29 novembre 2008

Wovenhand live 28/11/2008

Sono davvero pochi gli artisti che riescono a toccarti l'anima suonando dal vivo. Si sono cimentati con successo in questa ardua impresa i Wovenhand, ieri sera al Musicdrome di Milano. E lo hanno fatto nonostante le solite, avverse condizioni del locale: palco piccolo e mal fatto, acustica incommentabile, pubblico scarso e come sempre accade all'ex Transilvania poco partecipativo, sebbene assorto nell'ascolto.

Ma David Eugene Edwards è uno che sul palco si immerge in una trance che prescinde dal luogo e dal numero dei convitati, riuscendo a regalare lo stesso spettacolo davanti a dieci, come a mille, come - ed è il caso di ieri sera - a cento persone mal assortite ed infreddolite- tra l'altro sorprese, nella mattinata, da una imprevista nevicata che aveva ricoperto la città, donandole un aspetto che ogni volta appare del tutto irreale.

I Wovenhand dal vivo sono una vera band, con la formazione dell'ultimo Ten Stones: Edwards canta e suona chitarra, banjo e fisarmonica, alla batteria c'è Ordy Garrison, al basso Pascal Humbert (già nei 16 Horsepower), alla chitarra Peter van Laerhoven. La band suona in modo molto potente, più di quanto mi aspettassi, con una fedeltà eccezionale al sound di studio.

L'avvio è fulminante, con i migliori brani dell'ultimo album: Kicking Bird e The Beautiful Axe suonano molto elettriche e decisamente cupe, aprendo perfettamente uno show in cui prevarranno i toni melodrammatici e l'approccio sciamanico del cantato.

Il gruppo di Denver mescola sacro e profano creando un folk rock molto gotico in cui si ritrova di tutto: country punk, canti degli indiani d'America, spiritual e western, ma anche la tradizione dark inglese, evidente in molti suoni di chitarra, a volte affilatissima, e soprattutto nel drumming che soprattutto nei brani più recenti si avvicina molto allo stile di gruppi come Joy Division e Siouxsie.

Edwards sul palco sfodera la sua voce sorprendente, bassa, pastosa, evocativa, e la usa per snocciolare un mantra di ossessioni religiose, di storie di pazzia e redenzione, che hanno un metro di paragone solo nel maestro Nick Cave (fatti salvi i riferimenti comuni: Cash, sopra tutti).

Nessun momento di calo di tensione nella scaletta: vengono inanellati uno dopo l'altro brani dai 4 album della band: ricordo in particolare Deerskin Doll, Not One Stone, Your Russia, oltre alla splendida American Wheeze dei 16 Horsepower, fantastico regalo a chi non si aspettava di poterla più ascoltare eseguita dal vivo.

Una serata intensa, greve, un pugno di canzoni che scavano nel ventre dell'ascoltatore alla ricerca di segreti che neppure lui conosce. Grazie.

23 novembre 2008

Simon Reynolds: Rip It Up and Bring The Noise!

Simon Reynolds è un critico musicale inglese che la ISBN - editore dei suoi lavori in Italia - definisce "il più grande critico musicale vivente".

La definizione è probabilmente eccessiva, ma non lontanissima dalla realtà. Reynolds affianca ad una cultura musicale - ed extra-musicale - praticamente enciclopedica, la capacità di adottare una prosa piana e a tratti professorale per argomenti che lo appassionano profondamente, senza che vadano perse ne' la percezione di questa passione ne' la chiarezza ed il rigore che si sforza in modo evidente di adottare.

In questo è diversissimo sia da Lester Bangs, il caotico ma trascinante ed appassionatissimo critico statunitense, scomparso ormai da più di un quarto di secolo, che molti ritengono tout court il più grande critico musicale di sempre, che dal compatriota Paul Morley, che è altrettanto enciclopedico ma eccede in uno stile spesso oscuro ed eccessivamente intellettualizzato (si veda il suo pur affascinante volume Metapop).

ISBN aveva già pubblicato un paio d'anni fa, con il titolo Post-punk 1978-1984, la traduzione del manualone Rip It Up And Start Again, una carrellata estremamente accurata e ricchissima di informazioni sulla musica che scaturì, dalle due parti dell'Atlantico, dopo il ciclone del punk, sull'onda del "Do It Yourself" (favorito dalle nuove tecnologie di registrazione casalinga), vedendo la nascita di dozzine di nuovi generi, frettolosamente ammucchiati nelle etichette di New Wave o Post Punk, ma tra loro diversissimi. Un libro fondamentale, preziosissimo anche per chi, come me, riteneva di saperne già tanto su un periodo così fervido e fecondo.

Esce ora, con l'orribile titolo Hip-hop-rock 1985-2008 (ma lasciare i titoli originali è così difficile?) un nuovo grosso tomo, pubblicato in Inghilterra come Bring The Noise, che raccoglie una selezione degli articoli scritti da Reynolds negli ultimi vent'anni.
Da un punto di vista editoriale il volume viene presentato come seguito del precedente, ma naturalmente si tratta di qualcosa di completamente diverso, non essendoci qui l'impianto storico che caratterizzava le pagine di Post Rock 1978-1985. Ciò non toglie valore all'opera, ne' sminuisce il piacere nella lettura degli scritti del critico londinese, anzi, sposta l'attenzione sulla sua prosa giornalistica viva e attenta, che mette sotto il microscopio la musica degli ultimi vent'anni e i flussi che l'hanno caratterizzata.

Ciò che colpisce maggiormente in Reynolds è il suo sforzo, anche negli articoli scritti in occasione dell'uscita di nuovi album, di porsi in un'ottica storica, e di comprendere dove si annidino i germi delle novità, delle nuove esplosioni creative. Lo stesso autore ad esempio fa notare nella prefazione come gli ultimi decenni siano stati caratterizzati dall'inseguimento dei musicisti bianchi nei confronti della musica nera, e di come la sovrapposizione che si è creata tra i due mondi abbia generato risultati imprevedibili, laddove il "fraintendimento" dei bianchi verso la musica dei neri ha generato nuove idee. Questa idea è presente sotto traccia ina tutti gli articoli, e fa da collante tra di essi dando una certa coesione all'opera, che cita una miriade di artisti tra cui, tanto per fare qualche nome, Hüsker Dü, Smiths, Public Enemy, LL Cool J, Dinosaur Jr, Pixies, Living Colour, Manic Street Preachers, Nirvana, PJ Harvey, Beastie Boys, Blur, Roni Size e tantissimi altri.

Forza, dunque: accendete un piccolo mutuo (Hip-hop-rock costa 29 euro, Post-punk 35) e procuratevi entrambi i volumi. Vi farà bene e vi terrà occupati per molte sere (si tratta rispettivamente di 470 e 710 pagine circa), ore che potrete trascorrere comodamente seduti in casa con della buona musica in sottofondo, invece di andare in giro per locali a sperperare denaro (e così riuscirete anche a coprire il mutuo).

22 novembre 2008

Pattoneide

Il signor Michael Allan Patton, meglio conosciuto con il diminutivo Mike, e noto soprattutto per essere stato la voce dei Faith No More, è protagonista di una discografia tra le più varie e affascinanti della storia del rock.

Il musicista californiano è stato infatti coinvolto non soltanto, in quanto voce solista, negli album di Faith No More, Mr. Bungle, Fantomas, Tomahawk, e in diversi lavori solisti, ma anche in una miriade di collaborazioni, comparsate, progetti "una tantum", tanto da creare confusione e panico negli estimatori e nei collezionisti che vorrebbero accaparrarsi ogni nota da lui cantata, sussurrata, mugolata, parlata, esplosa, urlata, biascicata.

E non uso tutti questi verbi a caso. Stiamo infatti parlando di uno tra gli interpreti più virtuosi della storia del rock, impegnato in una costante ricerca e sperimentazione che spazia in tutte le tecniche vocali, conosciute e non, con risultati spesso sorprendenti.

In questi giorni ho notato che molti titoli del catalogo pattoniano sono proposti a prezzo speciale dalle principali catene di distribuzione musicale. E allora eccovi qua una veloce carrellata di titoli che potrebbero suscitare il vostro interesse.

L'acquisto che mi piace consigliare maggiormente tra le uscite recenti è la colonna sonora composta da Patton per un cortometraggio di Derrick Scocchera uscita nella prima metà del 2008. Il disco prende il nome dal film - A Perfect Place - ed è pubblicato in una bella edizione cartonata con CD + DVD (colonna sonora e film).
La musica realizzata da Patton per il film oscilla tra Danny Elfman e Angelo Badalamenti, passando per i musical anni '30 e le colonne sonore alla grand guignol. Non mancano arrangiamenti orchestrali di una certa complessità, affiancati ad esperimenti sonori e montaggi radiofonici. Una gioia per le orecchie ed un turbine di citazioni musicali, che si potranno anche non cogliere coscientemente ma che possono far apprezzare quest'album anche a chi non conosce - e non intende accostarvisi - i generi metal in cui il nostro si muove abitualmente.

Tornando indietro di un paio di anni troviamo Peeping Tom, un album annunciato per anni e finalmente pubblicato nel 2006 per l'etichetta Ipecac di proprietà dello stesso Patton. Qui siamo in territori decisamente più pop, e per la verità a farla da padrone è soprattutto l'hip hop, anche se le influenze sono tantissime e si devono in gran parte all'ingente numero di ospiti e collaboratori.
Massive Attack, Amon Tobin, Jel, Bebel Gilberto, Kid Koala, Doseone, Norah Jones, Dub Trio, Imani Coppola e diversi altri appaiono nell'album come vocalist, co-autori, strumentisti.
La prima traccia Five Seconds fa apparire per qualche minuto il fantasma dei Faith No More, poi l'album vira verso altri territori. Ma quello che comunque accomuna il "guardone Tom ai FNM" sono l'orecchiabilità e il gusto per il pop. Si tratta infatti di un album che scorre via facile facile, anche se zeppo di idee e genialate che molti musicisti non se le immaginano in una vita. Forse lascia poca traccia nella memoria, ma per tre quarti d'ora sorprende e infonde vitalità, il che non è male.

Ancora due anni a ritroso e siamo nel 2004, dove invece scoviamo una collaborazione con il musicista norvegese John Kaada. Romances è un'opera molto più cerebrale e inafferrabile, che vede Patton impegnato soprattutto nella creazione di trame vocali, lasciando a Kaada l'impegno strumentale.
I brani sono influenzati, come dichiarato dagli stessi autori, dalle composizioni di Mahler, Chopin, Listz e Bhrams, ma ciò a cui si avvicina maggiormente è la musica da film - che d'altronde è il genere in cui Kaada si cimenta abitualmente.
L'album non è privo di fascino, e le interpretazioni di Patton sono come al solito di ottimo livello, ma forse risulta eccessivamente pretenzioso ed alla lunga le soluzioni sono ripetitive. Non mancano però gli estimatori del genere e Romances ha riscosso un certo successo di critica, per cui è possibile che, semplicemente, incontri poco i miei gusti.

Potrei andare avanti con decine di titoli ma mi fermo qui, almeno per ora. Non escludo in futuro di fare una sorta di "seconda puntata". Aggiungo soltanto poche righe sull'album la cui copertina campeggia in cima a questo post: Pranzo Oltranzista è un folle progetto di musica futurista, ispirato alle ricette futuriste di Russolo e Marinetti. Le composizioni si avvalgono delle collaborazioni eccellenti di John Zorn e del chitarrista Marc Ribot, che imprimono all'album una matrice free jazz che si sovrappone, con risultati incredibili, alle soluzioni più propriamente rumoriste e di spirito propriamente futurista. Pubblicato nel 1997 per l'etichetta di John Zorn, è tuttora reperibile solo a prezzo pieno. Ma potete resistere ad un album che annovera brani con titoli come Elettricità Atmosferiche Candite oppure Carne Cruda Squarciata Dal Suono Di Sassofono?

17 novembre 2008

Should I buy or should I not

Istintivamente, l'avevo snobbato questo The Clash Live at Shea Stadium. Innanzi tutto perchè per i Clash ho enorme rispetto ma non rappresentano per me una band di formazione. E poi perchè la pubblicazione di un live dopo un quarto di secolo sa davvero troppo di spremitura del catalogo, soprattutto dopo gli ultimi anni che sono stati punteggiati prima da (inutili) ristampe degli album di studio, poi dalla pubblicazione di un sontuoso cofanetto di singoli (bello ma eccessivo) e infine della solita (inutilissima) raccolta di successi.

Ora giungono un DVD (che forse sarà interessante, ma non l'ho visto e dunque non mi pronuncio) e questo live. La serata nella quale fu registrato non era proprio una serata qualsiasi: i Clash erano negli USA di supporto agli Who, erano all'apice del successo ed in pratica all'inizio di quello che sarà un declino veloce e inesorabile. Lo testimonia già l'assenza di Topper, il batterista che, sfatto dalle droghe, era stato appena buttato fuori dal gruppo e che passerà gli anni successivi a riprendersi dalla batosta.

L'operazione, dal punto di vista tecnico, non è disprezzabile: un buon remastering, ottenuto probabilmente a partire da una registrazione dignitosa, accompagnata da un libretto ben curato. Il live in se', però, non è forse molto rappresentativo della band. C'è qualche tormentone (Should I Stay Or Should I Go, Rock The Casbah, I Fought The Law), qualche brano meno noto al pubblico occasionale (Tommy Gun, Train In Vain, ma anche l'insopportabile Police On My Back), il bel dub di Armagideon Time, ma la performance, pur intensa e tutto sommato apprezzabile, forse non valeva la pubblicazione in CD. Migliore, se non altro per rappresentatività, era stata la raccolta di brani dal vivo From Here To Eternity pubblicata nell'ormai lontano 1999. Anche se lì mancava, va detto, la continuità della scaletta di un vero e proprio album live.

I fans e i completisti vi si buttino pure. Troveranno pane per i loro denti. Agli altri consiglierei piuttosto di guardare (e magari investirvi i propri soldini) il DVD del bel documentario Il Futuro Non E' Scritto, montato da Julien Temple sulla figura di Joe Strummer e sui Clash. Si tratta di un film che, oltre ad avvicinare ad una figura umana affascinante ed in qualche modo esemplare, getta sicuramente luce su un periodo fondamentale della storia della musica inglese e su un gruppo di cui ormai non si sa più un granchè.

15 novembre 2008

Benedette ristampe! Gang Of Four

La carriera dei Gang Of Four seguì uno sviluppo tipico per molti gruppi del post punk inglese: nacquero arrabbiati, politicizzati e musicalmente feroci, ma si fecero poi nell'arco di quattro album molto più patinati, commerciali e persero gran parte delle velleitè politiche che avevano contraddistinto la loro prima produzione.

L'ossatura del suono della "banda dei quattro" era affidata al basso dub e funky di Dave Allen ed alle figurazioni sincopate della batteria di Hugo Burnham. L'influenza del punk era più evidente nella chitarra spesso atonale e graffiante di Andy Gill, come nel canto nervoso e declamatorio di Jon King.

Per chi non li conoscesse e intendesse avvicinarvisi, il mio suggerimento è di partire dal primo album, quell'Entertainment! (1979) che, sin dalla copertina (una sorta di schemino di come il cowboy capitalista freghi l'indiano povero cristo), mostra bene quale fosse l'attitudine "marxista" del gruppo di Leeds.
Ma varrà bene anche il secondo Solid Gold (1981): sono dischi feroci, claustrofobici, ma anche estremamente ritmici e, strano a dirsi, ballabili. Segnarono la fusione tra funk e punk, una formula inedita e decisamente interessante.

Per chi li conosce e vuole sapere cosa accadde dopo, giungono benedette le ristampe del terzo e del quarto album, che latitavano negli scaffali dei negozi da più di un decennio.

Songs Of The Free (1982) è un disco nel quale è ancora riconoscibile la furia dei quattro di Leeds, ma ammansita e condita con una spalmatura di fiati e coretti che ammiccano alla dance e che certamente possono far storcere la bocca a più di un purista. Il fatto è che l'album, riascoltato oggi, mi sembra assolutamente godibile e, in alcuni episodi, quasi bello. L'estrema orecchiabilità di alcuni brani non mi disturba più di tanto, e la voce di Jon King tiene in piedi con decenza la baracca.

Per Hard (1982) è più difficile trovare parole buone: la deriva commerciale è troppo evidente e le soluzioni sonore hanno ormai perso di mordente. Ciò nonostante non mi sento di condannare del tutto neppure questo disco, eccettuate le ultime due tracce che rasentano la demenzialità. Ma neppure ve lo consiglio: è materiale per fan sfegatati che digerirebbero di tutto. Come me? Ehm, temo di si.

12 novembre 2008

Benedette ristampe! Magazine: Peel Sessions

Le Peel Session dei Magazine erano state già pubblicate alcuni fa nello splendido cofanetto Maybe It's Right To Be Nervous Now, comprendente 3 CD di cui uno completamente dedicato alle registrazioni effettuate ngli studi della BBC per il mitico programma del DJ londinese.

Il cofanetto in questione è però ormai da lungo tempo fuori catalogo e di molto difficile reperibilità, risulta perciò particolarmente gradita la pubblicazione di questo The Complete John Peel Sessions, che raccoglie tutti i 15 brani registrati in tali occasioni.

Howard Devoto, che aveva conquistato un certo successo con i Buzzcocks, formazione della prima ondata punk anglosassone, decise di abbandonarli nel 1978 e si diede da fare per fondare un nuovo gruppo.

Nacquero così i Magazine, che furono una sorta di "super-gruppo" al contrario, in quanto tutti i membri della band sono noti per aver poi militato in altre formazioni: il chitarrista John McGeoch (pilastro del post punk inglese e musicista influentissimo) suonerà nei Banshees di Siouxsie e nei PIL di John Lydon; il bassista Barry Adamson sarà più noto per i successi con i Visage di Steve Strange e per i dischi incisi con i Bad Seeds di Nick Cave, oltre che per la propria carriera solista; il tastierista Dave Formula suonerà, come McGeoch, nei Visage e poi nei Ludus.

I Magazine ebbero la sfrontatezza di mescolare l'attitudine e l'immediatezza del punk con strutture e soluzioni sonore che strizzavano l'occhio al rock progressivo degli anni '70, attirandosi dunque il disprezzo di molta critica e non riuscendo, nonostante il buon successo di alcuni singoli, a fare breccia nel cuore di una generazione che, nei primi anni '80, cercava coordinate ben riconoscibili e decisamente diverse.

Io invece li trovo assolutamente deliziosi, se non altro per l'originalità che li contraddistinse. Ma anche per le personalità dei musicisti, che emergono prepotentemente da canzoni indimenticabili come The Light Pours Out Of Me, o Shot By Both Sides o ancora le splendide Touch And Go e Permafrost.

Dopo tre album eccellenti, e un quarto album un po' meno fortunato, registrato senza McGeoch, i Magazine si sciolsero, lasciando liberi gli ex componenti di prendere le proprie strade. Le Peel Sessions raccolte in questo CD testimoniano, pur con qualche sbavatura, di una band dalle incredibili potenzialità e che avrebbe meritato maggiore fortuna.

8 novembre 2008

Uragano Jones (Grace, naturalmente)

19 anni: tanto è trascorso dall'ultimo album di quella che è universalmente conosciuta come la "pantera" giamaicana, miss Grace Jones, nota al grande pubblico soprattutto per il successo di Slave To The Rhythm, album del 1985 prodotto da Trevor Horn per la sua ZTT.

Ora, a 60 anni suonati e con le idee, a quanto pare, ancora molto chiare, l'androgina ex-modella torna con Hurricane, un disco composto in gran parte con il compagno Ivor Guest ma che vede anche diverse collaborazioni degne di nota (Tricky, Brian Eno, Sly & Robbie).

Il singolo Corporate Cannibal, oltre ad avvalersi di uno splendido video, può vantare la collaborazione di Tricky e sonorità che ricordano da vicino l'album Mezzanine dei Massive Attack. E proprio con questi ultimi Grace era apparsa di recente, al Meltdown Festival di Londra, dove aveva presentato alcuni dei nuovi pezzi e, per l'appunto, il nuovo video.

Hurricane è un album sorprendente in quanto ricorda da vicino le uscite di Grace Jones dei primi anni '80 (in particolare Warm Leatherette e Nightclubbing) ma contemporaneamente è perfettamente ancorato al presente - se non al futuro - e non presenta alcun elemento anacronistico.

Il genere dominante è un reggae dub molto raffinato, spesso arricchito da arrangiamenti d'archi e da una elettronica piuttosto presente ma dosata con sapienza.
Le influenze e i rimandi non si contano. I primi due brani - This Is e Williams' Blood - portano alla mente i Faithless. Ma anche ai Massive Attack si pensa spesso, soprattutto in relazione a brani come I'm Crying (Mother's Tears) che non avrebbero sfigurato in Blue Lines. E' evidente invece la mano di Sly & Robbie in una composizione come Sunset Sunrise, un vero e proprio classico dalla melodia indimenticabile.

Ma ciò che tiene insieme il tutto, al di là di arrangiamenti e atmosfere, è la grandissima voce di Grace Jones, il suo recitato che irretisce l'ascoltatore e, man mano che si fa canto e melodia, lo ipnotizza inchiodandolo all'esperienza della musica. Un animale notturno che, tornando nelle ombre dalle quali era stato fagocitato, riafferma con autorevolezza il proprio potere.

Meritano una citazione i testi, che in Hurricane non sono mai secondari rispetto alla musica e impongono una personalità altera ma anche profonda e decisamente convincente. Spesso in quest'album Jones si fa delicata ed intimista, pur conservando il proprio ruolo iconico - si veda in questo senso l'apertura della prima traccia This Is: "This is my voice/My weapon of choice".

Un disco che marca un grandissimo ritorno, e che fa sorgere una legittima curiosità in merito ai due album che, pur completati, non hanno visto la luce nelle ultime due decadi. Forse i tempi non erano maturi, forse la pantera era in agguato in attesa delle proprie vittime. Sacrificatevi con gioia.

Bollino o non bollino? Il dilemma SIAE

Conoscete il famigerato bollino SIAE, vero? Si tratta dell'adesivo che viene apposto sui supporti discografici (ed anche su altri prodotti editoriali, ma per quanto riguarda l'argomento qui esposto faccio riferimento in particolare ai CD), e che serve non solo a dimostrare che si è versato quanto spettante alla Società Italiana Autori ed Editori per i diritti di pubblicazione, ma anche a distinguere, come chiaramente esposto sul sito della medesima Società, "il prodotto legittimo da quello pirata".

Poco più di un anno fa raccontavo della strana situazione nella quale si trova la SIAE a riguardo: in Italia esiste una norma che considera illegale qualsiasi supporto che ne risulti privo, con la diretta conseguenza che chi viene beccato con CD (anche originali) privi del famigerato adesivo, può essere multato; ma nel frattempo la comunità europea ritiene illeggittima tale normativa, suscitando dunque perplessità sulla validità delle multe inflitte.

Accolgo ora con grande soddisfazione la notizia di una recente sentenza, del Tribunale di Cesena, che ha stabilito - in un particolare caso, ma facilmente generalizzabile - la non obbligatorietà dell'apposizione dei bollini, e quindi ha reso inesigibile la multa richiesta dalla SIAE. Sentenza che arriva dopo un calvario di nove anni sostenuto dall'interessato, ma che certamente servirà da precedente per eventuali casi futuri.
Ne parlava ieri Punto Informatico, che da anni segue con attenzione la questione, e vi rimando dunque al loro articolo per tutti i dettagli.

Questa è una grande vittoria contro un sistema di "autenticazione" dei supporti che oltre ad essere anacronistico ed inefficiente, ed a tutto e solo vantaggio della SIAE, senza che gli autori ne traggano alcun reale beneficio, deturpa orrendamente i materiali fonografici acquistati in Italia.
E solo in Italia, visto che in tutta Europa non esistono bollini ne' nulla di simile.
Ma possibile che dobbiamo sempre farci riconoscere?