31 maggio 2008

Nick Cave and The Bad Seeds - Alcatraz 28 maggio 2008

Qualche giorno per metabolizzare dovevo prendermelo. Non avevo tanta voglia di scrivere di questo concerto, ma mi pareva assurdo non buttare giù due righe, quindi eccomi qua.

Dico subito che Nick Cave ha dimostrato ancora una volta una vitalità indomita ed una grandissima capacità di tenere la scena. Eccellenti la sua grinta, l'ironia tagliente, l'affiatamento del gruppo.

Strana, da certi punti di vista, la scaletta proposta. E' stato suonato,com'era prevedibile, quasi per intero l'ultimo Dig, Lazarus, Dig: ben 9 pezzi degli 11 che compongono il disco hanno trovato spazio sul palco dell'Alcatraz. Per il resto però si è notata una scelta di brani che hanno spaziato praticamente in tutta la vecchia carriera, come a voler fare una specie di consuntivo. Ecco allora susseguirsi brani come Tupelo, The Mercy Seat, Red Right Hand, Deanna, Nobody's Baby Now, The Ship Song, Papa Won't Leave You Henry, addirittura Hard On For Love da Your Funeral, My Trial. Molto applaudite nei bis la splendida Into My Arms (unico estratto dal periodo "lento" di The Boatman's Call e No More Shall We Part) e la scatenata Stagger Lee da Murder Ballads.

Pare che Nick voglia passare un colpo di spugna su una parte della produzione che non aveva convinto del tutto i suoi fan, tornando ad un suono più grintoso e ad esibizioni più movimentate, e il pubblico presente ha sottolineato entusiasticamente il proprio apprezzamento per questo tipo di scelta.

Per molti versi la nuova impostazione paga: rispetto al precedente tour, nel quale la particolare materia sonora dei brani di Abattoir Blues / The Lyre Of Orpheus aveva richiesto la presenza di coriste (allargando un organico già nutrito) ed aveva reso estremamente variegata la proposta, con un certo inevitabile contrasto tra materiale più e meno recente, qui si è notata invece una maggiore compattezza, e lo scarto tra brani vecchi e nuovi non è mai risultato eccessivo.

Purtroppo non tutte le canzoni dell'ultimo album hanno retto, a mio parere, alla prova dal vivo. Forse anche a causa degli arrangiamenti, che in ceri casi dipendono da equilibri difficilmente riproducibili sul palco e che andranno maggiormente rodati.

Qui però interviene quella che per me è stata la vera nota dolente: l'acustica dell'Alcatraz purtroppo si è rivelata decisamente inadeguata al materiale proposto, rendendo difficile apprezzare gli arrangiamenti e impossibile cogliere le sfumature. Mi restano dunque dei dubbi sull'effettiva resa dei pezzi nuovi. Per la maggior parte della serata è stato difficile distinguere chi facesse cosa, e il suono, normalmente ricchissimo, della band si è ridotto quasi ad un rimbombo indistinto che spesso pareva anche un po' fuori tono rispetto alla voce, lasciando supporre che anche Nick avesse problemi con le spie. Un ensemble di grande capacità come i Bad Seeds merita cornici più adeguate che non discoteche e arene di medie dimensioni, pena un appiattimento decisamente immeritato. L'Alcatraz poi si segnala per un impastamento dei bassi che avevo notato anche qualche anno fa con i Bauhaus.

La gran parte del pubblico, in compenso, forse ormai assuefatto ad assistere a cose ben peggiori, non mi pare abbia notato più di tanto la cosa. Fortunati loro; io non posso dire di essermi goduto il concerto come sarebbe stato giusto.

24 maggio 2008

Jewels from paper

I "gioielli" raccolti in questo nuovo CD del gruppo industriale tedesco, altro non sono che il risultato di una serie di sessioni realizzate tra il 2006 e il 2007 e i cui risultati erano stati già resi disponibili come download per gli iscritti al sito ufficiale della band.

Materiale che proviene dunque da un percorso parallelo a quello che ha portato, mediante sedute di tipo più tradizionale, alla pubblicazione del recente ed acclamato Alles Wieder Offen.
E la differenza tra i due lavori si sente eccome, il che giustifica ampiamente la pubblicazione di un nuovo disco così a ridosso del precedente.

I 15 brani sono stati infatti composti in un modo estremamente particolare anche per i Neubauten. E' stato utilizzato un gruppo di carte, sviluppate da Blixa Bargeld ed utilizzate anche nel recente tour, sulle quali sono riportate delle indicazioni, di carattere non sempre strettamente musicale. In base a queste indicazioni i musicisti devono improvvisare le proprie parti.
Ogni membro del gruppo ha estratto almeno due carte per ogni composizione, con combinazioni spesso di ardua interpretazione. Nel libretto del CD sono riportate le carte estratte per ogni brano.
Un esempio: per la traccia Hawcubite, Blixa Bargeld ha estratto le carte "a high note", "to repeat", "to sing"; Alexander Hacke la combinazione "song", "eigthth", "in the centre"; N.U.Unruh ha avuto da fare con "scream", "loop", "to cut", "not at the beginning"; Jochen Arbeit si è cimentato con "voices", "less", "not played"; Rudolf Moser ha dovuto cavarsela con "not", "even more", "even earlier".

Quello alla base di Jewels è dunque un giochino, o un esperimento se si vuole usare un termine più nobile, ma un giochino che può portare a risultati estremamente interessanti se a praticarlo non sono gli ultimi arrivati, ma persone abituate da anni a trattare con materiali sonori irrituali ed originali.

E infatti l'album ha un'aura particolare, decisamente meno orecchiabile e più sperimentale rispetto alle pubblicazioni più recenti della band, ma anche stranamente accattivante, in quanto la necessità di esprimersi con improvvisazioni "guidate" ha costretto i cinque musicisti ad esprimersi in modo personale e spontaneo, con soluzioni astratte ma anche sorprendentemente efficaci.
Lungi dal riportare al primo periodo della band, in quanto manca della furia espressiva che era caratteristica peculiare dell'epoca, Jewels si pone però come contraltare alla composizione meditata che contraddistingue gli E.N. del terzo millennio. Un vero gioiello preziosissimo, dunque, per chi segue il gruppo ma anche per tutti gli amanti della musica industriale e dell'intelligenza artistica.

Da citare infine il bellissimo volumetto rilegato, un vero e proprio libro, che costituisce la confezione dell'album, contenente una lunga introduzione di Blixa Bargeld, spiegazioni dettagliate per ogni brano, testi in tedesco con traduzioni in inglese, fotografie.
Ulteriore bonus presente sul CD, un filmato Quick Time di circa 40 minuti, che testimonia la gestazione di alcuni brani. Mancano purtroppo i sottotitoli in inglese che avrebbero facilitato la fruizione... ma questo è decisamente un cercare il pelo nell'uovo.

22 maggio 2008

Breeders are back!!!

Per il sottoscritto è sempre bello comprare un disco della 4AD. Primo, perchè è difficile che un prodotto della ormai storica etichetta non sia anche un bell'oggetto (e in questo caso è particolarmente ben curato); secondo, perchè il marchio mi ricorda un periodo della mia adolescenza fatto di continue scoperte di artisti sorprendenti, scoperte fatte semplicemente acquistando album a casaccio dal catalogo 4AD: per trovare dei piccoli capolavori bastava lasciarsi ispirare dalle copertine e dai nomi dei gruppi (This Mortal Coil, Dead Can Dance, Clan of Xymox...).

In questo caso si è aggiunta la sorpresa si poter mettere le mani, inaspettatamente, su un nuovo disco delle Breeders. Il primo album del gruppo di Kim Deal (bassista dei grandissimi Pixies) vide la lce nel 1990, ed era quel Pod che Kurt Cobain una volta dichiarò essere il suo disco preferito. Seguì lo splendido Last Splash nel 1993, e dopo di allora nei negozi era apparso il solo Title TK, nel 2002. Non si può dire che il marchio Breeders sia stato molto assiduo o prolifico nella sua produzione: con quest'ultimo fanno quattro dischi in 18 anni.
Fortuna invece che la qualità della proposta è rimasta sempre eccezionalmente alta.

La formazione di Mountain Battles è sostanzialmente quella di Title TK: alle gemelle Deal (Kim e Kelley, chitarre e voci) si affiancano Mando Lopez al basso e Jose Mendelez alla batteria. L'album è stato registrato in un numero di diversi studi con differenti ingegneri (tra i quali si nota la presenza di Steve Albini), il che fa pensare ad uno sviluppo probabilmente non lineare nella lavorazione.

Il disco snocciola 13 canzoni in 36 minuti, confermando alcuni tra i clichè della band ma proponendo anche qualcosa di nuovo, sorprendendo ancora una volta per vitalità e alto livello di scrittura.

Si parte in accelerazione, con l'ubriacatura di Overglades, un lungo ritornello spacciato per canzone, e si transita subito dopo per Bang On, coretti e inserti trattenuti di chitarra su un inusuale loop "big beat". Subito dopo tocca a Night Of Joy calare il ritmo, una ipnotica ballata in tono minore che fa tornare alla mente i primi lavori della band. Toni simili per We're Gonna Rise, mentre German Studies è un indie rock dal riff orecchiabile e dal testo in tedesco (con pronuncia - serve dirlo? - assolutamente discutibile) . Spark, tutta giocata sulle dissonanze, e Istanbul, con un adorabile ritornello psicotico, sono due gioiellini nel più puro stile Deal. Walk It Off è il primo brano davvero pop del disco, graziosa ma non eccelsa. Segue la cover di Regalame Esta Noche, una ballatona ispanica del compositore messicano Roberto Cantoral, non di mio gusto ma piacevole. Si resta nel regno delle chitarre acustiche con il folk di Here No More, ma il rock è dietro l'angolo ed ecco infatti subito la bordata indie di No Way a rialzare i toni. It's The Love è la seconda cover dell'album, una canzoncina decisamente banale che si sarebbe potuta tenere fuori senza troppi rimpianti. Fortunatamente chiude con molto maggiore dignità la bellissima Mountain Battles, unico brano che rischia di raggiungere i 4 minuti (ma non ce la fa per una manciata di secondi), musica aliena con le voci delle gemelle Deal su una struttura scheletrica punteggiata dall'organo.

Produzione che privilegia soluzioni low-fi, come da tradizione. L'album sfoggia un suono da scantinato e sembrerebbe suonato di getto, anche se Kim Deal ha dichiarato che stavolta sono state fatte un po' di sovraincisioni.

L'album ha suscitato reazioni non sempre positive, ma pur nel rispetto delle opinioni altrui, vorrei che qualcuno mi spiegasse cosa è uscito di meglio in ambito indie rock in questo ormai quasi mezzo 2008... long live Breeders.

13 maggio 2008

Amori miei

Ci sono serate nelle quali non si ha alcuna voglia di pensare al presente. Il televisore resta spento, il libro sul comodino viene aperto per essere subito richiuso, il telefono viene lasciato a riposo. Lavoro, faccende, interessi, tutto appare inadeguato ad uno stato d'animo che cerca solo quiete. In serate come queste sembra impossibile dedicarsi all'ascolto di un disco nuovo, che richiede attenzione e capacità di giudizio all'erta. Ecco allora che lo sguardo scorre al setaccio i titoli, alla ricerca di dischi noti e arcinoti, il cui ascolto non possa che rilassare la mente e appagare l'animo. Sono i dischi amici, quelli che per un motivo o per l'altro hanno travalicato la propria essenza di oggetti musicali e sono giunti a rappresentare una parte di noi. In genere sono associati ad un periodo della vita, o ad una versione di se'. A volte ricordano specifici episodi, a volte hanno vissuto con noi talmente a lungo che non ci sembrano ne' vecchi ne' nuovi. Spesso sono reperti archeologici, tracce delle stratificazioni dei sedimenti umani dell'individuo che li ha accumulati.

Non sono così tanti, questi dischi, e non sempre coincidono con quelli che si ritengono più validi, più importanti, più universali, più rappresentativi artisticamente o storicamente. Non necessariamente li si considera belli, o più belli di altri.
Li si ama.

Stasera è una di quelle sere, e avevo bisogno di uno di quei dischi. Il dito si è posato su Seventeen Seconds dei Cure. Mi sono domandato quali fossero gli altri dischi che potessero stargli a fianco.
Dopo un po' di riflessione (che è stata utile a dimenticare altre faccende), sono arrivato a qualche conclusione, e ve ne rendo conto qui di seguito, con qualche veloce annotazione.
Ho scelto l'ordine alfabetico per pura comodità.

In genere non sollecito i commenti, ma in questo caso mi farebbe piacere se voleste lasciare qualche titolo di vostri dischi "amici".

* Alice In Chains Dirt (1992)

Layne Staley è la figura più tragica del grunge. Morto solo e dimenticato per gli effetti della propria dipendenza, non è assurto alla gloria di Kurt Cobain ne' allo status di figura di culto. E' un'ingiustizia assoluta, perchè Dirt è l'album più imitato degli anni '90 (merito però soprattutto della chitarra di Jerry Cantrell). Ascoltate i Black Label Society, e ditemi se non è vero. Me lo prestò un amico e fu folgorazione istantanea.

* And Also The Trees The Evening Of The 24th (1986)

Un live che testimonia il tour di Virus Meadow (secondo album della band dei fratelli Jones). Un disco intenso e vibrante, con capolavori come Slow Pulse Boy, Shantell, Gone... Like The Swallow. Ascoltato mille e mille volte, mi ricorda in particolare una serie di notti in sacco a pelo.

* Bauhaus Burning From The Inside (1983)

Del gruppo di Peter Murphy, fondamentale per la mia formazione, avrei potuto scegliere In The Flat Field o The Sky's Gone Out, ma qui ci sono brani a cui sono legato in modo più profondo (She's In Parties, King Volcano, Slice Of Life...). Un disco che ascolto sempre con piacere intenso e che mi sorprende ancora per la direzione imprevedibile che la band glam - goth - punk - wave (etc?) stava prendendo. Peccato non ci sia stato un seguito.

* Biosphere Patashnik (1994)

Un'immersione negli spazi più profondi, esterni ma soprattutto interni. Suoni glaciali, ritmi jungle sottilissimi e voci tratte da film di fantascienza (epocale il primo brano affidato alle due raggelanti gemelle che recitano "I had a dream last night / We had the same dream"). Un album che ascolterei all'infinito e che mi ricorda un'estate lontanissima.

* Black Sabbath Black Sabbath (1970)

Un disco che non bisogna spiegare. La voce di Ozzy e la chitarra di Tony Iommi definiscono coordinate che resteranno scolpite nella storia della musica. Un album plumbeo, brumoso, pesante e che si stratifica nelle zone più oscure dell'anima. Inevitabile come la notte dopo l'imbrunire.

* David Bowie 1.Outside (1995)

Il grandissimo ritorno del Duca Bianco all'arte dopo quasi tre lustri di sbandamento.
Il disco trae la propria materia dai peggiori incubi della società occidentale di fine millennio, sporcando di sangue le pareti delle stanze in cui viene riprodotto. All'epoca dell'uscita ne fui talmente affascinato da ascoltarlo ripetutamente per mesi. Nonostante l'evidente uso di trucchetti e manierismi di ogni genere, Bowie riproduce un'atmosfera che ognuno di noi ha dentro e che non si può fare a meno di riconoscere.

* Cabaret Voltaire Methodology '74/'78. Attic Tapes (2002)

Di tutti i dischi del gruppo di Sheffield, che costituiscono, almeno fino alle uscite dei primi anni '80, un unico mantra ininterrotto, preferisco questa raccolta di nastri del primo periodo, quando il loro sperimentalismo assoluto produceva materiale ipnotico e densissimo, grazie ad un cut-up forsennato e privo di alcuna sovrastruttura tecnica o culturale. Minuto dopo minuto si svolge un'apocalisse tecnologica che spiega la crisi della società occidentale, senza pronunciare una sola parola.

* Christian Death Only Theatre Of Pain (1982)

Un gruppo inglese, che si sarebbe preoccupato dal senso del ridicolo, non sarebbe mai riuscito a creare questo incredibile capolavoro, come invece riuscì alla band statunitense formatasi attorno al carismatico e tormentato Rozz Williams. Basterebbe Romeo's Distress a rendere questo disco uno dei miei ascolti preferiti di sempre. Non so esattamente perchè, ma mi ricorda la prima volta che mi chiusi in bagno per tagliarmi i capelli di nascosto, un evento fondamentale della mia primissima adolescenza.

* Cocteau Twins Garlands (1982)

A riascoltarlo oggi non mi spiego come si potesse dire che imitassero Siouxsie. La voce di Liz Fraser è purezza assoluta, brinata dalla batteria elettronica gelida e cullata dai giri di basso lineari ma estremamente profondi. La chitarra aggiunge un elemento d'ansia che dona al mosaico le necessarie incrinature. Bellissimo.

* The Cure Seventeen Seconds (1980)

Il più grande disco dei Cure. Un lavoro perfetto, nota dopo nota. Non c'è nulla che si potrebbe migliorare. La voce di Smith scava nella mente dell'ascoltatore e vi si insinua con prepotenza, pur non attingendo mai a registri sopra le righe. Ipnotico, freddo, eppure coinvolgente ed emotivamente densissimo. "Seventeen seconds, it's a measure of life".

* Eurythmics 1984 (For The Love Of Big Brother) (1984)

La mia adolescenza è fatta anche di tanti dischi pop dalle atmosfere ammalianti. 1984 è una splendida colonna sonora, mai utilizzata, pensata per il film di Michael Radford. Al di là della famosissima title track, in quest'album ritrovo brani indimenticabili come Julia, Doubleplusgood, Room 101.

* Fates Warning Perfect Simmetry (1989)

Il primo disco metal che mi abbia affascinato e convinto dall'inizio alla fine. La produzione, non troppo brillante, forse ha contribuito a questo fascino, con suoni non propriamente metal e un mix bizzarro. Grandissima la voce di Adler, che al di là della composizione - a volte ingenuamente prog - riesce a scavare un solco profondo che rende decisamente coeso l'album. In seguito i Fates Warning hanno fatto di meglio, ma questo disco resta il mio riferimento.

* Frankie Goes To Hollywood Liverpool (1986)

Benchè il poliedrico e furbetto Welcome To The Pleasure Dome sia sicuramente superiore, questo secondo e ultimo album è un meraviglioso esempio di come la personalità artistica possa prevalere su logiche di vendita. Scaricando la super-produzione di Trevor Horn, i Frankie in queste 10 canzoni si liberano delle stratificazioni sonore e dei re-re-remix del primo album e danno libero sfogo a se' stessi. Con qualche luce e qualche ombra, ma io resto affezionatissimo a quest'opera sfortunata e interessante.

* Peter Gabriel Peter Gabriel (IV) (1982)

Non amo più così tanto la carriera solista di Peter Gabriel, nella quale oggi mi pare di trovare una grandissima successione di innovazioni tecniche e di linguaggio ma non troppa musica memorabile. Però questo disco esercita ancora un discreto fascino su di me, ed è sicuramente quello più equilibrato e più moderno tra i 4 "omonimi".

* Gentle Giant Three Friends (1972)

Un gruppo di tecnicissimi professori d'orchestra che sforna una delle opere più disturbanti della storia del rock. Ascoltate l'ultimo brano senza sentirvi completamente pazzi, se ci riuscite. Un disco ineguagliato, che dà un senso a tutto il progressive anni '70 (sempre che sia possibile).

* Joy Division Unknown Pleasures (1979)

Assoluto. Non mi pare ci sia bisogno che io spieghi cosa renda quest'album imprenscindibile. Tutt'oggi lo ascolto con un senso di devozione assolutamente irrazionale. Cosa c'è di più prezioso?

* Love And Rockets Love And Rockets (1989)

Psichedelia elettrica per questo quarto lavoro del controverso gruppo composto da Daniel Ash, David J e Kevin Haskins (i Bauhaus senza Peter Murphy). Sebbene abbiano sfornato anche un sacco di roba discutibilissima, riconosco ai Love & Rockets una originalità ed una capacità di scrittura difficilmente eguagliabili. Sarebbe decisamente meglio indicare Pop dei Tones On Tail come disco da ascoltare (la formazione è quasi la stessa), ma Love And Rockets l'ho scoperto all'epoca dell'uscita. E ciò lo rende per me prioritario.

* Massive Attack Mezzanine (1998)

Protection è sicuramente più importante nella discografia del gruppo di Bristol, ma Mezzanine ha qualità a me più congeniali e mi ricorda una serie di viaggi in auto in un periodo interessante della mia vita. Risingson, Inertia Creeps, Mezzanine, definiscono territori cupi e avvolgenti nei quali mi perdo molto volentieri. Il sample di 10:15 Saturday Night in Man Next Door è la ciliegina su un album del quale non mi sono ancora mai stancato.

* Ozric Tentacles Arborescence (1994)

Scelgo Alborescence dalla sterminata discografia di questi figli dei fiori psichedelici ed elettronici, probabilmente sottovalutati dalla critica proprio per la loro apparente ripetitività, solo perchè è il primo album che ho acquistato e ascoltato ossessivamente. Diede inizio ad un anno di "Ozric immersion", nel quale ne imponevo l'ascolto a chiunque mi circondasse. Chiedo scusa, a posteriori, ma il disco è ancora nella mia top 50.

* Pink Floyd Animals (1977)

Il primo album dei Pink Floyd da me ascoltato. Ricordo alla perfezione la panchina sulla quale ero seduto, il colore del walkman, il proprietario della cassetta. Eppure era, ahem, qualche annetto fa. Una scoperta fulminante, avvenuta tramite il più oscuro e meno conosciuto dei dischi del gruppo di Roger Waters. Animals ha una viscosità paludosa che manca agli altri lavori dei Floyd, e tuttora mantiene per me un fascino del tutto particolare.

* Portishead Dummy (1994)

Gli anni '90 dovevano pur servire a qualcosa. Oltre ad una buona manciata di album grunge, della decade ci resta soprattutto la primissima ondata di dischi trip-hop (nella seconda ci furono solo inutili rifacimenti e scivolate in territori troppo pop). Dummy è un disco indefinibile che ho ascoltato tantissimo.

* The Sound Jeopardy (1980)

"We will wait / for the night / we will wait". Un verso banalissimo ma scolpito nel cervello dalla linea di basso che lo sostiene. Un astro luminosissimo ma quasi dimenticato, inciso da un gruppo poco fortunato al quale gli U2 devono più che un suono di chitarra e qualche spunto.
Hour Of Need basterebbe a giustificarne l'acquisto.

* Stone Temple Pilots Purple (1994)

Non so se il disco si sia sempre chiamato così o se sia stata una decisione postuma. Io lo chiamavo "12 Gracious Melodies" come recita la scritta sul retro della copertina. Quando Scott Weiland cantava le sue filastrocche da tossico e pestava su tasti dolorosi ma orecchiabili. Un disco che ha venduto tantissimo ma che stranamente non li ha trasformati in superstar. Mi ricorda troppe cose per dirne una sola.

* Talk Talk Spirit Of Eden (1988)

Un grande gruppo pop che si trasforma in un grande gruppo. Fusione inedita tra mille linguaggi musicali diversi, un disco che realizza quello che tanti promettono e basta. Musica libera che può trasportarti ovunque. Pigia play, chiudi gli occhi, e vedrai.

* This Mortal Coil It’ll End In Tears (1984)

La miracolosa raccolta di brani realizzati da esponenti di gruppi della 4AD di Ivo Watts Russell. Uno scrigno delle delizie che trova i suoi punti più alti in due meravigliose cover: Song To The Siren di Tim Buckley e Not Me di Colin Newman.

* Underworld Second Toughest in The Infants (1996)

Un disco che mi ha ipnotizzato per mesi e mesi. La rivelazione di come qualcosa di ballabile e accessibile potesse anche essere ammaliante e intellettualmente elettrizzante. Un album che ho ascoltato fino alla nausea e che posso mettere su anche in questo istante senza annoiarmene. Al di là della sua apparenza, un grandissimo disco pop concettuale.

* Van Der Graaf Generator The Least We Can Do Is Wave To Each Other (1970)

Casa di mio cugino, anno 1988 o giù di lì, questo disco nel piatto per ore ed ore.
Peter Hammill era il mito di Johnny Rotten, lo sapevate?

* Virgin Prunes If I Die, I Die (1982)

A metà degli anni '80 avevo una cassetta di quelle brutte, registrata male, copiata da una cassetta copiata. Su un lato c'era una raccolta degli Alien Sex Fiend, sull'altro questo grandissimo capolavoro, un assurdo incrocio tra musica da baraccone (fornita da Gavin Friday, Guggy e compagnia) e produzione raffinata (affidata al genio di Colin Newman). Tra la cantilena di Sweet Home Under White Clouds, il cabaret di Decline And Fall, il pop sghembo di Baby Turns Blue, il post punk di Walls Of Jericho, c'è un campionario teatrale indimenticabile.

* Velvet Underground The Velvet Underground & Nico (1967)

Banale, vero? E' in questa lista perchè mi sono rifiutato caparbiamente di ascoltarlo per anni e anni. Ho capitolato a terzo millennio già iniziato, scoprendo, naturalmente, quanto avessi sbagliato. Mi fa inevitabilmente tornare alla mente una certa stanza di una certa casa in un certo quartiere di una certa città.

* Voivod Nothingface (1989)

Qualsiasi disco dei Voivod potrebbe rientrare in questa lista. Il più grande gruppo metal di sempre (in questa sede posso permettermi questa iperbole altrimenti discutibile). Nothingface rappresenta il passaggio tra il periodo più trash e quello più prog, ma è attraversato come tutta la loro produzione da sonorità acide e incubi psico-fantascientifici. Nulla supera la chitarra di Piggy quando si ha bisogno di qualcosa che scavi tra i neuroni e li faccia saltare in aria. Sono certo che nel Paradiso del metal ora siede nel posto che gli spetta.

* Wire 154 (1979)

La fine del punk, l'inizio della new wave.
Non è vero al 100%, naturalmente, ma è quello che mi viene da pensare quando ascolto questo disco.
I Wire al meglio del loro primo periodo.

Wire: nuovo album + live (gratis) a Torino

Object 47, il nuovo album dei Wire, sarà disponibile il 7 luglio di quest'anno.

Nell'attesa di poterlo ascoltare - e confesso una certa trepidazione, vista la sorprendente freschezza del recente EP Read & Burn 3 - vi segnalo che quelli che vengono considerati i padri della new wave suoneranno l'11 luglio al Traffic Torino Free Festival, una manifestazione che si ripete con successo ormai da qualche anno e che si contraddistingue per l'assoluta gratuità della proposta.

Sul sito ufficiale del Festival, al momento in cui scrivo, c'è ancora il programma dell'anno scorso, ma per la data dell'11 luglio 2008 pare certa la partecipazione dei Wire e dei Sex Pistols come headliner.
I Sex Pistols dal vivo, tolto il piacere di rivedere Johnny Rotten, mi interessano fino a un certo punto: è pur sempre una band che rifà se' stessa in modo meramente autocelebrativo (museo del punk, insomma) . Il gruppo di Colin Newman, Graham Lewis e Robert Grey è invece quanto di più vitale si possa immaginare, e assistere ad una esibizione in coincidenza dell'uscita di un nuovo album sarà certamente una bella esperienza. Mi accadde la stessa cosa nel 2003 all'uscita di Send, e mi ritenni decisamente fortunato.

9 maggio 2008

Rush: un disco, un live, un disco, un live...

Premessa necessaria: amo i Rush, ho tutti i loro album, li considero un esempio incredibile di tecnica, fantasia e vitalità concentrati in tre individui.
Certo, una parte della loro produzione è discutibile, e non sempre il livello è stato mantenuto costante, ma un paio di capolavori per album non sono mai mancati, anche quando il numero di dischi all'attivo diventava pericolosamente alto.

Passo però ora a spiegare il motivo per cui non ho alcuna intenzione di acquistare questo ennesimo album dal vivo.

Una volta la testimonianza live era una eccezione nella discografia di una band, anche quando erano in gioco gruppi famosi per le loro eccezionali esecuzioni.

Jimi Hendrix, che non era certo un signor nessuno sul palco, pubblicò nella sua intera carriera un solo album live, a fronte di tre dischi in studio e di una marea di singoli. I Genesis diedero alle stampe, controvoglia, un live solo dopo il quarto album, e quello successivo arrivò solo diversi dischi più tardi (e nel frattempo era cambiato il cantante).

Gli stessi Rush hanno seguito negli anni '70, '80 e '90 una impressionante regolarità nell'uscita dei propri live. Il primo (All The World's A Stage, 1976) venne dopo il quarto album in studio; il secondo (Exit... Stage Left, 1981) dopo l'ottavo; il terzo (A Show Of Hands, 1988) dopo il dodicesimo; il quarto (Different Stages, 1998) dopo il sedicesimo.

Quattro dischi di inediti, poi un live, per quattro volte. Uno schema la cui ripetizione, pur denotando un certo autismo robotico, rispettava dei tempi fisiologici. Appena c'era a disposizione abbastanza nuovo materiale da poter sollecitare legittimamente la curiosità dei fan, si assemblava un disco che ne testimoniasse la resa dal vivo.

Qualcosa in questo meccanismo si è rotto (e non solo per i Rush, che uso qui solo a mo' di esempio, ma per tanti gruppi sia vecchi che nuovi), all'incirca con l'inizio del terzo millennio.

Alla successione di uscite già citata si era aggiunto in studio il solo Vapor Trails (2002) prima che i Rush tirassero fuori il doppio live Rush In Rio (2003). E a questo era seguito il solo EP di cover Feedback (2004) prima che venisse pubblicato un altro doppio live: R30 (2005). Se Rush In Rio poteva trovare giustificazione nella lunga pausa tra un album e l'altro (Vapor Trails seguiva Test For Echo precedente di 6 anni), e se anche vogliamo giustificare l'uscita di R30 con il trentennale della band e con la scarsa resa sonora di Rush In Rio, proprio non riesco a digerire l'idea che dopo un solo nuovo album di studio (il non troppo esaltante Snakes & Arrows dello scorso anno) si sia già sentito il bisogno di portare nel negozi l'ennesimo doppio album dal vivo, rispondente tra l'altro al nome non brillantissimo di Snakes & Arrows Live.

D'accordo, i nostri suonano come nessun altro, e ascoltare le loro esecuzioni è sempre una festa per le orecchie; va bene anche osservare che alcuni brani presenti nel nuovo live non venivano riproposti da decenni; posso anche comprendere che qualcuno sia smanioso di ascoltare qualche brano dell'ultimo disco nell'arrangiamento del tour.
Ma io questa volta i soldi non li tiro fuori.

2 maggio 2008

Polyrock: from Glass to Rock

Il panorama del post punk è vastissimo e costellato delle cose più diverse, con decine e decine di gemme nascoste e quasi del tutto dimenticate. Fortunatamente, in questi ultimi anni c'è stato un vero diluvio di ristampe (vedi i Cindytalk di cui ho parlato giusto qualche giorno fa, oppure le riedizioni dei gruppi italiani dei primi '80, curate in Italia dalla Spittle, tanto per citare questo stesso blog).

Oggi sottopongo all'attenzione dei miei tre lettori la ristampa (uscita da qualche mese ma solo da poco disponibile nei negozi italiani) dei due album dei newyorchesi Polyrock.

Molto lontani dalle asperità del punk, così come dalle spigolosità estreme della no wave - che aveva visto la luce nei locali della loro città - e dal nascente panorama noise americano, i Polyrock erano caratterizzati invece da una grande cura formale e da una ricercatezza che li rende del tutto atipici nel panorama di quegli anni.

L'unico gruppo al quale sono stati accostati sono i Talking Heads, con i quali in effetti condividono alcune scelte ritmiche ma non l'attitudine funky. In effetti la particolarità principale della proposta del gruppo sta nella scelta di introdurre elementi del minimalismo (inteso come genere musicale) all'interno della composizione di brani pop-rock. Una scelta sottolineata dalla produzione, affidata al noto compositore Philip Glass, uno tra i principali esponenti, nonchè fondatore, del minimalismo (benchè da sempre avversatore dell'uso di questo termine per la descrizione della propia musica).

Sia Polyrock (1980) che Changing Hearts (1981) sono collezioni di composizioni pop dal taglio decisamente new wave, con una evidente predominanza delle tastiere ed un particolare uso delle voci, spesso sfruttate in modo "strumentale". E' in questi due elementi che si denota la maggiore influenza "glassiana", anche se va sottolineato che, date le premesse, non è avvertibile un eccessivo peso della produzione, che lascia spazio ad una componente originale e personale. Va inoltre sottolineato che analoghi esperimenti del compositore americano nella stesura di "canzoni minimali" (vedi il non eccezionale Songs From Liquid Days, 1986) hanno portato a risultati decisamente differenti.

Entrambi gli album, pur con qualche ingenuità (nel primo più che nel secondo), conservano tuttora una certa freschezza e si ascoltano con estremo piacere. A dispetto della formula, che sulla carta poteva essere piuttosto "fredda". Merito anche delle eccellenti influenze dell'epoca (si colgono elementi che portano alla mente di volta in volta Devo, Magazine, Gang of Four, Ultravox, e così via) ma decisamente nei Polyrock c'erano delle potenzialità che sarebbe stato interessante vedere sviluappati in una discografia più estesa. Qualcosa del possibile cammino della band si poteva già intravedere in un successivo EP, senza la produzione di Glass, ma dopo la distribuzione del disco il gruppo si sciolse.