10 febbraio 2008

L'accumulo di dischi come necrofilia ansiosa

A volte osservo la mia collezione di CD e mi domando: "ma di quanti dischi ha bisogno un essere umano?"
Domanda oziosa e mal posta, la cui unica risposta sensata è naturalmente "nessuno". Non si è mai sentita citare la musica tra i bisogni primari dell'uomo, ma se anche volessimo infilarcela (invocando il bisogno di cibarsi d'arte come supposta differenza tra l'uomo e l'animale), non si vede perchè accumulare dischi invece di sfruttare i numerosi modi alternativi di fruizione della musica che la società contemporanea ci offre: dai live giù giù fino alla muzak da aeroporto, passando per tutti i media immaginabili (radio, televisione e internet).
Questa domanda che mi sorge spesso spontanea ha però un senso personale e rappresenta solo lo scontato punto di partenza per affrontare un argomento che da certi punti di vista risulta addirittura doloroso: un'analisi della compulsiva tendenza all'accumulo di dischi, dalla quale risultano affetti il sottoscritto e uno sparuto ma accanito gruppetto di discomani (trattati dai più, e forse a ragione, come ultime vestigia di un passato ormai archiviato e anche un po' fastidioso).
Tralasciando alcuni pur attualissimi aspetti (ad esempio, che senso abbia accumulare CD quando da ogni parte se ne annuncia la morte), vorrei focalizzarmi sulle ragioni che spingono un essere apparentemente pensante a tappezzare le pareti di casa con interminabili teorie di contenitori plastici dalla forma genericamente quadrata.
Alcuni aspetti sono necessariamente legati all'età anagrafica. Chi ha passato i trent'anni, ha necessariamente formato la propria cultura musicale acquistando dischi. Le radio negli anni '80 (soprattutto in Italia) trasmettevano quasi soltanto pop e canzoncine anni '60; le riviste musicali offrivano un panorama ristrettissimo e legato agli andamenti delle classifiche; la televisione aveva da poco scoperto il videoclip e non era ancora riuscita a sfornare nulla di meglio che Festivalbar e DeeJay Television (ne' sfornerà granchè di meglio in futuro).
L'acquisto dei vinili era pertanto una forma necessaria di scoperta musicale. Sebbene fosse possibile farsi passare qualcosa dagli amici, in sostanza il sapere derivava comunque da un vinile di partenza. Niente poteva essere "downloadato". La cassetta, diffusissima tra gli adolescenti, derivava anch'essa quasi sempre da un disco originale. Già il primo passaggio da cassetta a cassetta rendeva il suono ovattato e meno definito. Il secondo o terzo passaggio faceva passare la voglia di ascoltare il disco.
La realtà che ricordo era dunque fatta di acquirenti di dischi che poi facevano circolare il proprio acquisto in una cerchi di amici, dediti a loro volta all'acquisto ed alla condivisione. Chi aveva più dischi era spesso chi faceva più sacrifici per risparmiare le dieci o dodici mila lire necessarie. Quel sacrificio consentiva però di assumere maggiore importanza tra i propri conoscenti, maggiore potere di scambio, un'aura di "guru" che aveva anche un forte valore di scambio dal punto di vista sociale.
Credo che per molti la tendenza all'accumulo sia nata così. Pochi però l'hanno perseguita pervicacemente negli anni. Altre forme di sperpero consumistico si sono sovrapposte e stratificate, ed hanno infine avuto la meglio. Prima le uscite, le scarpe nuove, poi magari le vacanze, la macchina, infine le spese (affitto luce gas telefono), fino ad arrivare per alcuni a matrimonio e figli.
Sono pochi coloro che non cedono neppure di fronte a queste necessità. Alcuni, come chi scrive, sacrificano parte della loro vita sociale (capovolgendo paradossalmente il meccanismo che li ha resi acquirenti) e a volte anche quella affettiva (pensate cosa può pensare e dire la compagna di un maschio ultratrentenne che spende molti più soldi per i dischi che per le vacanze) pur di perseverare nella propria mania.
Il fatto è che la vita di tutti noi è fatta di mille cose più o meno inutili che galleggiano su un ineluttabile sostrato d'angoscia. Una paura non meglio connotabile che ci perseguita in modo costante, affiorando di tanto in tanto nelle notti insonni, negli attacchi di panico, nelle crisi d'ansia, nelle emicranie, negli accessi ipocondriaci che i nostri medici ben conoscono.
L'ansia che caratterizza l'uomo moderno, il sostegno della società consumistica. Ecco, il mio consumismo si manifesta così: consumo dischi. L'idea che tra un po' i dischi possano non essere più in vendita mi atterrisce. Il fatto che le cattedrali erette finora al dio Compact Disc possano essere abbattute mi inonda di pensieri funesti sul futuro.
Il mio consumismo assume però, a differenza di quello più generalizzato, il particolare aspetto del collezionismo. Il collezionismo è una forma maniacale che induce un individuo ad accumulare tutto ciò che riguarda un determinato oggetto o argomento. E la musica è un argomento sconfinato, che consente un collezionismo dalla durata indefinita, ma economicamente gestibile anche per un impiegato dei tempi moderni.
Il collezionismo, in ultima analisi, è anche un tentativo di prendere il controllo su qualcosa ("ho tutto di..."; "del tale mi manca solo..."). Azzardo allora una associazione libera. Cìè un'altra mania, poco diffusa ma ben nota, che nasconde il desiderio di prendere il controllo completo su qualcosa di estremamente sfuggente come la morte. Questa mania è la necrofilia. Ho sempre pensato che il collezionista fosse a suo modo un necrofilo, qualcuno che prima uccide ciò che compra (nell'acquisto di un disco a lungo ricercato c'è un atto di morte, la simbolica sconfitta di un nemico, un colpo d'ascia su una reificazione della propria ansia) e poi ne osserva compiaciuto il cadavere, ormai "acquisito", sul quale potrà sfogare il proprio potere.
Ecco, mi sento un necrofilo che accatasta dischi in stato di putrefazione per sfogare i propri impulsi ansiosi.
Se continuerete a leggere questo blog dopo aver letto questo post, o siete messi come me o avete problemi di altra natura.

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