon e Pankow) ma decisamente interessanti e con una certa originalità: la loro fusione di post punk e sonorità alla Kraftwerk è a tratti ben riuscita. Peccato non si siano sviluppati dopo questa manciata di creazioni che lasciavano intravedere ottimi spunti.
La raccolta si chiude con gli eccellenti Jeunesse d'Ivoire, una band impegnata in un dream pop alla Cocteau Twins, molto raffinati, capaci di arrangiamenti elaborati e intriganti. Tra i più vicini in Italia alla realizzazione di un genere che potesse abbracciare electro pop e new wave e superarli in una soluzione che potesse essere radiofonica ma non banale, non riuscirono propbabilmente a superare le resistenze di un paese come sempre troppo conservatore, anche nelle sue componenti più "alternative".

Anche se si inizia a correre il rischio, con queste ristampe, di raschiare il fondo del barile, Milano New Wave 1980-83 risulta un disco importante per ricordare un'epoca altrimenti molto poco rappresentata e che è stata semi-dimenticata dalla storia ufficiale.

15 dicembre 2008

Lydia Lunch in DVD

Lydia Lunch è uno di quei personaggi che non si riescono a comprimere nelle abituali definizioni musicali di genere, e neppure a descrivere con una semplice successione di aggettivi.

La sua attività, iniziata a New York nella seconda metà degli anni '70, include un lungo elenco di performance e incisioni discografiche, sia soliste che in collaborazioni con numerosi artisti, tra i quali spiccano Nick Cave, Foetus, James Chance, Einsturzende Neubauten, Die Haut, Michael Gira, Marc Almond e Thurston Moore.

Questo DVD ripercorre la sua storia raccogliendo materiale video, principalmente live, dal 1978 al 2006.

Si parte con i Teenage Jesus And The Jerks, storica band della no wave newyorchese, qui rappresentati dal video realizzato per Orphans (un montaggio di violenza e orrori della guerra) e da 5 brani filmati dal vivo nel 1978 (I Woke Up Screaming, Freud in Flop, Race Mixing, Baby Doll, Instra-mental).

A seguire vengono proposti 6 brani live degli 8-Eyed Spy (Sorry for Behaving so Badly, Innocence, Boy Girl, Motor Oil Shanty, Swamp, Run Through the Jungle), la seconda formazione della quale la Lunch fu leader, un miscuglio strano ed affascinante di ritmiche pulsanti, attitudine chitarristica punk e declamazioni in stile no wave. La formazione si sciolse nell'80 dopo la morte per overdose del bassista, e questo documento contribuisce a testimoniarne il valore.

I successivi 12 brani, quasi tutti dal vivo, provengono dalle innumerevoli collaborazioni succedutesi negli anni: 2 pezzi con gli Shotgun Wedding, diverse apparizioni con Terry Edwards, una canzone a testa con Rowland S. Howard, con Mark Cunningham, con Die Haut, con Pepe Sarto.

Le riprese, soprattutto quelle relative agli anni tra i '70 e gli '80, sono di qualità amatoriale, ma l'audio è stato curato bene, rendendo la fruizione del DVD interessante sia dal punto di vista storico che da quello strettamente musicale - al contrario di alcune discutibili operazioni che ho visto negli ultimi anni, in cui il materiale proposto era davvero da cestinare.

Se vi interessa approfondire un'artista di eccezionale valore per la musica contemporanea, e sbirciare nella no wave newyorchese, questo DVD è certamente un mattone importante su cui costruire una ricerca.

6 dicembre 2008

Byrne & Eno... at home



David Byrne e Brian Eno hanno una lunga storia di collaborazioni alle spalle, sin dall'album More songs about buildings and food dei Talking Heads, che fu solo il primo di una serie di dischi del gruppo newyorchese prodotti da Eno.

Nelle rispettive carriere dei due musicisti resta inoltre memorabile il lavoro a quattro mani My life in the bush of ghosts, l'album che nel 1981 rappresentò il primo esempio di sperimentazione musicale - prima dell'era dei campionamenti e della world music - con l'idea allora del tutto innovativa di sfruttare frammenti di trasmissioni radiofoniche, sermoni televisivi, e tutto quanto potesse servire come suggestione per l'inserimento nel contesto di un paesaggio sonoro.

Dopo ben 27 anni i due tornano ad unire i propri nomi per l'uscita di Everything That Happens Will Happen Today. I germi per il nuovo album - che ha anche un sito tutto suo - sono stati posti in occasione dell'incontro che i due hanno avuto per la pubblicazione della versione rimasterizzata e ampliata di My life in the bush of ghosts, quando Eno ha rivelato a Byrne di avere molto materiale strumentale inutilizzato a disposizione, e gli ha passato un po' di registrazioni.

Dopo circa un anno di maturazione, Byrne si è detto pronto a mettere insieme abbastanza canzoni da poter proporre un album, nel quale i compiti sono stati ben suddivisi: il compositore inglese ha contribuito con la musica e le sonorità, il cantante americano con i testi e le parti vocali.

Il risultato è quello che i due definiscono "electronic gospel": una miscela nella quale la voce - o meglio le voci, in quanto c'è un grande uso di cori - assume un ruolo centrale, ma con un contorno di territori sonori inusuali "alla Eno".

Il risultato, per quanto riguarda il mio parere, non è probabilmente all'altezza delle intenzioni. Salvo qualche momento (soprattutto il terzo brano, l'extraterrestre I Feel My Stuff), l'album suona piuttosto monotono e non raggiunge i livelli ai quali i due dovrebbero aspirare. Molte delle melodie sanno pericolosamente di già sentito, e gli arrangiamenti vocali trasformano l'insieme più in album di canzoni natalizie per famiglie che in un interessante esperimento, come pare fosse nei piani.

Peccato, perchè alla notizia della collaborazione avevo sperato in qualcosa di decisamente diverso.
Se volete verificare il mio giudizio (naturalmente sindacabilissimo), avete a disposizione lo strumento che ho preso a prestito dal sito dell'album. Buon ascolto!

1 dicembre 2008

Grandi ritorni: grandi dischi?

Il rock è morto. Questo ormai lo sappiamo e dobbiamo farcene una ragione: non si può credere a Babbo Natale per tutta la vita.

Viva il rock? Certo, se ciò significa continuare a goderselo e a festeggiare i buoni album, senza per forza aspettarsi novità rivelatrici o sconvolgimenti tellurici.

Ben vengano dunque anche i "grandi ritorni", le band che, date ormai per bollite o sparite da diversi anni, piombano a piedi uniti sul mercato con una nuova fatica, sospinte dal vento in poppa del battage pubblicitario, che non manca di promettere faville. Purchè, naturalmente, gli album in questione meritino non dico tanto strombazzamento, ma almeno una manciata di ascolti soddisfacenti.

Andiamo allora a fare un po' le pulci a 4 "grandi ritorni" che hanno caratterizzato l'autunno del 2008.
Un poker d'assi calato da 4 band che hanno venduto milioni di album: AC/DC, Queen (con Paul Rodgers), Metallica e, nientemeno, Guns N' Roses.

AC/DC: Black Ice

L'ultimo disco di studio della band dei fratelli Young era stato Stiff Upper Lip, nel 2000. Otto anni di attesa consentono dunque di parlare di "ritorno", anche in considerazione dell'età media del quintetto australiano. Ma soprattutto è stato il lancio mediatico che ha presentato Black Ice come un ritorno ai fasti di Back In Black (sarà semplicemente il "Black" nel titolo?), creando un fenomeno di osanna generalizzato.

A me quest'album non è parso brutto, ma non capisco perchè dovrebbe essere considerato tanto migliore di Stiff Upper Lip. Sono 15 canzoni del solito hard rock molto tinto di blues, con Brian Johnson in discreta forma, con riff che sembrano tutti già sentiti ma proprio per questo "prendono"; il problema è che i pezzi sono tutti talmente simili tra loro da non consentirmi di arrivare a metà disco senza avere la tentazione di spegnere.

Intendiamoci: ogni canzone, presa da sola, ha i suoi pregi - anzi, si potrebbe sancirne l'assoluta perfezione. Ma sono 15 mid-tempo una dietro l'altra, tutte con gli stessi elementi, senza una sbavatura nella produzione, senza un guizzo, senza nulla che non sia "la band che suona esattamente come dovrebbero suonare gli AC/DC". Non reggo. Una sufficienza meritata, ma nulla di più.

Queen + Paul Rodgers: The Cosmos Rocks

Qui si entra in territori delicati e pericolosi. Freddie Mercury, è inutile ricordarlo, non è più tra noi dal lontanissimo 1991. E' da allora che - tolto un album di brani completati dal gruppo utilizzando le ultime registrazioni lasciate dal cantante, non esce nulla a nome Queen. Giustamente, viene da dire.

Ora, si sa, abbandonare un nome così prezioso in termini di vendite è una cosa difficile. Comprensibile che Brian May, piuttosto che fondare la "Brian May rock band", abbia preferito ad un certo punto dare in pasto al pubblico un CD con le magiche 5 lettere stampate in bella vista.

Naturalmente, nessuno pensa che questi siano davvero i Queen. A ricordarcelo, caso mai non avessimo capito, l'aggiunta "+ Paul Rodgers"campeggia in caratteri più piccini sulla copertina. E l'accostamento tra gli ex-Queen e l'ex cantante dei Free e dei Bad Company poteva anche risultare interessante. Purtroppo, in realtà, ne è risultato un pasticcio in cui è proprio difficile salvare qualcosa.

Testi giovanilistici indifendibili (si parla di scuola come se non si avessero 60 anni), un gravissimo scollamento dalla realtà , scelte musicali indecise tra il vecchio suono della regina e le tendenze rock-blues più tradizionali di Rodgers. Anche il titolo, The Cosmos Rocks, non sta in piedi (che vuol dire? di cosa state parlando, percaritàdiddio?) . Un disco patetico e decisamente evitabile.

Metallica: Death Magnetic

Immaginiamo che una band fondi, negli anni '80, un genere che resterà una pietra milaire nella storia del metal. Facciamo finta che questa band inanelli 4 album venerati dal pubblico, che li conducono allo status eroico di paladini dell'heavy (anzi, del thrash, se ipoteticamente questo fosse il nome del nuovo genere).

Supponiamo che però al quinto album questi quattro loschi figuri (cavalieri delle tenebre, potremmo definirli) decidano di cambiare registro, indovinando un disco dal successo pauroso ma che fa storcere il naso a molti dei fan adoranti di cui sopra. E lanciamoci a briglia sciolta nell'ipotizzare che, a peggiorare le cose, arrivino prima una coppia di album hard-blues rock che non piacciono quasi a nessuno, fino a quando i nostri eroi, in un impeto di auto-lesionismo, partoriscono un ultimo letale disco che fa schifo a tutti, ma proprio a tutti.

Ecco, narrata questa stupida boiata, e chiarito che si parla dei Metallica, immaginiamo infine che questo gruppo, scaricato il bassista ormai transfugo nei Voivod (plauso a lui) e cambiato produttore (aver prodotto Load + Reload + St.Anger non è stato considerato un buon curriculum per il vecchio Bob Rock), decida di tornare sui propri passi e di comporre un album che, per sonorità e stile, sarebbe potuto arrivare dopo il quarto, cancellando tutto quanto c'è stato in mezzo. Et voilà, ecco a voi Death Magnetic. Torna il vecchio logo, tornano i riff thrash, tornano i Metallica.

Ma sarà vero? Dopo tanti tentativi di cambiamento, è proprio difficile credere alla sincerità di questo ritorno alle origini. Ma facciamo finta (tanto ormai ci siamo abituati) che sia così. Che Hammett & soci sentissero proprio il bisogno di farlo. Insomma, non facciamo i sospettosi. Resta il fatto che questo disco convince per metà: in diversi momenti i nostri suonano quasi come se' stessi, ma i brani sono troppo lunghi, il disco dura un'eternità e mezza, le idee sono troppo diluite, la voce di Hatfield non sempre si ri-adatta a fare "se' stessa giovane", i suoni della batteria non hanno ancora dimenticato di essere passati per il purgatorio dell'album precedente.

Una mezza botta. Sei meno meno? Ma si, nonostante la perversa idea di inserire l'inutilissima Unforgiven III. Però, ammettiamolo: i primi due minuti del disco sono un tuffo al cuore. Ascoltatevi almeno quelli.

Guns N' Roses: Chinese Democracy

La storia di quest'album è una delle più assurde nella storia del rock. Atteso dai fan dei Guns N' Roses dal 1993 (anno di pubblicazione dell'ultimo disco del gruppo, la raccolta di cover The Spaghetti Incident?), e più volte annunciato come imminente, Chinese Democracy era ormai diventato un oggetto leggendario e quasi una barzelletta: il sospetto che non sarebbe mai uscito era ormai molto diffuso.

E invece eccolo qua: esisteva davvero, anzi, ormai esiste, ed è uscito da pochi giorni. Naturalmente, come tutti sanno, il nome Guns N' Roses sta a significare il solo Axl Rose: niente Slash, niente Izzy, niente Duff, sostituiti negli anni da una varietà di musicisti dei quali si è oramai perso il conto. Pare incredibile dunque che l'album, a dispetto anche delle innumerevoli sessioni di registrazione in 14 studi diversi, suoni decisamente compatto, molto potente e - udite udite - anche piuttosto convincente. E ci tengo a sottolineare che chi scrive può essere considerato tutto meno che un fan di Axl Rose, la cui voce starnazzante non è in effetti il punto forte dell'album.

Ciò che funziona, semplicemente, sono i pezzi: rock ruffianissimo, metal ballads - in mezzo c'è anche qualche pezzo che davvero ricorda i vecchi Guns - arrangiati in modo sorprendentemente moderno ma soprattutto dotati di buoni riff, ritornelli azzeccati, grinta quanto basta, una certa dose di rabbia, spruzzate di romanticismo, soli degni di nota (certo, facile se li si fa registrare a un certo Buckethead). Se questo blog avesse le stelline, sarebbe almeno un 7 su 10. Non posso crederci.

29 novembre 2008

Wovenhand live 28/11/2008

Sono davvero pochi gli artisti che riescono a toccarti l'anima suonando dal vivo. Si sono cimentati con successo in questa ardua impresa i Wovenhand, ieri sera al Musicdrome di Milano. E lo hanno fatto nonostante le solite, avverse condizioni del locale: palco piccolo e mal fatto, acustica incommentabile, pubblico scarso e come sempre accade all'ex Transilvania poco partecipativo, sebbene assorto nell'ascolto.

Ma David Eugene Edwards è uno che sul palco si immerge in una trance che prescinde dal luogo e dal numero dei convitati, riuscendo a regalare lo stesso spettacolo davanti a dieci, come a mille, come - ed è il caso di ieri sera - a cento persone mal assortite ed infreddolite- tra l'altro sorprese, nella mattinata, da una imprevista nevicata che aveva ricoperto la città, donandole un aspetto che ogni volta appare del tutto irreale.

I Wovenhand dal vivo sono una vera band, con la formazione dell'ultimo Ten Stones: Edwards canta e suona chitarra, banjo e fisarmonica, alla batteria c'è Ordy Garrison, al basso Pascal Humbert (già nei 16 Horsepower), alla chitarra Peter van Laerhoven. La band suona in modo molto potente, più di quanto mi aspettassi, con una fedeltà eccezionale al sound di studio.

L'avvio è fulminante, con i migliori brani dell'ultimo album: Kicking Bird e The Beautiful Axe suonano molto elettriche e decisamente cupe, aprendo perfettamente uno show in cui prevarranno i toni melodrammatici e l'approccio sciamanico del cantato.

Il gruppo di Denver mescola sacro e profano creando un folk rock molto gotico in cui si ritrova di tutto: country punk, canti degli indiani d'America, spiritual e western, ma anche la tradizione dark inglese, evidente in molti suoni di chitarra, a volte affilatissima, e soprattutto nel drumming che soprattutto nei brani più recenti si avvicina molto allo stile di gruppi come Joy Division e Siouxsie.

Edwards sul palco sfodera la sua voce sorprendente, bassa, pastosa, evocativa, e la usa per snocciolare un mantra di ossessioni religiose, di storie di pazzia e redenzione, che hanno un metro di paragone solo nel maestro Nick Cave (fatti salvi i riferimenti comuni: Cash, sopra tutti).

Nessun momento di calo di tensione nella scaletta: vengono inanellati uno dopo l'altro brani dai 4 album della band: ricordo in particolare Deerskin Doll, Not One Stone, Your Russia, oltre alla splendida American Wheeze dei 16 Horsepower, fantastico regalo a chi non si aspettava di poterla più ascoltare eseguita dal vivo.

Una serata intensa, greve, un pugno di canzoni che scavano nel ventre dell'ascoltatore alla ricerca di segreti che neppure lui conosce. Grazie.

23 novembre 2008

Simon Reynolds: Rip It Up and Bring The Noise!

Simon Reynolds è un critico musicale inglese che la ISBN - editore dei suoi lavori in Italia - definisce "il più grande critico musicale vivente".

La definizione è probabilmente eccessiva, ma non lontanissima dalla realtà. Reynolds affianca ad una cultura musicale - ed extra-musicale - praticamente enciclopedica, la capacità di adottare una prosa piana e a tratti professorale per argomenti che lo appassionano profondamente, senza che vadano perse ne' la percezione di questa passione ne' la chiarezza ed il rigore che si sforza in modo evidente di adottare.

In questo è diversissimo sia da Lester Bangs, il caotico ma trascinante ed appassionatissimo critico statunitense, scomparso ormai da più di un quarto di secolo, che molti ritengono tout court il più grande critico musicale di sempre, che dal compatriota Paul Morley, che è altrettanto enciclopedico ma eccede in uno stile spesso oscuro ed eccessivamente intellettualizzato (si veda il suo pur affascinante volume Metapop).

ISBN aveva già pubblicato un paio d'anni fa, con il titolo Post-punk 1978-1984, la traduzione del manualone Rip It Up And Start Again, una carrellata estremamente accurata e ricchissima di informazioni sulla musica che scaturì, dalle due parti dell'Atlantico, dopo il ciclone del punk, sull'onda del "Do It Yourself" (favorito dalle nuove tecnologie di registrazione casalinga), vedendo la nascita di dozzine di nuovi generi, frettolosamente ammucchiati nelle etichette di New Wave o Post Punk, ma tra loro diversissimi. Un libro fondamentale, preziosissimo anche per chi, come me, riteneva di saperne già tanto su un periodo così fervido e fecondo.

Esce ora, con l'orribile titolo Hip-hop-rock 1985-2008 (ma lasciare i titoli originali è così difficile?) un nuovo grosso tomo, pubblicato in Inghilterra come Bring The Noise, che raccoglie una selezione degli articoli scritti da Reynolds negli ultimi vent'anni.
Da un punto di vista editoriale il volume viene presentato come seguito del precedente, ma naturalmente si tratta di qualcosa di completamente diverso, non essendoci qui l'impianto storico che caratterizzava le pagine di Post Rock 1978-1985. Ciò non toglie valore all'opera, ne' sminuisce il piacere nella lettura degli scritti del critico londinese, anzi, sposta l'attenzione sulla sua prosa giornalistica viva e attenta, che mette sotto il microscopio la musica degli ultimi vent'anni e i flussi che l'hanno caratterizzata.

Ciò che colpisce maggiormente in Reynolds è il suo sforzo, anche negli articoli scritti in occasione dell'uscita di nuovi album, di porsi in un'ottica storica, e di comprendere dove si annidino i germi delle novità, delle nuove esplosioni creative. Lo stesso autore ad esempio fa notare nella prefazione come gli ultimi decenni siano stati caratterizzati dall'inseguimento dei musicisti bianchi nei confronti della musica nera, e di come la sovrapposizione che si è creata tra i due mondi abbia generato risultati imprevedibili, laddove il "fraintendimento" dei bianchi verso la musica dei neri ha generato nuove idee. Questa idea è presente sotto traccia ina tutti gli articoli, e fa da collante tra di essi dando una certa coesione all'opera, che cita una miriade di artisti tra cui, tanto per fare qualche nome, Hüsker Dü, Smiths, Public Enemy, LL Cool J, Dinosaur Jr, Pixies, Living Colour, Manic Street Preachers, Nirvana, PJ Harvey, Beastie Boys, Blur, Roni Size e tantissimi altri.

Forza, dunque: accendete un piccolo mutuo (Hip-hop-rock costa 29 euro, Post-punk 35) e procuratevi entrambi i volumi. Vi farà bene e vi terrà occupati per molte sere (si tratta rispettivamente di 470 e 710 pagine circa), ore che potrete trascorrere comodamente seduti in casa con della buona musica in sottofondo, invece di andare in giro per locali a sperperare denaro (e così riuscirete anche a coprire il mutuo).

22 novembre 2008

Pattoneide

Il signor Michael Allan Patton, meglio conosciuto con il diminutivo Mike, e noto soprattutto per essere stato la voce dei Faith No More, è protagonista di una discografia tra le più varie e affascinanti della storia del rock.

Il musicista californiano è stato infatti coinvolto non soltanto, in quanto voce solista, negli album di Faith No More, Mr. Bungle, Fantomas, Tomahawk, e in diversi lavori solisti, ma anche in una miriade di collaborazioni, comparsate, progetti "una tantum", tanto da creare confusione e panico negli estimatori e nei collezionisti che vorrebbero accaparrarsi ogni nota da lui cantata, sussurrata, mugolata, parlata, esplosa, urlata, biascicata.

E non uso tutti questi verbi a caso. Stiamo infatti parlando di uno tra gli interpreti più virtuosi della storia del rock, impegnato in una costante ricerca e sperimentazione che spazia in tutte le tecniche vocali, conosciute e non, con risultati spesso sorprendenti.

In questi giorni ho notato che molti titoli del catalogo pattoniano sono proposti a prezzo speciale dalle principali catene di distribuzione musicale. E allora eccovi qua una veloce carrellata di titoli che potrebbero suscitare il vostro interesse.

L'acquisto che mi piace consigliare maggiormente tra le uscite recenti è la colonna sonora composta da Patton per un cortometraggio di Derrick Scocchera uscita nella prima metà del 2008. Il disco prende il nome dal film - A Perfect Place - ed è pubblicato in una bella edizione cartonata con CD + DVD (colonna sonora e film).
La musica realizzata da Patton per il film oscilla tra Danny Elfman e Angelo Badalamenti, passando per i musical anni '30 e le colonne sonore alla grand guignol. Non mancano arrangiamenti orchestrali di una certa complessità, affiancati ad esperimenti sonori e montaggi radiofonici. Una gioia per le orecchie ed un turbine di citazioni musicali, che si potranno anche non cogliere coscientemente ma che possono far apprezzare quest'album anche a chi non conosce - e non intende accostarvisi - i generi metal in cui il nostro si muove abitualmente.

Tornando indietro di un paio di anni troviamo Peeping Tom, un album annunciato per anni e finalmente pubblicato nel 2006 per l'etichetta Ipecac di proprietà dello stesso Patton. Qui siamo in territori decisamente più pop, e per la verità a farla da padrone è soprattutto l'hip hop, anche se le influenze sono tantissime e si devono in gran parte all'ingente numero di ospiti e collaboratori.
Massive Attack, Amon Tobin, Jel, Bebel Gilberto, Kid Koala, Doseone, Norah Jones, Dub Trio, Imani Coppola e diversi altri appaiono nell'album come vocalist, co-autori, strumentisti.
La prima traccia Five Seconds fa apparire per qualche minuto il fantasma dei Faith No More, poi l'album vira verso altri territori. Ma quello che comunque accomuna il "guardone Tom ai FNM" sono l'orecchiabilità e il gusto per il pop. Si tratta infatti di un album che scorre via facile facile, anche se zeppo di idee e genialate che molti musicisti non se le immaginano in una vita. Forse lascia poca traccia nella memoria, ma per tre quarti d'ora sorprende e infonde vitalità, il che non è male.

Ancora due anni a ritroso e siamo nel 2004, dove invece scoviamo una collaborazione con il musicista norvegese John Kaada. Romances è un'opera molto più cerebrale e inafferrabile, che vede Patton impegnato soprattutto nella creazione di trame vocali, lasciando a Kaada l'impegno strumentale.
I brani sono influenzati, come dichiarato dagli stessi autori, dalle composizioni di Mahler, Chopin, Listz e Bhrams, ma ciò a cui si avvicina maggiormente è la musica da film - che d'altronde è il genere in cui Kaada si cimenta abitualmente.
L'album non è privo di fascino, e le interpretazioni di Patton sono come al solito di ottimo livello, ma forse risulta eccessivamente pretenzioso ed alla lunga le soluzioni sono ripetitive. Non mancano però gli estimatori del genere e Romances ha riscosso un certo successo di critica, per cui è possibile che, semplicemente, incontri poco i miei gusti.

Potrei andare avanti con decine di titoli ma mi fermo qui, almeno per ora. Non escludo in futuro di fare una sorta di "seconda puntata". Aggiungo soltanto poche righe sull'album la cui copertina campeggia in cima a questo post: Pranzo Oltranzista è un folle progetto di musica futurista, ispirato alle ricette futuriste di Russolo e Marinetti. Le composizioni si avvalgono delle collaborazioni eccellenti di John Zorn e del chitarrista Marc Ribot, che imprimono all'album una matrice free jazz che si sovrappone, con risultati incredibili, alle soluzioni più propriamente rumoriste e di spirito propriamente futurista. Pubblicato nel 1997 per l'etichetta di John Zorn, è tuttora reperibile solo a prezzo pieno. Ma potete resistere ad un album che annovera brani con titoli come Elettricità Atmosferiche Candite oppure Carne Cruda Squarciata Dal Suono Di Sassofono?

17 novembre 2008

Should I buy or should I not

Istintivamente, l'avevo snobbato questo The Clash Live at Shea Stadium. Innanzi tutto perchè per i Clash ho enorme rispetto ma non rappresentano per me una band di formazione. E poi perchè la pubblicazione di un live dopo un quarto di secolo sa davvero troppo di spremitura del catalogo, soprattutto dopo gli ultimi anni che sono stati punteggiati prima da (inutili) ristampe degli album di studio, poi dalla pubblicazione di un sontuoso cofanetto di singoli (bello ma eccessivo) e infine della solita (inutilissima) raccolta di successi.

Ora giungono un DVD (che forse sarà interessante, ma non l'ho visto e dunque non mi pronuncio) e questo live. La serata nella quale fu registrato non era proprio una serata qualsiasi: i Clash erano negli USA di supporto agli Who, erano all'apice del successo ed in pratica all'inizio di quello che sarà un declino veloce e inesorabile. Lo testimonia già l'assenza di Topper, il batterista che, sfatto dalle droghe, era stato appena buttato fuori dal gruppo e che passerà gli anni successivi a riprendersi dalla batosta.

L'operazione, dal punto di vista tecnico, non è disprezzabile: un buon remastering, ottenuto probabilmente a partire da una registrazione dignitosa, accompagnata da un libretto ben curato. Il live in se', però, non è forse molto rappresentativo della band. C'è qualche tormentone (Should I Stay Or Should I Go, Rock The Casbah, I Fought The Law), qualche brano meno noto al pubblico occasionale (Tommy Gun, Train In Vain, ma anche l'insopportabile Police On My Back), il bel dub di Armagideon Time, ma la performance, pur intensa e tutto sommato apprezzabile, forse non valeva la pubblicazione in CD. Migliore, se non altro per rappresentatività, era stata la raccolta di brani dal vivo From Here To Eternity pubblicata nell'ormai lontano 1999. Anche se lì mancava, va detto, la continuità della scaletta di un vero e proprio album live.

I fans e i completisti vi si buttino pure. Troveranno pane per i loro denti. Agli altri consiglierei piuttosto di guardare (e magari investirvi i propri soldini) il DVD del bel documentario Il Futuro Non E' Scritto, montato da Julien Temple sulla figura di Joe Strummer e sui Clash. Si tratta di un film che, oltre ad avvicinare ad una figura umana affascinante ed in qualche modo esemplare, getta sicuramente luce su un periodo fondamentale della storia della musica inglese e su un gruppo di cui ormai non si sa più un granchè.

15 novembre 2008

Benedette ristampe! Gang Of Four

La carriera dei Gang Of Four seguì uno sviluppo tipico per molti gruppi del post punk inglese: nacquero arrabbiati, politicizzati e musicalmente feroci, ma si fecero poi nell'arco di quattro album molto più patinati, commerciali e persero gran parte delle velleitè politiche che avevano contraddistinto la loro prima produzione.

L'ossatura del suono della "banda dei quattro" era affidata al basso dub e funky di Dave Allen ed alle figurazioni sincopate della batteria di Hugo Burnham. L'influenza del punk era più evidente nella chitarra spesso atonale e graffiante di Andy Gill, come nel canto nervoso e declamatorio di Jon King.

Per chi non li conoscesse e intendesse avvicinarvisi, il mio suggerimento è di partire dal primo album, quell'Entertainment! (1979) che, sin dalla copertina (una sorta di schemino di come il cowboy capitalista freghi l'indiano povero cristo), mostra bene quale fosse l'attitudine "marxista" del gruppo di Leeds.
Ma varrà bene anche il secondo Solid Gold (1981): sono dischi feroci, claustrofobici, ma anche estremamente ritmici e, strano a dirsi, ballabili. Segnarono la fusione tra funk e punk, una formula inedita e decisamente interessante.

Per chi li conosce e vuole sapere cosa accadde dopo, giungono benedette le ristampe del terzo e del quarto album, che latitavano negli scaffali dei negozi da più di un decennio.

Songs Of The Free (1982) è un disco nel quale è ancora riconoscibile la furia dei quattro di Leeds, ma ammansita e condita con una spalmatura di fiati e coretti che ammiccano alla dance e che certamente possono far storcere la bocca a più di un purista. Il fatto è che l'album, riascoltato oggi, mi sembra assolutamente godibile e, in alcuni episodi, quasi bello. L'estrema orecchiabilità di alcuni brani non mi disturba più di tanto, e la voce di Jon King tiene in piedi con decenza la baracca.

Per Hard (1982) è più difficile trovare parole buone: la deriva commerciale è troppo evidente e le soluzioni sonore hanno ormai perso di mordente. Ciò nonostante non mi sento di condannare del tutto neppure questo disco, eccettuate le ultime due tracce che rasentano la demenzialità. Ma neppure ve lo consiglio: è materiale per fan sfegatati che digerirebbero di tutto. Come me? Ehm, temo di si.

12 novembre 2008

Benedette ristampe! Magazine: Peel Sessions

Le Peel Session dei Magazine erano state già pubblicate alcuni fa nello splendido cofanetto Maybe It's Right To Be Nervous Now, comprendente 3 CD di cui uno completamente dedicato alle registrazioni effettuate ngli studi della BBC per il mitico programma del DJ londinese.

Il cofanetto in questione è però ormai da lungo tempo fuori catalogo e di molto difficile reperibilità, risulta perciò particolarmente gradita la pubblicazione di questo The Complete John Peel Sessions, che raccoglie tutti i 15 brani registrati in tali occasioni.

Howard Devoto, che aveva conquistato un certo successo con i Buzzcocks, formazione della prima ondata punk anglosassone, decise di abbandonarli nel 1978 e si diede da fare per fondare un nuovo gruppo.

Nacquero così i Magazine, che furono una sorta di "super-gruppo" al contrario, in quanto tutti i membri della band sono noti per aver poi militato in altre formazioni: il chitarrista John McGeoch (pilastro del post punk inglese e musicista influentissimo) suonerà nei Banshees di Siouxsie e nei PIL di John Lydon; il bassista Barry Adamson sarà più noto per i successi con i Visage di Steve Strange e per i dischi incisi con i Bad Seeds di Nick Cave, oltre che per la propria carriera solista; il tastierista Dave Formula suonerà, come McGeoch, nei Visage e poi nei Ludus.

I Magazine ebbero la sfrontatezza di mescolare l'attitudine e l'immediatezza del punk con strutture e soluzioni sonore che strizzavano l'occhio al rock progressivo degli anni '70, attirandosi dunque il disprezzo di molta critica e non riuscendo, nonostante il buon successo di alcuni singoli, a fare breccia nel cuore di una generazione che, nei primi anni '80, cercava coordinate ben riconoscibili e decisamente diverse.

Io invece li trovo assolutamente deliziosi, se non altro per l'originalità che li contraddistinse. Ma anche per le personalità dei musicisti, che emergono prepotentemente da canzoni indimenticabili come The Light Pours Out Of Me, o Shot By Both Sides o ancora le splendide Touch And Go e Permafrost.

Dopo tre album eccellenti, e un quarto album un po' meno fortunato, registrato senza McGeoch, i Magazine si sciolsero, lasciando liberi gli ex componenti di prendere le proprie strade. Le Peel Sessions raccolte in questo CD testimoniano, pur con qualche sbavatura, di una band dalle incredibili potenzialità e che avrebbe meritato maggiore fortuna.

8 novembre 2008

Uragano Jones (Grace, naturalmente)

19 anni: tanto è trascorso dall'ultimo album di quella che è universalmente conosciuta come la "pantera" giamaicana, miss Grace Jones, nota al grande pubblico soprattutto per il successo di Slave To The Rhythm, album del 1985 prodotto da Trevor Horn per la sua ZTT.

Ora, a 60 anni suonati e con le idee, a quanto pare, ancora molto chiare, l'androgina ex-modella torna con Hurricane, un disco composto in gran parte con il compagno Ivor Guest ma che vede anche diverse collaborazioni degne di nota (Tricky, Brian Eno, Sly & Robbie).

Il singolo Corporate Cannibal, oltre ad avvalersi di uno splendido video, può vantare la collaborazione di Tricky e sonorità che ricordano da vicino l'album Mezzanine dei Massive Attack. E proprio con questi ultimi Grace era apparsa di recente, al Meltdown Festival di Londra, dove aveva presentato alcuni dei nuovi pezzi e, per l'appunto, il nuovo video.

Hurricane è un album sorprendente in quanto ricorda da vicino le uscite di Grace Jones dei primi anni '80 (in particolare Warm Leatherette e Nightclubbing) ma contemporaneamente è perfettamente ancorato al presente - se non al futuro - e non presenta alcun elemento anacronistico.

Il genere dominante è un reggae dub molto raffinato, spesso arricchito da arrangiamenti d'archi e da una elettronica piuttosto presente ma dosata con sapienza.
Le influenze e i rimandi non si contano. I primi due brani - This Is e Williams' Blood - portano alla mente i Faithless. Ma anche ai Massive Attack si pensa spesso, soprattutto in relazione a brani come I'm Crying (Mother's Tears) che non avrebbero sfigurato in Blue Lines. E' evidente invece la mano di Sly & Robbie in una composizione come Sunset Sunrise, un vero e proprio classico dalla melodia indimenticabile.

Ma ciò che tiene insieme il tutto, al di là di arrangiamenti e atmosfere, è la grandissima voce di Grace Jones, il suo recitato che irretisce l'ascoltatore e, man mano che si fa canto e melodia, lo ipnotizza inchiodandolo all'esperienza della musica. Un animale notturno che, tornando nelle ombre dalle quali era stato fagocitato, riafferma con autorevolezza il proprio potere.

Meritano una citazione i testi, che in Hurricane non sono mai secondari rispetto alla musica e impongono una personalità altera ma anche profonda e decisamente convincente. Spesso in quest'album Jones si fa delicata ed intimista, pur conservando il proprio ruolo iconico - si veda in questo senso l'apertura della prima traccia This Is: "This is my voice/My weapon of choice".

Un disco che marca un grandissimo ritorno, e che fa sorgere una legittima curiosità in merito ai due album che, pur completati, non hanno visto la luce nelle ultime due decadi. Forse i tempi non erano maturi, forse la pantera era in agguato in attesa delle proprie vittime. Sacrificatevi con gioia.

Bollino o non bollino? Il dilemma SIAE

Conoscete il famigerato bollino SIAE, vero? Si tratta dell'adesivo che viene apposto sui supporti discografici (ed anche su altri prodotti editoriali, ma per quanto riguarda l'argomento qui esposto faccio riferimento in particolare ai CD), e che serve non solo a dimostrare che si è versato quanto spettante alla Società Italiana Autori ed Editori per i diritti di pubblicazione, ma anche a distinguere, come chiaramente esposto sul sito della medesima Società, "il prodotto legittimo da quello pirata".

Poco più di un anno fa raccontavo della strana situazione nella quale si trova la SIAE a riguardo: in Italia esiste una norma che considera illegale qualsiasi supporto che ne risulti privo, con la diretta conseguenza che chi viene beccato con CD (anche originali) privi del famigerato adesivo, può essere multato; ma nel frattempo la comunità europea ritiene illeggittima tale normativa, suscitando dunque perplessità sulla validità delle multe inflitte.

Accolgo ora con grande soddisfazione la notizia di una recente sentenza, del Tribunale di Cesena, che ha stabilito - in un particolare caso, ma facilmente generalizzabile - la non obbligatorietà dell'apposizione dei bollini, e quindi ha reso inesigibile la multa richiesta dalla SIAE. Sentenza che arriva dopo un calvario di nove anni sostenuto dall'interessato, ma che certamente servirà da precedente per eventuali casi futuri.
Ne parlava ieri Punto Informatico, che da anni segue con attenzione la questione, e vi rimando dunque al loro articolo per tutti i dettagli.

Questa è una grande vittoria contro un sistema di "autenticazione" dei supporti che oltre ad essere anacronistico ed inefficiente, ed a tutto e solo vantaggio della SIAE, senza che gli autori ne traggano alcun reale beneficio, deturpa orrendamente i materiali fonografici acquistati in Italia.
E solo in Italia, visto che in tutta Europa non esistono bollini ne' nulla di simile.
Ma possibile che dobbiamo sempre farci riconoscere?

28 ottobre 2008

4:13 Dream comes true

E infine eccolo qua, l'album di cui ho parlato e riparlato.
Uscito con un po' di ritardo rispetto alla data inizialmente prevista (che avrebbe dovuto essere il 13 settembre), il nuovo disco dei Cure (tredicesimo della carriera) non fa rimpiangere l'attesa, mostrandosi molto al di sopra delle aspettative e, pur con i limiti di cui parlerò più avanti, riportando i Cure ad un livello di forma che mancava ormai da tre lustri.

Gran parte del merito si deve probabilmente al reintegro dei ranghi dello storico membro Porl Thompson, avvenuto nell'intervallo tra il precedente The Cure ed il nuovo 4:13 Dream, ed al contemporaneo snellimento della formazione che ha perso (per motivi mai chiariti, ma pare per licenziamento in tronco) del chitarrista Perry Bamonte e del tastierista Roger O'Donnell.

A prescindere da valutazioni sul merito dei singoli componenti, passati e presenti, è evidente quanto il sound della band tragga giovamento dal cambio, arricchendosi di tonalità che erano decisamente mancate nell'appiattimento degli ultimi due album.

Ma 4:13 Dream gioca soprattutto la carta del revival, riportando gli orologi dalle parti del 1992, e pescando a man bassa dai luoghi comuni dei Cure di Disintegration e di Wish, ma anche da prima ancora se si considera ad esempio che il brano Sleep When I'm Dead pare provenga dalle session di The Head On The Door (1985). L'operazione, dal punto di vista musicale, funziona: le tredici canzoni convincono per spessore ed interpretazione, il disco scorre via che è un piacere ed offre anche una discreta variazione di stati d'animo (ricordate i selvaggi cambi d'umore del 1996?), sebbene sia stato assemblato con una maggioranza di composizioni upbeat e con diversi potenziali singoli oltre ai quattro già pubblicati.

Per contro, è proprio questo effetto deja-vu a rappresentarne la principale debolezza. I Cure oggi sono un gruppo che torna indietro e non presenta nulla di nuovo, sterzando da una strada che si stava rivelando infruttuosa ma effettuando una inversione ad U che non punta certamente verso il futuro. Sarebbe stato certamente difficile aspettarsi qualcosa di diverso dopo più di trent'anni di carriera; ma Bobby Smith non era quello che aveva dichiarato da qualche parte negli anni '80 che i "dinosauri" erano da disprezzare e che i gruppi dovrebbero sciogliersi al terzo album proprio per evitare la ripetizione? Beh, sicuramente l'età e l'esperienza hanno mutato la sua opinione.

Il set inizia con Underneath The Stars, che riparte dai campanellini che aprivano Disintegration, e riproduce fedelmente il mood di quell'album così amato dai fan. L'atmosfera sognante e le sonorità stratificate del primo brano vengono però subito smentite da The Only One, il primo dei quattro singoli estratti dall'album. Una canzone pop in perfetto stile Smith, che ricorda da vicino lo stile di Wish. Forse non particolarmente brillante, ma finalmente, dopo una infilzata di songoli molto fiacchi negli anni scorsi, ammiccante al punto giusto e con un ritornello che si ficca in testa. The Reasons Why è un bel brano dallo sviluppo tutt'altro che banale, caratterizzato da tante chitarre e dal basso a 6 corde, e da un eccellente chorus che si candida tra le migliori cose del disco. Freakshow è il secondo singolo, una ventata di genio funky che avrebbe potuto comparire nella scaletta di Kiss Me, molto radiofonica e con una frizzante interpretazione vocale. Sirensong è una piccola canzone che riporta subito alla mente le cose migliori di Wild Mood Swings: una chitarra slide e poche note di piano sul tessuto intrecciato dal basso danno vita ad uno dei momenti più esotici del lotto. The Real Snow White è invece la composizione che più si avvicina nello stile all'album precedente, e pur avendo una certa presa non mi pare degna di grande nota. Vanta un ritornello discreto e non molto altro. The Hungry Ghost è di tutt'altra pasta: ha uno sviluppo interessante e si fregia soprattutto di un grande Thompson, soprattutto in veste solista nel finale. Segue Switch, un rock frenetico assimilabile a diverse esperienze precedenti: chitarra wah in puro "stile Porl", grande lavoro di effetti sulla voce. The Perfect Boy, terzo e più debole tra i singoli, ci riporta con i piedi sulla terra: una canzoncina gradevole (sempre al di sopra dei singoli di The Cure) ma nulla di più. La successiva This. Here and now. With You, pur con analoghe caratteristiche pop, si pone ad un livello molto più alto, grazie anche ad un arrangiamento più originale ed all'ottima parte vocale. Sleep When I'm Dead è il quarto singolo e forse il migliore: intro memorabile, strofa scatenata con Gallup preciso come un martello funky e Thompson alla rifinitura, ritornello alla Cure anni '80 che di più non si può. Certamente un regalo per i fan di vecchia data. The Scream sterza infine verso un sound più orientaleggiante ed oscuro, abbandonando le velleità pop e restituendoci i migliori Cure alla The Top, con un crescendo delirante che si sfoga più volte con le urla di uno Smith in gran spolvero. Si chiude con la splendida It's Over, un quattro quarti rock che conserva lo spirito del brano precedente e si inserisce nella tradizione dei finali "alla Cure" (vedi Fight ed End, per citarne solo due).

Il bilancio è di almeno quattro grandi canzoni rock e di un paio di ottimi singoli, con il restante materiale ben sopra la media: niente male, a conti fatti. Chiudo con la speranza che il fantomatico "dark album" - a quanto pare ricavabile dai brani più lenti realizzati nelle sessioni per questo disco, che avrebbero partorito circa ventisei canzoni - veda effettivamente la luce e ci offra un panorama analogo in quanto a qualità e varietà.

26 ottobre 2008

La strada del pop, la strada del porno

Fare pop in modo intelligente non è una cosa facile, e per convincersene basta buttare un occhio - e un orecchio - alla smisurata produzione anglosassone, che ormai da almeno un decennio accumula insensatamente successi effimeri tutti uguali e tutti tristemente insipidi, che lasciano labilissima se non nulla traccia nella memoria.

C'è invece una tradizione che vede nel pop l'ambiente in cui alto e basso si mescolano, producendo un effetto accattivante ma al tempo stesso dotato di fascino, con un pizzico di mistero che consente di vivere una canzone come pretesto per sognare, per immaginare mondi possibili.

Inutile dire che gli anni '80 furono la culla di questa attitudine: potrei citare mille nomi, ma un esempio su tutti potrebbero essere gli Eurythmics dei primi album, che offrivano ritmi ballabili, melodie intriganti, atmosfere evocatice, una grande voce e un alone di totale mistero che avvolgeva l'androgina Annie Lennox col proprio carico di sensualità aliena.

Tutto ciò, per dire che i due di Lecce che hanno deciso di mettere su la ragione sociale Il Genio devono essersi detti: ok, facciamo un disco pop, ma cerchiamo di farlo intelligente.
Ora, a prescindere dal fatto che forse hanno detto in tutto un altro modo, e che l'uso della parola "intelligente" potrebbe essere ribaltato e ritorto contro il senso di ciò che sto scrivendo, il succo della faccenda è che questo disco italiano, piccolo piccolo nelle intenzioni (tanto da essersi meritato l'orrida etichetta di "indie pop", come se il pop potesse per vocazione aspirare a localini bui con quattro gatti ai tavoli), si è rivelato invece di grandi aspirazioni ed altrettanto grandi possibilità.

La miscela è perfetta: una ragazza dalla voce sottile sottile e intenzionalmente (caricaturalmente, stavo per dire) tenuta in un falsetto eccessivo, da cartone animato, che dà un qualcosa di erotico (e un po' ochesco, che è perfettamente erotico) a qualsiasi cosa canti; un impianto musicale fatto di elettronica in apparenza minimale ma in realtà ottimamente arrangiata, che si pone in una tradizione che va dagli italiani Chrisma ai già citati Eurythmics; un sistema di rimandi culturali al cinema francese, con l'immediata associazione a Serge Gainsbourg e Jane Birkin; il fascino della reiterazione, che sapientemente fa sì che le canzoni dell'album siano splendidamente "tutte uguali", creando una riconoscibilità che è essenziale nel pop (un certo Andy Warhol aveva già dimostrato chiaramente il concetto).

Certo, qualcuno potrebbe bollare l'album come effimero: ma sta proprio qui il gioco, riconoscere le colate di autoironia, saper vedere in tutta chiarezza come questo sia un "prodotto", ed ammirare proprio questa costruzione, questa premeditazione.

Questi sono dischi che li lanci lì e aspetti che lentamente si mettano a rotolare, per arrivare chissà dove. Prima dell'estate li conoscevano in pochissimi, giusto quelli che fanno attenzione alle piccole produzioni italiane. Poi si è affacciato su MTV il video di Pop Porno: una canzoncina ambigua e maliziosa, dal testo stuzzicante e fintamente ingenuo, coadiuvata da un filmato forse non brillante ma con le citazioni giuste per farsi notare (Pulp Fiction). L'effetto è istantaneo: in rete ci si comincia a chiedere chi siano questi due, spuntano detrattori ed ammiratori, si commenta il video, c'è chi vede la citazione a Tarantino e chi la nega, proponendo altre fonti di ispirazione. Il disco nel frattempo percorre la sua piccola strada, vende qualche copia in più, cresce silenzioso negli scaffali.

Ma la strada del pop porta sempre da qualche parte: il pezzo finisce a Quelli che il calcio, trasmissione ormai sempre più thrash: la Ventura nazionale lo canticchia, gli ospiti lo storpiano riuscendo a sbagliare la metrica del ritornello, la parola "porno" a ora di pranzo della domenica fa il resto: tutti hanno sentito la canzone, qualcuno la mormora tra i denti andando al lavoro, qualcuno ne è un po' infastidito, qualcuno ne resta affascinato.

Perchè la strada del pop passa dappertuto, anche per luoghi che un artista magari non pianificherebbe: il pop si scioglie nella società che lo circonda, assume una sua vita nelle sinapsi della gente, realizza, insomma, la propia vocazione. E lo fa quasi da solo, giusto con qualche necessaria spintarella, soltanto se è genuinamente pop.

25 ottobre 2008

La musica ora si compra in francobolli

E prima o poi doveva accadere: ecco qui l'ultima genialata partorita dai cervelloni delle quattro grandi major discografiche (Emi, Sony BMG, Universal e Warner).

Soppiantato il vinile (anche se sta vivendo una sorta di revival, ma questo è un altro discorso), dichiarato prematuramente morto il compact disc, si passa finalmente ad un supporto che più impersonale e deprimente non si può: una bella schedina di memoria, più piccola di un francobollo.

Quello che mi infastidisce di questa scelta commerciale non è semplicemente l'estrema miniaturizzazione del supporto, ne' la sua portabilità. La musica a passeggio, che ti segue ovunque tu sia, è stata una meravigliosa rivoluzione, iniziata negli anni '80 con l'audiocassetta ed il walkman, e probabilmente ha contribuito da un lato ad avvicinare molti alla musica, e dall'altro ad imporla come esperienza totalizzante, che era possibile portare fuori dal salotto di casa e condurre ovunque con se'.

Non ho avuto nulla contro il lettore CD portatile, ne' contro l'mp3 player. Quello però che non capisco, e che credo sia dovuto alla semplice cecità dell'industria, è la scelta di annichilire il prodotto-musica in un formato che svilisce l'oggetto e dunque l'acquisto. E' come se i discografici ammettessero, esattamente come un qualsiasi downloader pirata tredicenne, che del prodotto discografico non gliene importa nulla, che per loro è importante solo qualche bit di dati in un supporto.

Questo mi pare un errore capitale. Per decenni l'acquisto di un album è stato l'acquisto di un oggetto fisico, dalle caratteristiche, se mi è permesso l'accostamento, organolettiche ben riconoscibili. Il vinile era un prodotto che odorava di carta, inchiostro e colla, e somigliava ad un libro nei gesti tipici dell'aprirlo e leggerlo. Sapeva poi di quella strana cosa che era, appunto, il vinile: un materiale plastico ma caldo, elettrico, che attraeva pezzetti di carta e di polvere, un oggetto che bisognava curare e saper trattare. L'acquisto di reificava in una cosa tangibile e che aveva una propria vita.

Già il passaggio al compact disc rovinò parte di questa esperienza. La copertina mutava da poster a cartolina, perdendo molto del proprio impatto. Il disco, come oggetto, dava minor calore e svelava in modo più evidente la propria natura sintetica. Era però possibile creare libretti ben fatti, personali, stampare la superficie del CD in modo da renderlo un oggetto unico e riconoscibile.
Soprattutto, fu il miglioramento tecnico (che è indubbio, e chi sostiene il contrario è vittima di una leggenda metropolitana) a convincermi che il passaggio era accettabile. Il compact disc, per me e per milioni di appassionati sul pianeta, è divenuto da allora oggetto dell'esperienza musicale, qualcosa che si acquistava in cambio del proprio denaro, e che si poteva poi toccare, sfogliare, annusare.

Cosa resta di tutto questo in una scheda di memoria? Il dato tecnico è sconfortante: la qualità della musica nel nuovo formato MicroSD altro non è che il solito mp3, un formato che, da chiunque abbia un paio di orecchie funzionanti ed un cervello allenato, non può che essere considerato meno che soddisfacente. Ma la scelta del formato è obbligata: bisogna consentire all'utente la possibilità di trasferire la musica direttamente sul proprio lettore.
Le chedine costano la bellezza di 15 dollari: quasi quanto un CD, per una qualità incomparabilmente inferiore. Ma non bastava allora continuare a vendere mp3 online, come già si fa?

Resta il dubbio della copertina. In effetti pare ci sia, ma ancora non ho capito che formato abbia, se sia un semplice fogliettino o se sia possibile realizzare un vero e proprio libretto.

Quello che invece ho capito in modo chiaro, è che l'industria non vede l'ora di sbarazzarsi del passato, ma purtroppo senza avere un'idea per il futuro.

20 ottobre 2008

Featured Artists Coalition: una rivoluzione?

Bryan Ferry, Craig David, David Gilmour, Gang of Four, Howard Jones, Iron Maiden, Kaiser Chiefs, Peter Hammill, Radiohead, Richard Ashcroft, Robbie Williams, Soul II Soul, The Futureheads, The Verve, Travis...

Cosa accomuna tutti questi artisti, oltre al fatto di essere inglesi e di essere tutti più o meno noti al pubblico?

Da qualche settimana, il fatto di avere fatto fronte comune e di avere fondato una associazione: la Featured Artists Coalition. L'obiettivo è quello di ottenere un maggiore controllo sulla propria musica e di avere, al contrario di quanto gli offrono gli attuali contratti, una certa voce in capitolo per ciò che riguarda le strategie di marketing sui prodotti che portano impresso il proprio nome.

Le istanze avanzate non sono di poco conto, e vanno in una direzione finora mai imboccata dal mercato della musica: portare l'artista al centro della propria attività commerciale, e restituire alle etichette il ruolo di tramite rispetto al pubblico, e non, come attualmente avviene, di regista unico delle attività di produzione e commercializzazione della musica.

Gli artisti, forti anche di alcune esperienze indipendenti che hanno riscosso un discreto successo (Radiohead, Marillion, Nine Inch Nails sono solo alcuni esempi), chiedono innanzi tutto di mantenere i diritti sulle proprie produzioni, i quali verrebbero soltanto affittati alle etichette discografiche. E vogliono inoltre poter controllare, molto più di quanto non gli sia concesso attualmente, la forma in cui la musica viene venduta.

Il manifesto pubblicato sul sito dell'associazione entra nei dettagli ed elenca sei punti che dovranno essere rispettati perchè si possa ottenere un accordo. La parola ora va alle major, che potranno scegliere di ignorare la questione o di scendere a patti nel nome di una possibile collaborazione.