28 ottobre 2008

4:13 Dream comes true

E infine eccolo qua, l'album di cui ho parlato e riparlato.
Uscito con un po' di ritardo rispetto alla data inizialmente prevista (che avrebbe dovuto essere il 13 settembre), il nuovo disco dei Cure (tredicesimo della carriera) non fa rimpiangere l'attesa, mostrandosi molto al di sopra delle aspettative e, pur con i limiti di cui parlerò più avanti, riportando i Cure ad un livello di forma che mancava ormai da tre lustri.

Gran parte del merito si deve probabilmente al reintegro dei ranghi dello storico membro Porl Thompson, avvenuto nell'intervallo tra il precedente The Cure ed il nuovo 4:13 Dream, ed al contemporaneo snellimento della formazione che ha perso (per motivi mai chiariti, ma pare per licenziamento in tronco) del chitarrista Perry Bamonte e del tastierista Roger O'Donnell.

A prescindere da valutazioni sul merito dei singoli componenti, passati e presenti, è evidente quanto il sound della band tragga giovamento dal cambio, arricchendosi di tonalità che erano decisamente mancate nell'appiattimento degli ultimi due album.

Ma 4:13 Dream gioca soprattutto la carta del revival, riportando gli orologi dalle parti del 1992, e pescando a man bassa dai luoghi comuni dei Cure di Disintegration e di Wish, ma anche da prima ancora se si considera ad esempio che il brano Sleep When I'm Dead pare provenga dalle session di The Head On The Door (1985). L'operazione, dal punto di vista musicale, funziona: le tredici canzoni convincono per spessore ed interpretazione, il disco scorre via che è un piacere ed offre anche una discreta variazione di stati d'animo (ricordate i selvaggi cambi d'umore del 1996?), sebbene sia stato assemblato con una maggioranza di composizioni upbeat e con diversi potenziali singoli oltre ai quattro già pubblicati.

Per contro, è proprio questo effetto deja-vu a rappresentarne la principale debolezza. I Cure oggi sono un gruppo che torna indietro e non presenta nulla di nuovo, sterzando da una strada che si stava rivelando infruttuosa ma effettuando una inversione ad U che non punta certamente verso il futuro. Sarebbe stato certamente difficile aspettarsi qualcosa di diverso dopo più di trent'anni di carriera; ma Bobby Smith non era quello che aveva dichiarato da qualche parte negli anni '80 che i "dinosauri" erano da disprezzare e che i gruppi dovrebbero sciogliersi al terzo album proprio per evitare la ripetizione? Beh, sicuramente l'età e l'esperienza hanno mutato la sua opinione.

Il set inizia con Underneath The Stars, che riparte dai campanellini che aprivano Disintegration, e riproduce fedelmente il mood di quell'album così amato dai fan. L'atmosfera sognante e le sonorità stratificate del primo brano vengono però subito smentite da The Only One, il primo dei quattro singoli estratti dall'album. Una canzone pop in perfetto stile Smith, che ricorda da vicino lo stile di Wish. Forse non particolarmente brillante, ma finalmente, dopo una infilzata di songoli molto fiacchi negli anni scorsi, ammiccante al punto giusto e con un ritornello che si ficca in testa. The Reasons Why è un bel brano dallo sviluppo tutt'altro che banale, caratterizzato da tante chitarre e dal basso a 6 corde, e da un eccellente chorus che si candida tra le migliori cose del disco. Freakshow è il secondo singolo, una ventata di genio funky che avrebbe potuto comparire nella scaletta di Kiss Me, molto radiofonica e con una frizzante interpretazione vocale. Sirensong è una piccola canzone che riporta subito alla mente le cose migliori di Wild Mood Swings: una chitarra slide e poche note di piano sul tessuto intrecciato dal basso danno vita ad uno dei momenti più esotici del lotto. The Real Snow White è invece la composizione che più si avvicina nello stile all'album precedente, e pur avendo una certa presa non mi pare degna di grande nota. Vanta un ritornello discreto e non molto altro. The Hungry Ghost è di tutt'altra pasta: ha uno sviluppo interessante e si fregia soprattutto di un grande Thompson, soprattutto in veste solista nel finale. Segue Switch, un rock frenetico assimilabile a diverse esperienze precedenti: chitarra wah in puro "stile Porl", grande lavoro di effetti sulla voce. The Perfect Boy, terzo e più debole tra i singoli, ci riporta con i piedi sulla terra: una canzoncina gradevole (sempre al di sopra dei singoli di The Cure) ma nulla di più. La successiva This. Here and now. With You, pur con analoghe caratteristiche pop, si pone ad un livello molto più alto, grazie anche ad un arrangiamento più originale ed all'ottima parte vocale. Sleep When I'm Dead è il quarto singolo e forse il migliore: intro memorabile, strofa scatenata con Gallup preciso come un martello funky e Thompson alla rifinitura, ritornello alla Cure anni '80 che di più non si può. Certamente un regalo per i fan di vecchia data. The Scream sterza infine verso un sound più orientaleggiante ed oscuro, abbandonando le velleità pop e restituendoci i migliori Cure alla The Top, con un crescendo delirante che si sfoga più volte con le urla di uno Smith in gran spolvero. Si chiude con la splendida It's Over, un quattro quarti rock che conserva lo spirito del brano precedente e si inserisce nella tradizione dei finali "alla Cure" (vedi Fight ed End, per citarne solo due).

Il bilancio è di almeno quattro grandi canzoni rock e di un paio di ottimi singoli, con il restante materiale ben sopra la media: niente male, a conti fatti. Chiudo con la speranza che il fantomatico "dark album" - a quanto pare ricavabile dai brani più lenti realizzati nelle sessioni per questo disco, che avrebbero partorito circa ventisei canzoni - veda effettivamente la luce e ci offra un panorama analogo in quanto a qualità e varietà.

26 ottobre 2008

La strada del pop, la strada del porno

Fare pop in modo intelligente non è una cosa facile, e per convincersene basta buttare un occhio - e un orecchio - alla smisurata produzione anglosassone, che ormai da almeno un decennio accumula insensatamente successi effimeri tutti uguali e tutti tristemente insipidi, che lasciano labilissima se non nulla traccia nella memoria.

C'è invece una tradizione che vede nel pop l'ambiente in cui alto e basso si mescolano, producendo un effetto accattivante ma al tempo stesso dotato di fascino, con un pizzico di mistero che consente di vivere una canzone come pretesto per sognare, per immaginare mondi possibili.

Inutile dire che gli anni '80 furono la culla di questa attitudine: potrei citare mille nomi, ma un esempio su tutti potrebbero essere gli Eurythmics dei primi album, che offrivano ritmi ballabili, melodie intriganti, atmosfere evocatice, una grande voce e un alone di totale mistero che avvolgeva l'androgina Annie Lennox col proprio carico di sensualità aliena.

Tutto ciò, per dire che i due di Lecce che hanno deciso di mettere su la ragione sociale Il Genio devono essersi detti: ok, facciamo un disco pop, ma cerchiamo di farlo intelligente.
Ora, a prescindere dal fatto che forse hanno detto in tutto un altro modo, e che l'uso della parola "intelligente" potrebbe essere ribaltato e ritorto contro il senso di ciò che sto scrivendo, il succo della faccenda è che questo disco italiano, piccolo piccolo nelle intenzioni (tanto da essersi meritato l'orrida etichetta di "indie pop", come se il pop potesse per vocazione aspirare a localini bui con quattro gatti ai tavoli), si è rivelato invece di grandi aspirazioni ed altrettanto grandi possibilità.

La miscela è perfetta: una ragazza dalla voce sottile sottile e intenzionalmente (caricaturalmente, stavo per dire) tenuta in un falsetto eccessivo, da cartone animato, che dà un qualcosa di erotico (e un po' ochesco, che è perfettamente erotico) a qualsiasi cosa canti; un impianto musicale fatto di elettronica in apparenza minimale ma in realtà ottimamente arrangiata, che si pone in una tradizione che va dagli italiani Chrisma ai già citati Eurythmics; un sistema di rimandi culturali al cinema francese, con l'immediata associazione a Serge Gainsbourg e Jane Birkin; il fascino della reiterazione, che sapientemente fa sì che le canzoni dell'album siano splendidamente "tutte uguali", creando una riconoscibilità che è essenziale nel pop (un certo Andy Warhol aveva già dimostrato chiaramente il concetto).

Certo, qualcuno potrebbe bollare l'album come effimero: ma sta proprio qui il gioco, riconoscere le colate di autoironia, saper vedere in tutta chiarezza come questo sia un "prodotto", ed ammirare proprio questa costruzione, questa premeditazione.

Questi sono dischi che li lanci lì e aspetti che lentamente si mettano a rotolare, per arrivare chissà dove. Prima dell'estate li conoscevano in pochissimi, giusto quelli che fanno attenzione alle piccole produzioni italiane. Poi si è affacciato su MTV il video di Pop Porno: una canzoncina ambigua e maliziosa, dal testo stuzzicante e fintamente ingenuo, coadiuvata da un filmato forse non brillante ma con le citazioni giuste per farsi notare (Pulp Fiction). L'effetto è istantaneo: in rete ci si comincia a chiedere chi siano questi due, spuntano detrattori ed ammiratori, si commenta il video, c'è chi vede la citazione a Tarantino e chi la nega, proponendo altre fonti di ispirazione. Il disco nel frattempo percorre la sua piccola strada, vende qualche copia in più, cresce silenzioso negli scaffali.

Ma la strada del pop porta sempre da qualche parte: il pezzo finisce a Quelli che il calcio, trasmissione ormai sempre più thrash: la Ventura nazionale lo canticchia, gli ospiti lo storpiano riuscendo a sbagliare la metrica del ritornello, la parola "porno" a ora di pranzo della domenica fa il resto: tutti hanno sentito la canzone, qualcuno la mormora tra i denti andando al lavoro, qualcuno ne è un po' infastidito, qualcuno ne resta affascinato.

Perchè la strada del pop passa dappertuto, anche per luoghi che un artista magari non pianificherebbe: il pop si scioglie nella società che lo circonda, assume una sua vita nelle sinapsi della gente, realizza, insomma, la propia vocazione. E lo fa quasi da solo, giusto con qualche necessaria spintarella, soltanto se è genuinamente pop.

25 ottobre 2008

La musica ora si compra in francobolli

E prima o poi doveva accadere: ecco qui l'ultima genialata partorita dai cervelloni delle quattro grandi major discografiche (Emi, Sony BMG, Universal e Warner).

Soppiantato il vinile (anche se sta vivendo una sorta di revival, ma questo è un altro discorso), dichiarato prematuramente morto il compact disc, si passa finalmente ad un supporto che più impersonale e deprimente non si può: una bella schedina di memoria, più piccola di un francobollo.

Quello che mi infastidisce di questa scelta commerciale non è semplicemente l'estrema miniaturizzazione del supporto, ne' la sua portabilità. La musica a passeggio, che ti segue ovunque tu sia, è stata una meravigliosa rivoluzione, iniziata negli anni '80 con l'audiocassetta ed il walkman, e probabilmente ha contribuito da un lato ad avvicinare molti alla musica, e dall'altro ad imporla come esperienza totalizzante, che era possibile portare fuori dal salotto di casa e condurre ovunque con se'.

Non ho avuto nulla contro il lettore CD portatile, ne' contro l'mp3 player. Quello però che non capisco, e che credo sia dovuto alla semplice cecità dell'industria, è la scelta di annichilire il prodotto-musica in un formato che svilisce l'oggetto e dunque l'acquisto. E' come se i discografici ammettessero, esattamente come un qualsiasi downloader pirata tredicenne, che del prodotto discografico non gliene importa nulla, che per loro è importante solo qualche bit di dati in un supporto.

Questo mi pare un errore capitale. Per decenni l'acquisto di un album è stato l'acquisto di un oggetto fisico, dalle caratteristiche, se mi è permesso l'accostamento, organolettiche ben riconoscibili. Il vinile era un prodotto che odorava di carta, inchiostro e colla, e somigliava ad un libro nei gesti tipici dell'aprirlo e leggerlo. Sapeva poi di quella strana cosa che era, appunto, il vinile: un materiale plastico ma caldo, elettrico, che attraeva pezzetti di carta e di polvere, un oggetto che bisognava curare e saper trattare. L'acquisto di reificava in una cosa tangibile e che aveva una propria vita.

Già il passaggio al compact disc rovinò parte di questa esperienza. La copertina mutava da poster a cartolina, perdendo molto del proprio impatto. Il disco, come oggetto, dava minor calore e svelava in modo più evidente la propria natura sintetica. Era però possibile creare libretti ben fatti, personali, stampare la superficie del CD in modo da renderlo un oggetto unico e riconoscibile.
Soprattutto, fu il miglioramento tecnico (che è indubbio, e chi sostiene il contrario è vittima di una leggenda metropolitana) a convincermi che il passaggio era accettabile. Il compact disc, per me e per milioni di appassionati sul pianeta, è divenuto da allora oggetto dell'esperienza musicale, qualcosa che si acquistava in cambio del proprio denaro, e che si poteva poi toccare, sfogliare, annusare.

Cosa resta di tutto questo in una scheda di memoria? Il dato tecnico è sconfortante: la qualità della musica nel nuovo formato MicroSD altro non è che il solito mp3, un formato che, da chiunque abbia un paio di orecchie funzionanti ed un cervello allenato, non può che essere considerato meno che soddisfacente. Ma la scelta del formato è obbligata: bisogna consentire all'utente la possibilità di trasferire la musica direttamente sul proprio lettore.
Le chedine costano la bellezza di 15 dollari: quasi quanto un CD, per una qualità incomparabilmente inferiore. Ma non bastava allora continuare a vendere mp3 online, come già si fa?

Resta il dubbio della copertina. In effetti pare ci sia, ma ancora non ho capito che formato abbia, se sia un semplice fogliettino o se sia possibile realizzare un vero e proprio libretto.

Quello che invece ho capito in modo chiaro, è che l'industria non vede l'ora di sbarazzarsi del passato, ma purtroppo senza avere un'idea per il futuro.

20 ottobre 2008

Featured Artists Coalition: una rivoluzione?

Bryan Ferry, Craig David, David Gilmour, Gang of Four, Howard Jones, Iron Maiden, Kaiser Chiefs, Peter Hammill, Radiohead, Richard Ashcroft, Robbie Williams, Soul II Soul, The Futureheads, The Verve, Travis...

Cosa accomuna tutti questi artisti, oltre al fatto di essere inglesi e di essere tutti più o meno noti al pubblico?

Da qualche settimana, il fatto di avere fatto fronte comune e di avere fondato una associazione: la Featured Artists Coalition. L'obiettivo è quello di ottenere un maggiore controllo sulla propria musica e di avere, al contrario di quanto gli offrono gli attuali contratti, una certa voce in capitolo per ciò che riguarda le strategie di marketing sui prodotti che portano impresso il proprio nome.

Le istanze avanzate non sono di poco conto, e vanno in una direzione finora mai imboccata dal mercato della musica: portare l'artista al centro della propria attività commerciale, e restituire alle etichette il ruolo di tramite rispetto al pubblico, e non, come attualmente avviene, di regista unico delle attività di produzione e commercializzazione della musica.

Gli artisti, forti anche di alcune esperienze indipendenti che hanno riscosso un discreto successo (Radiohead, Marillion, Nine Inch Nails sono solo alcuni esempi), chiedono innanzi tutto di mantenere i diritti sulle proprie produzioni, i quali verrebbero soltanto affittati alle etichette discografiche. E vogliono inoltre poter controllare, molto più di quanto non gli sia concesso attualmente, la forma in cui la musica viene venduta.

Il manifesto pubblicato sul sito dell'associazione entra nei dettagli ed elenca sei punti che dovranno essere rispettati perchè si possa ottenere un accordo. La parola ora va alle major, che potranno scegliere di ignorare la questione o di scendere a patti nel nome di una possibile collaborazione.

16 ottobre 2008

I segreti di Moltheni

Di Moltheni si sa poco o nulla, ed è giusto che sia così.

Quel poco che si sa contribuisce ad aumentare il mistero, ma tanta riservatezza - o consapevolezza che a mostrarsi si fa solo inutile sfoggio di vanità - aiuta in qualche modo a comprenderne le scelte musicali.

Sappiamo ad esempio che nella "vita reale" Moltheni si chiama Umberto Giardini e fa il pompiere, e che solo di tanto in tanto si chiude un po' in studio e registra un nuovo album.

Una scelta, quella della "doppia vita", che il cantautore marchigiano difende con una banale motivazione economica (vivere di sola musica è quasi impossibile) ma che svela anche forse la necessità di restare uomo "normale", di non sentirsi parte di un meccanismo dello spettacolo nel quale la propria identità potrebbe dissolversi. E senza essere costretto a compromessi che per un professionista della musica diventerebbero pressanti.

Una scelta che consente inoltre di poter giocare con il proprio alter ego musicale, sperimentando anche delle mutazioni di identità: pare che Moltheni dopo questo album abbia intenzione di cambiare pseudonimo, per dedicarsi ad altro o anche solo per verificare se il pubblico lo seguirà per ciò che farà e non perchè il suo nome inizia ad essere famoso.

Nel frattempo abbiamo quest'ultimo I segreti del corallo, sesto album a nome Moltheni, registrato stavolta rigorosamente in analogico e pubblicato, come i tre precedenti, dalla piccola etichetta La Tempesta/Venus, di proprietà dei Tre Allegri Ragazzi Morti, che gli consente un'ampia libertà artistica e il rispetto dei propri tempi naturali per la proposta del nuovo materiale.

L'album prosegue il discorso stilistico iniziato nel 2005 con Splendore Terrore, e già perseguito in Toilette Memoria e nel'Ep Io Non Sono Come Te: una formula che unisce testi introspettivi e poetici, mai banali, con un tessuto sonoro di matrice chiaramente folk, spesso ombroso, a tratti intimista ma solcato anche da ondate di nervosismo elettrico.

L'album dimostra una maturità artistica pienamente raggiunta, e un rigore espressivo considerevole: un pugno di canzoni senza nessuna sbavatura, nessuna concessione alla "piacevolezza", e che pure riescono ad irretire l'ascoltatore ed a condurlo in un mondo sommerso, fatto di immagini in dissolvenza e luminose penombre. Pochi strumenti, nessun virtuosismo, uno stile rigoroso e pulito che non capita spesso di poter apprezzare.

Da notare che Moltheni riprende due brani proprio da Splendore Terrore, e li posiziona esattamente come in quell'album: al quinto e all'undicesimo posto in scaletta. Una mossa che può permettersi solo chi non ha più idee, o chi ce le ha molto chiare. E non mi pare proprio che le idee qui scarseggino.

15 ottobre 2008

Edizioni "speciali"... ma per chi?

Aumenta, da qualche anno a questa parte, il numero degli album che vengono pubblicati anche in versione "special edition". Ma quante volte queste edizioni sono davvero "special"?

Me lo domando spesso, e in genere mi rispondo che spendere di più - anche 10 euro in più - per avere qualche bonus risicata è un bel modo di farsi prendere per il sedere, e di conseguenza porto alla cassa la versione normale.

A volte però si verifica un fenomeno che definire orrendo è poco: l'edizione normale sparisce dagli scaffali (magari va "out of print" e scivola nel limbo) mentre si trova ovunque la sola versione "special". La quale costa magari una cifra assurda, bloccando ogni fremito di concupiscenza nei confronti dell'agognato titolo.

Faccio un esempio. Sto cercando di completare, con molta circospezione (leggi: cercando di non spendere un capitale) la discografia degli Opeth.
In questo senso, è stata benvenuta l'edizione giapponese in mini-cofanetto che ha raggruppato i primi tre album. Scovata in giro a meno di 30 euro: un affare.
Anche per i successivi Blackwater Park, Deliverance e Damnation ho avuto una certa fortuna: si trovano in giro a prezzo speciale da qualche tempo, e cercando con un minimo di pazienza li ho portati via a 6.90 ciascuno.

Il discorso si è complicato con Still Life. Pubblicato prima come disco singolo, e poi in edizione doppia, è ormai praticamente introvabile nella prima versione. Pare si riesca solo ad ordinarlo; proverò.
Il problema dell'edizione "speciale" è che non offre praticamente nulla per un prezzo più che doppio: contiene una inutile (almeno a mio modo di vedere) versione in audio 5.1 dell'intero album, più un brano dal vivo. Un po' poco per giusticare la differenza di prezzo, non credete?
Analogo discorso per il ben più recente Ghost Reveries: sparito il CD regolare, mentre ho difficoltosamente rintracciato un negozio che ha in scaffale la versione doppia, con DVD 5.1. Naturalmente resterà dov'è. Anche perchè avere una edizione cartonata larga due centimetri, cje ti prende via spazio inutilemente, mi dà anche un po' di fastidio. E poi un disco con un aspetto speciale deve anche esserlo. E' una questione etica, mi viene da dire.
Ma il bello è che sta seguendo la stessa sorte addirittura il recentissimo Watershed (2007), del quale ormai si trova solo la versione doppia. Fortuna che l'ho arraffato nel breve periodo in cui è stato disponibile in special price a 9.90, prima di dileguarsi.

Sembra strano che in un periodo in cui le vendite di dischi crollano vertiginosamente, il mercato risponda con una politica che, in sostanza, alza i prezzi anche sui titoli usciti da qualche anno. Evidentemente in qualche super ufficio ai piani alti di qualche mega grattacielo, qualche super manager pensa di poter salvare la baracca (e la preziosa sedia in pelle umana sulla quale tiene posato il prezioso deretano), continuando a spremere quei pochi appassionati che ancora spendono parte del proprio introito (parte sempre più esigua, ahimè) per qualche CD.
Mi sa che hanno sbagliato i calcoli.

12 ottobre 2008

The Cure is alive and well

A volte torna utile possedere un televisore. Molto raramente, in effetti, a meno che non lo si usi come mera appendice per il lettore DVD.

Ieri sera però è stato uno di quei rari casi: MTV, nel marasma di inutilità che trasmette quotidianamente, ha pensato bene di chiamare i Cure come headliner del Coca Cola Live MTV.

E la band di Robert Smith ha deciso di dedicare gran parte dell'esibizione (la prima ora, per la precisione) all'esecuzione integrale del disco terminato da poco e non ancora pubblicato (ma preceduto, come vi ho già raccontato, da ben quattro singoli).

Ciò significa che per molti, come il sottoscritto, è stata una ghiottissima occasione per ascoltare 4:13 Dream prima che venga distribuito nei negozi, seppure eseguito dal vivo e dunque con un sound che potrebbe differire anche sensibilmente da quello fissato nella registrazione. E si è trattato anche di un modo per testare la vitalità della band e la tenuta live della formazione a quattro che ha riunito Roberth Smith e Simon Gallup al membro storico Porl Thompson, oltre all'ormai fidato Jason Cooper dietro le pelli.

Per ciò che riguarda il nuovo album, posso dire che finalmente si è potuto ascoltare qualcosa che avrebbe potuto essere il degno seguito di Wish. Non che nei dischi usciti dopo il 1992 non fossero presenti anche cose dignitose, ma è opinione comune, e la condivido, che per un motivo o per l'altro si sia trattato di lavori non esaltanti. L'ultimo The Cure del 2004 aggiungeva poi ad una certa stanchezza compositiva, una produzione quanto meno discutibile, toccando uno dei punti più bassi nella producione dei nostri.

Nella serata di Roma invece le nuove canzoni sono sembrate solide e in alcuni casi brillanti, vedi l'opener Underneath The Stars, o i due brani di chiusura (The Scream e It's Over), ma pure alcuni tra i singoli (Freakshow o l'eccellente Sleep When I'm Dead).

E' evidente che Porl Thompson abbia riportato unità, dal punto di vista compositivo, ad un ensemble che traeva ormai linfa dal solo Smith o quasi (eccezion fatta per le linee di basso di Gallup). E proprio dal vivo si è potuto osservare quanto sia importante il suo apporto nelle nuove canzoni.

Attendo ora con una certa impazienza l'uscita dell'album in modo da poter apprezzare le versioni registrate in studio. Ed anche, magari, la pubblicazione del famoso "dark album" che pare possa essere realizzato riunendo le canzoni registrate durante le sessioni di 4:13 Dream e scartate per dare all'album un mood meno cupo.

PS: la foto di Simon Gallup, recuperata su Chain Of Flowers, è di Lorenzo C. L'originale è qui.

11 ottobre 2008

The sound of the earth vomiting

Sta diventando un'impresa estremamente ardua star dietro alle uscite dei Killing Joke. Tra ristampe, live e inediti la lista si allunga in modo impressionante.
Stavolta però si tratta di un pezzo davvero imperdibile, ed atteso a lungo dai fan del glorisoso gruppo di Jaz Coleman.

Si tratta, molto semplicemente, delle quattro Peel Session registrate nel primissimo periodo di attività della band (1979/1981), più tre brani registrati per un altro programma della BBC.

L'ascolto si rivela un'assoluta delizia per chiunque ami i Killing Joke, ma può essere un ottimo biglietto da visita anche per chi non li ha mai ascoltati e li scopre così per la prima volta.

I pezzi sono più grezzi delle versioni "ufficiali" ed hanno un sapore più punk e vicino allo spirito dell'epoca in cui furono incisi, praticamente in diretta, negli studi del mitico programma del DJ londinese. Molte registrazioni sono precedenti a quelle in studio, rivelando così versioni ancora non definitive di brani che poi muteranno nei successivi rimaneggiamenti.
Il risultato è un album nervoso, tirato, splendidamente costellato di gemme come Pssyche (che apre il disco e regala un immediato tuffo al cuore), Wardance, Tension, Complication, Fall Of Because e così via per diciassette titoli.

"The sound of the earth vomiting", furono definiti i Killing Joke all'epoca. La citazione è abusata, ma quanto mai consona a queste registrazioni, la cui riproposta pone al proprio posto un tassello decisivo nella storia di una formazione fondamentale nel post punk anglosassone.
Compratelo e fatelo giacere a lungo nel lettore.