30 marzo 2008

Death Angel: trash, trash! (and more)

Stare qui a spiegare chi sono i Death Angel e cosa rappresentino nella scena trash degli anni '80 sarebbe una cosa troppo lunga.
Basterà dire che The Ultra Violence (1987) e Frolic Through The Park (1988) sono due pietre miliari del metal, due dischi geniali e violentissimi partoriti dalle menti di cinque losangelini di origine filippina - tutti imparentati tra loro e, all'epoca dell'uscita del primo album, di età variabile tra i 14 (!) e i 19 anni.

Si trattava di un trash di seconda generazione, forse più colto e sicuramente più influenzato, rispetto ai "padri fondatori" Metallica e Megadeth, da quanto si stava muovendo nel metal di fine decennio.
Portare avanti il loro discorso negli anni '90 sarebbe stata cosa difficile, e infatti dopo il terzo album (Act III, ultima prova del 1990) i nostri si sono riaffacciati sul mercato musicale solo nel 2004, con un lavoro (The Art Of Dying) piuttosto fuori fuoco e non del tutto all'altezza del passato della band.

Ma con questo nuovo Killing Season pare che un inatteso equilibrio sia tornato a sorridere ai cuginetti, i quali sfornano un'opera decisamente degna della loro prima discografia.
Non rifanno se stessi, i Death Angel, ma a vent'anni dall'esordio indovinano una formula vincente basata su velocità, potenza e un ottimo intuito melodico, dimostrando che il fuoco non è ancora spento sotto la cenere.

Il disco si apre con una intro acustica brevissima, che si trasforma ben presto in un brano trash tiratissimo e guerrafondaio come Lord Of Hate. Si sente subito che la voce di Mark Osegueda è decisa a dare il meglio di se', e che la chitarra di Rob Cavestany non perde un colpo, due caratteristiche che restano in evidenza per tutto l'album. Sonic Beatdown mantiene un ritmo indiavolato e si trascina in territori quasi hardcore, ma la successiva Dethroned riduce la velocità e ci riporta nella Bay Area con elementi inconfondibili: riffing granitico, cori, un lungo solo melodico. Carnival Justice si apre in modo molto tirato e di nuovo con elementi hardcore, salvo aprire brevi squarci quasi progressive. L'intro di Buried Alive porta alla mente i primi Metallica, ma mostra che c'è anche altro nelle corde dei losangelini, dando spazio nel ritornello ad un coro quasi grunge e virando allo speed metal nel finale. Soulness fa pensare ai migliori Megadeth e spara fuori uno tra i migliori riff dell'album, prima di sfociare in un ottimo solo che traina verso una chiusura furiosa. The Noose (il cui ritornello dà il nome all'album) è hard rock magistrale, appena tinto di grunge (vedi appunto il ritornello). Per l'intro di When Worlds Collide torna brevemente l'acustica (utilizzata molto poco nell'album), prima di partire per una cavalcata sostenuta sulla quale si innesta, inaspettatamente, il brano più orecchiabile e "grungettaro" dell'album. God vs God sfodera il suono più moderno dell'album (vengono alla mente addirittura i Korn) ma soprattutto un solo indimenticabile. Steal The Crown aumenta di nuovo il ritmo con un hard'n'blues in chiave trash, per poi lasciare spazio alla conclusiva e splendida Resurrectin Machine, che può fregiarsi del riff più apertamente "Bay Area" dell'album, ma anche di sezioni semi-acustiche di grande atmosfera. E' l'unico brano a toccare i quasi 7 minuti di durata, in un album che, per il resto, annovera canzoni di durata contenuta (tra le altre, la sola Soulness tocca i 5 minuti).

La produzione molto moderna affidata a Nick Raskulinecz non nuoce affatto alla resa delle tracce, riuscendo nell'impresa di riproporre un genere classico, eseguito da una grande band, senza troppi deja-vu ma anche senza una snaturazione eccessiva.
Killing Season inoltre si avvantaggia molto bene della sapiente rimescolanza di influenze e dell'ottima forma di tutti i musicisti.
Un disco che non potrà mancare nella collezione dei metallari più attenti, ma neppure in quella di chi, semplicemente, ama l'ottima musica suonata con una passione evidente.

29 marzo 2008

Phenomenal dissatisfaction

Oh dolore, oh tormento!

Se c'è una cosa che non tollero è la consapevolezza di non poter riacquistare in CD un disco che ho posseduto in altra forma e che non ho più.

Oggi mi è tornata alla mente una triste realtà: la colonna sonora di Phenomena non è mai stata pubblicata in CD nella forma in cui era apparsa in vinile quando il film approdò nelle sale (1985).
Esiste, si, una bella edizione che raccoglie tutto il lavoro originale dei Goblin, ma non è ancora stata ristampata (e dubito lo sarà mai) la cosiddetta "original soundtrack", che comprendeva tutti i brani che invece appaiono nella pellicola.

Si tratta di un album che per molti, all'epoca, ha avuto funzione di formazione. Io lo possedevo in cassetta e ricordo benissimo di averlo ascoltato decine e decine di volte assieme a mio fratello. La scelta dei brani era decisamente atipica, e per tanti ragazzini (noi avevamo rispettivamente 13 e 11 anni) si trattò del primo approccio al metal. Erano presenti infatti un pezzo (addirittura) dei Megadeth e uno (fantastico) degli Iron Maiden, oltre a due canzoni del sempre morboso Andy Sex Gang (dei Sex Gang Children).

Questa era la scaletta completa:

01. Phenomena (Claudio Simonetti)
02. Flash Of The Blade (Iron Maiden)
03. Jennifer (Goblin)
04. Locomotive (Motorhead)
05. You Don't Know Me (Andy Sex Gang)
06. Jennifer's Frien (Goblin)
07. The Maggots (Simon Boswell)
08. The Naked And The Dead (Andy Sex Gang)

In particolare, ricordo che l'attacco di Flash Of The Blade dopo l'inquietante brano di Simonetti è qualcosa che mi ha cambiato la vita.
Un sentito fanculo alle logiche editoriali e di mercato che mi impediscono di entrare in un negozio e fare mia una copia di questo fantastico album così com'era.

28 marzo 2008

In memoria di John Balance

In memoria di John Balance (1962 - 2004), uno dei due membri dello storico gruppo industrial dei Coil, ed in occasione del 23° Turin International GLBT Film Festival, è stata organizzata una proiezione del film The Angelic Conversation (1985) di Derek Jarman.

La colonna sonora, opera degli stessi Coil, verrà eseguita dal vivo dai Peter Christopherson's Threshold House Boys Choir, un ensemble costituito appositamente per l'occasione e comprendente gli inglesi Peter Christopherson (Coil, Throbbing Gristle) e David Tibet (Current 93), l'italiano Ernesto Tomasini, il russo Ivan Pavlov (COH), il greco Othon Mataragas.

L'occasione è decisamente ghiotta e farò in modo di non mancare.
Appuntamento il 16 Aprile alle 21, all'Ambrosio Cinecafè di Torino.

Nel frattempo, per prepararmi, vado a riascoltare The Ape Of Naples. E magari anche Horse Rotorvator. Buonanotte.

21 marzo 2008

Musica di casa

Non "house music" ma "music from the house"...
House Sounds è un progetto dello IED di Milano nel quale gli studenti sono stati incitati a campionare i rumori delle proprie case ed a comporvi musica. Con risultati assolutamente interessanti e in alcuni casi fuori del comune.
L'ho scoperto grazie al solito Radiogladio, che ho già citato in questo blog.

I brani finora realizzati sono disponibili sul blog dello IED, e vi consiglio di dedicarvi qualche manciata di minuti di ascolto.
Come riportato sul blog dello IED, "la classe si è divisa in 4 gruppi, ogni gruppo si è occupato di registrare ed elaborare i suoni di una stanza diversa: Bathroom, Living Room, Kitchen e Bedroom. Dopo le registrazioni gli studenti hanno editato i suoni e li hanno trasformati in ritmo e musica, completandoli con suoni elettronici e programmando sequenze."

Una cosa molto interessante, che secondo me dimostra almeno due cose: che la disciplina consente di ottenere risultati insperati, e che la creatività umana può svilupparsi a partire da qualsiasi cosa.

20 marzo 2008

Tra l'onda del mare e il solito sesso

Ero in un periodo difficile quando qualcuno mi passò il primo album di Gazzè, quel Contro un'onda del mare rimasto poi episodio singolare nella carriera del cantautore siciliano (romano d'adozione).
A quel disco mi affezionai immediatamente, rapito dalla stranezza dei testi (già da allora curati col fratello Francesco), che spaziavano da storia e mitologia a riflessioni semi-filosofiche sulla vita di fine millennio, e dal respiro internazionale degli arrangiamenti, che in parte strizzavano l'occhio ad un rock anche piuttosto duro, con venature progressive, ed in parte erano intrisi di jazz e orchestrazioni classiche, il tutto mescolato con influenze di ogni genere. Non era un disco equilibrato ne' perfetto, ma ancora oggi, a distanza di 12 anni, ascolto con una certa emozione alcuni dei brani (principalmente la prima metà dell'album: da Quel che fa paura a Sirio è sparita.).

Questo lungo preambolo per dire che all'inizio ho faticato ad abituarmi a quello che considero il "secondo" Max Gazzè: quello che a partire dall'ottimo La favola di Adamo ed Eva ha centrato una formula difficile e coraggiosa, cogliendo un moderato ma solido successo come cantautore musicalmente colto e spiritosamente intellettuale, che mescola canzone d'autore e brillante gusto pop. Se da un lato mi è stato difficile digerire l'ammorbidimento degli arrangiamenti, dall'altro era impossibile non apprezzare le molte perle disseminate nei tre album rapidamente sfornati nel periodo 1999/2001.

A quella fase è seguito però un periodo di relativo silenzio, come se Gazzè avesse esaurito in un lasso di tempo troppo breve le pur numerose cartucce disponibili. Dal 2001 al 2008 dunque un solo album: Un giorno, opera per molti versi deludente e, seppur di livello discreto, non all'altezza delle precedenti; e due raccolte che nulla aggiungono di concreto a quanto già detto.

Ma chi ha stoffa prima o poi la tira fuori e la usa per cucirvi qualcosa di davvero buono: ed è il caso di Tra l'aratro e la radio, nuovo album preceduto dalla fortunata Il solito sesso, presentata a Sanremo 2008 (dove, per inciso, era praticamente l'unico esempio di musica vera in un panorama di totale vacuità - addirittura peggio del solito, un record difficile da stabilire) e baciata da un successo radiofonico insperato.

Il disco si apre in modo spiazzante: L'evo dopo il medio è un brano vivacemente rock, trainato da un riff di chitarra distorta (suonata da una Carmen Consoli in gran forma, che quando non canta mi piace anche molto) e caratterizzato da un ottimo testo ("l'evo dopo il medio è più avanti o più indietro / sarà l'indice oppure l'anulare"). L'atmosfera riporta alla mente il primo album di Gazzè; e questo, come avrete capito, mi fa un gran piacere.

Segue l'ottima e già citata Il solito sesso, un brano musicalmente complesso, di gran classe ma con un appeal istantaneo, che fa molto riflettere su quanto la semplicità - sia melodica che armonica - non sempre sia la ricetta obbligata per realizzare una canzone orecchiabile e cantabile. Prendere nota, cantanti italiani, grazie.

Tutto l'album varia dal buono all'ottimo. Segnalo le canzoni che mi piacciono di più: Crisalide è uno dei capolavori del disco, fatto di pochi elementi magistralmente assemblati (chitarre in loop, poche note di basso, la voce quasi sussurrata); Mostri (un altro richiamo allo stile del primo Gazzè, sia nella musica che nel testo) è un capitolo nel quale si apre un velo di follia più cupa della media ("il demone a volte / ce l'hai stretto agli occhi / fa le bocche storte / e dalla gola caccia / temporali secchi"), punteggiato da chitarre distorte e inframmezzato da uno squarcio di synth e organo rock; Il mistero della polvere è puro Max Gazzè in chiave minore, un brano autarchico nel quale il nostro suona ogni nota (batteria esclusa) producendo un'alchimia introversa e magnetica, che sfocia in inaspettate aperture "noise".

Molto belle anche L'ultimo cielo, Tornerai qui, e la conclusiva Vuoti a rendere. L'unica cosa che mi fa storcere il naso nell'intero album è il ritornello di Siamo come siamo, ma questo piccolo neo non basta a rovinare il giudizio su un ottimo lavoro come questo.
Speriamo che sia l'inizio di un grande ritorno.

17 marzo 2008

Alison in the trees

Seventh Tree è il quarto album dei Goldfrapp, duo inglese composto dalla voce dell'affascinante Alison Goldfrapp, e dalle tastiere del timido Will Gregory, un geniale nerd che sembra vivere nell'ombra della front-woman (o comunque si dica).

La storia dei Goldfrapp è fatta di svolte brusche ed imprevedibili, e questo lavoro non smentiscela regola, con un ulteriore cambio di carte in tavola.

Felt Mountain (2001) era stato un debutto miracoloso: voce da extraterrestre, elettronica magistralmente sfruttata per creare atmosfere eteree e di difficile definizione. Un disco unico che colpì molto positivamente pubblico e critica (e il sottoscritto). Nel 2003 i Goldfrapp decidono di non volere, o di non potere, bissare la formula: esce Black Cherry, un album molto più danzereccio e ammiccante, che propone un electro-pop raffinato ma non del tutto convincente. Strabiliante la metamorfosi di Alison, la cui immagine passa da folletto incantato dei boschi innevati a sexy incantatrice, circondata da simbologie di difficile interpretazione. L'album ha comunque degli aspetti positivi, non ultima la voce ancora cristallina e suadente della cantante, ma il successivo Supernature (2005) calca la mano in modo smaccato sugli aspetti più commerciali, e perde definitivamente la strada in un techno-pop orecchiabile e vacuo, nel quale anche le prestazioni canore di Alison sembrano perdere spessore.

La nuova onda di Seventh Tree è invece rappresentata da un completo (o quasi) abbandono degli elementi più pop, e da un approdo ad atmosfere bucoliche che, piuttosto che riportare i Goldfrapp al primo album (che resta opera a se' ,difficilmente ripetibile) ci fanno ritrovare in un ambiente molto retrò, in alcuni casi marcatamente seventies, come se Alison si fosse tramutata in una hippy sognante, intenta a cantare in un prato eternamente baciato dal sole del tramonto.
L'album inizia, programmaticamente, con Clowns: chitarra acustica e voce, per un bozzetto deliziosamente evocativo. I primi colpi di batteria si odono solo verso la fine della successiva Little Bird, bel brano impreziosito da una interpretazione di Alison convincente almeno quanto quella del primo episodio.
Più elettronica si affaccia in Happiness, un brano che porta un po' di brio in un disco che evita accuratamente di far ripensare al proprio predecessore. Si continua brano per brano tra atmosfere rarefatte, odori di montagna, sensazione d'aria fresca sul viso. Solo A&E, primo singolo estratto dal disco, si abbandona ad elemneti pop ed è dotato di una melodia più ammiccante. Le si avvicinano per orecchiabilità solo Some People e Caravan Girl, peccatucci veniali in un disco che sorprende piacevolmente e cresce ascolto dopo ascolto.

16 marzo 2008

Nuova rinascita per i Killing Joke

Assorbito il brutto colpo della scomparsa del bassista Paul Raven, e concluso il ciclo delle ristampe del catalogo storico, di cui ho già parlato, i Killing Joke azzerano tutto e ripartono da capo.
Si è riunita infatti la formazione originale, quella che ha partorito il capolavoro omonimo del 1980: Jaz Coleman, Geordie, Youth e Paul Ferguson stanno lavorando ad un nuovo album. La notizia fa ben sperare per il futuro di questa grande band, che è stata capace negli anni di attraversare avversità di ogni genere.

E' stato annunciato anche un nuovo tour mondiale, che toccherà l'Italia il 19 e il 20 settembre all'Alcatraz di Milano. Le due date non saranno identiche: è previsto che nella prima serata vengano suonati, per intero, i primi due album (Killing Joke del 1980 e What's This... For! del 1981) mentre nella seconda verrà rispolverato l'intero Pandemonium (1994) e tutti i singoli del periodo 1979/80.

Un'occasione ghiottissima per rivedere un gruppo storico nella line-up originale, e magari per dimenticare la quasi-delusione di qualche anno fa, quando i Killing Joke suonarono, anche allora al Rolling Stone, un set molto breve, con acustica discutibile ed un clima un po' strano sul palco.

Mistero sull'album, del quale non si sa nulla. Se ci saranno aggiornamenti, non mancherò di pubblicarli qui.

15 marzo 2008

operation : cover

I Queensrÿche sono uno dei gruppi per i quali ragiono principalmente da fan. Anche le loro opere "minori" (vedi il criticatissimo Hear in the Now Frontier, che nel 1997 ha dato inizio a quella che molti considerano la loro decadenza) girano piuttosto spesso nel mio lettore.
Sarà che dalla voce di Geoff Tate ascolterei con piacere anche la lista della spesa su una sola nota; sarà che pure nei momenti più commerciali o comunque "leggeri" mantengono una dignità di musicisti decisamente invidiabile.

Ammetto però che, quando ho scoperto l'uscita di un album di sole cover, mi sono detto: "Perchè?"
Perchè fare una mossa che non potrà che alienare simpatie nella base storica del gruppo, perchè uscire con un progetto che per definizione (chiunque lo affronti) è del tutto inutile e in genere segnala una crisi d'identità?

Naturalmente, nonostante ciò, ho ceduto, con qualche mese di ritardo, al fascino del nome. E quindi eccolo qua, questo dischetto, saggiamente messo in vendita a prezzo contenuto.

Cercherò di rendere conto dei brani uno a uno.

La scaletta riserva qualche sorpresa: a fianco di cover di Pink Floyd, Black Sabbath, Peter Gabriel, la cui presenza è facilmente comprensibile per area stilistica, e di una canzone tratta da Jesus Christ Superstar (un musical da sempre amato dai metal kids), si trovano pezzi di Police, U2, Queen, e addirittura un brano di Carlo Marrale (chitarra e voce dei Matia Bazar) scritto in origine per due voci liriche.

La resa dei brani è alterna, anche se per un 50% almeno dei casi i Queesryche riescono nel miracolo di confezionare un arrangiamento originale e al tempo stesso convincente.

Il disco si apre proprio con uno dei pezzi più azzeccati: Welcome To The Machine viene privata di gran parte delle tastiere e dell'atmosfera infusa dai Pink Floyd nell'originale, ma la nuova veste, incattivita quanto basta, non è per nulla deludente.
Anche Heaven On Their Minds (da Jesus Christ Superstar) beneficia dell'arrangiamento decisamente più heavy e conserva, in modo più energico, tutto lo smalto della versione del film.
Seguono tre brani probabilmente meno noti al pubblico dei Queensryche: Almost Cut My Hair (Crosby, Stills, Nash & Young), For What It's Worth (Buffalo Springfield) e For The Love Of Money (The O'Jays). Conosco poco gli originali, ma lo stile hard/blues dei trattamenti mi convince e sono canzoni che, pur senza particolari meriti, si ascoltano volentieri.
Il primo momento critico è Innuendo (Queen). Un brano difficilissimo da affrontare, sia per questioni oggettive, sia per lo spettro di Freddy che non può non aleggiare sull'interpretazione di Tate. La cover infatti riesce a metà: la canzone non viene stravolta abbastanza da non far pensare continuamente all'originale, e pur presentando spunti molto interessanti nelle parti strumentali, lascia poco convinti. Forse sarebbe stato meglio evitare, chissà.
Neon Knights
(dei Black Sabbath nella formazione con Dio) è una fotocopia dell'originale, piacevole ma decisamente inutile.
Synchronicity II
(Police) è un vero scivolone: non convince la chitarra (risuonare le parti di Andy Summers in salsa metal è una pessima idea), non convince la voce, che si allontana troppo dallo spirito della canzone senza trovarle una nuova identità credibile. Il brano insomma non sta in piedi: da skippare. Peccato.
Red Rain
(Peter Gabriel) soffre in modo minore degli stessi problemi. Non tutta la musica si può suonare in modo più duro senza dilpidarne il senso. Qui la voce è molto interessante, ma mentre l'ascolto non riesco a smettere di pensare alla versione originale.
Odissea
(un brano scritto da Carlo Marrale e Cheope) raggiunge il vertice del grottesco. Geoff Tate non parla una parola d'Italiano, come da sua stessa ammissione, e si sente. Ma non è la sua interpretazione a deludermi (anzi, è sorprendente quanto si trovi a proprio agio in un brano lirico) ma è l'arrangiamento orchestrale che trovo stucchevole e ai limiti dell'inascoltabile. Orrore.
Il disco si chiude con una lunga versione live (più di 10 minuti) di Bullet The Blue Sky (U2). Non amo l'originale in modo sfegatato, ma nonostante ciò - o forse proprio per questo - trovo questa interpretazione piuttosto coinvolgente, anche se è possibile che i fan del gruppo di Dublino non la amino alla follia.

L'album alla resa dei conti raggiunge la sufficienza solo grazie ai brani migliori, ma in alcuni punti dimostra che reggere il confronto per 11 cover di seguito è cosa difficile anche per musicisti d'altissimo livello.

Se proprio volete ascoltare un disco controverso dei Queensryche, vi consiglio piuttosto di provare con Operation: Mindcrime II, che quanto meno è coraggioso. E del tutto inedito.

11 marzo 2008

Bauhaus: Go Away White (is here)

Difficile, difficilissimo per me parlare di questo nuovo album dei Bauhaus.
Si tratta infatti del primo lavoro di studio, dopo un silenzio durato 25 anni, di un gruppo che ha avuto un'importanza fondamentale nella mia formazione musicale.

Ovvio dunque che vi riponessi delle forti aspettative, e che avessi anche sviluppato una sorta di barriera anti-delusione, visto e considerato che il rischio di trovarsi di fronte ad un lavoro non esaltante era piuttosto elevato.
E, lo dico subito, esaltante non mi è parso, soprattutto ai primissimi ascolti. La mia impressione è andata però via via migliorando col trascorrere dei giorni e con la permanenza del CD nel lettore.

Go Away White paga lo scotto di un disco che arriva troppo tardi, e che si affaccia nei negozi in un periodo troppo diverso da quello nel quale era stato pubblicato Burning From The Inside, l'ultimo album primo dello scioglimento (1983).

Il pericolo di innescare un tristissimo effetto revival era dietro l'angolo, e va dato adito ai Bauhaus di aver saltato questo ostacolo presentando materiale che, pur presentando un marchio di fabbrica piuttosto riconoscibile, evita di rifare il verso alla produzione storica.
Sul versante opposto però il gruppo doveva anche evitare un eccessivo scarto verso la novità, che avrebbe decisamente deluso l'aspettativa di tutti quei vecchi fans che attendevano da Go Away White delle conferme in merito a sonorità, tematiche, atmosfere.
E forse proprio questo legame residuo ha tenuto i quattro musicisti un po' troppo imbrigliati, impedendo dei guizzi davvero interessanti, come se il contrasto tra vecchio e nuovo fosse rimasto irrisolto.

I dieci brani del disco sembrano quindi, per certi versi, una versione scolorita del materiale dei primi due album della band, ripuliti però di tutto ciò che oggi sarebbe sembrato caricaturale. Via dunque molti aspetti più gotici o più isterici del sound della band. Via anche la spigolosità della sezione ritmica, che appare molto più appiattita del solito (eppure i fratelli Haskins non avevano mai deluso nei Love And Rockets). Evitato anche ogni riferimento al suono più levigato presente in Burning From The Inside (pensiamo ad esempio a She's In Parties, o a Slice Of Life), che portò allo scioglimento della band e le cui conseguenze musicali furono portate avanti dai Love And Rockets senza Murphy. Resta invece ben evidente il grandissimo lavoro di Daniel Ash alla chitarra, col suo stile personalissimo e nervoso, a lama di rasoio, che pare non aver subìto il trascorrere del tempo. La distorsione di Daniel percorre tutto l'album con vitalità e soluzioni mai sciatte, rappresentandone probabilmente il vero collante. Peter Murphy, dal canto suo, canta come sempre, con voce intatta dopo tanti anni e tradendo quà e là l'antica venerazione per il duca bianco, mai nascosta e sempre affiorata, anche nei suoi lavori solisti. Non riesce però ad infondere emozione, e sembra essere poco convinto del materiale che interpreta.

I momenti migliori sono forse Adrenalin, che non tradisce gli intenti manifestati dal titolo, Endless Summer Of The Damned, e The Dog's A Vapour, unico brano realizzato prima delle brevi sessioni dalle quali è stato partorito il disco.

Go Away White è un disco non memorabile, che sarebbe stato accolto con estremo interesse se fosse stato partorito da un gruppo esordiente, ma che non rende merito alla gloria antica della band. E' però un buon compagno di viaggio, una raccolta di canzoni mai veramente brutte, una sorta di corollario non fondamentale, ma comunque piacevole, all'opera maggiore di uno dei più grandi nomi del variegatissimo panorama del post-punk anglosassone.
Non solo: ricorda a tutti quanto certi "tentativi di imitazione" (vedi gli Interpol, ma non solo loro) siano lontani anni luce dagli originali.

9 marzo 2008

Bangs for president!

Se siete abbastanza giovani, ignoranti o distratti da non conoscere Lester Bangs, allora non ve ne fregherà nulla dell'uscita di questo libro.
Potreste però trarre giovamento dalla vostra condizione di lettori vergini, e procurarvi Guida ragionevola al frastuono più atroce oppure Deliri, desideri e distorsioni, così da gettarvi nella caotica ed irresistibile prosa di uno dei più incredibili giornalisti musicali d'America.

Lester Bangs, nato nel 1942 e scomparso prematuramente nel 1982, stroncato dagli stessi eccessi di cui narrava nei propri articoli, ha percorso la storia del rock e della musica che vi ruotava attorno (pop, jazz, funk) dagli anni '60 all'inizio degli anni '80: si potrebbe dire, con qualche enfasi, dalla nascita alla morte (o alla rinascita, se preferite) del rock.

Una prosa eccessiva e sregolata, quella di Lester, che andava spesso fuori tema, saltando di palo in frasca o cedendo alla tentazione di parlare dei cavoli propri. Recensore appassionato, capace di stroncature feroci (a volte con pentimento successivo) oppure di incaponimento nella difesa di personaggi in declino, per puro affetto di fan. Ecco, sostanzialmente: un fan che scriveva di musica. Categoria ormai quasi scomparsa, almeno nel giornalismo professionale. Non che non ci siano giornalisti competenti o dotati di passione; non esiste più quel tipo di giornalismo, quel tipo di editoria, che consentiva ad uno come Bangs di scrivere solo di ciò che gli pareva.

Questo terzo volume di scritti, pubblicato come i precedenti da Minimum Fax, raccoglie ciò che di più estremo e forse meno attinente alla musica Lester Bangs abbia scritto. L'operazione editoriale merita una tiratina d'orecchie: il volumetto, molto più snello dei precedenti, raccoglie parti che l'editore italiano aveva deciso di omettere dalle traduzioni delle due raccolte già pubblicate. Come dire, "al primo giro ci erano sembrate impubblicabili, poi ci siamo detti: perchè non tirarci fuori due lire"?
Ben vengano però queste ulteriori 137 pagine, che spaziano dall'omicidio Kennedy a Metal Box dei PIL, da Andy Warhol a Elvis, da Van Morrison a William Burroughs, e così via. Il tutto con l'abituale condimento di sesso, droga e rock 'n' roll. Certo, scritto così sembra una frase fatta. Ma all'epoca di Lester, e nella sua vita, era ancora tutto vero.

7 marzo 2008

So strange where love goes


Potrei ascoltare questa canzone per ore e ore.
Anzi, ehm, credo di averlo già fatto.

Il brano si chiama Ghost of Love, ed è tratto dalla colonna sonora di Inland Empire.
David Lynch canta e suona la chitarra.

Il video è uno dei tanti che si trovano su YouTube che hanno tratto spunto dalla canzone. L'ho scelto semplicemente perchè è il più lungo.

5 marzo 2008

NIN in formati multipli. e liberi.

Era un po' che mi domandavo chi sarebbe stato il primo a seguire l'esempio dei Radiohead di alcuni mesi or sono.
Ecco la risposta: i Nine Inch Nails qualche giorno fa hanno messo in vendita il loro nuovo album utilizzando una formula simile, per molti versi, a quella utilizzata per In Rainbows.

Ghosts I-IV è un lungo lavoro che contiene 36 tracce strumentali. Trent Reznor ha dichiarato di averne coltivato l'idea per anni, fino a quando non ha trovato il momento giusto per realizzarlo.

L'album può essere ordinato in una miriade di formati differenti, dal download alla confezione extra lusso, tramite un mini-sito appositamente realizzato.

Le analogie tra l'operazione dei Radiohead e questa dei NIN sono tante: nessun appoggio da parte delle case discografiche, possibilità di acquistare l'album anche in versione "normale" (in doppio CD) per chi lo desidera, disponibilità di una o più versioni speciali per collezionisti.

Si nota però anche qualche importante differenza. La più evidente consiste nel fatto che l'album non può essere scaricato completamente in forma gratuita. In tale modalità sono infatti disponibili solo 9 delle 36 tracce complessive. Per avere tutti i brani in formato digitale bisogna sborsare la somma di 5 dollari. I prezzi seguono poi un andamento esponenziale: 10 dollari (decisamente un "prezzo politico") sono richiesti per la versione in doppio CD con box e libretto di 16 pagine, della quale non si sa se sarà mai disponibile in negozio; 75 dollari per la "deluxe edition", che comprende 2 CD audio, 1 DVD con le tracce in diversi formati digitali e 1 disco Blu-Ray con l'album in alta definizione (96 kHz /24 bit); si arriva infine all'allucinante "ultra deluxe limited edition" da 300 dollari, che propone tutto quanto incluso nella deluxe £semplice", oltre a 4 dischi in vinile e ad un assortimento di ulteriori meraviglie per maniaci. Quest'ultima edizione, tirata in soli 2500 esemplari, è andata esaurita in un tempo ridicolmente breve.

E' evidente che la mancata disponibilità dell'album in versione totalmente gratuita è solo apparente: non passerà molto tempo prima che si possa scaricare dal circuito P2P (anzi, probabilmente già si può), e scommetto quello che volete che a Trent Reznor e soci la cosa non dà alcuna noia.

Una ulteriore innovazione introdotta con questa uscita è rappresentata dal fatto che i brani sono stati rilasciati con licenza Creative Commons. Ciò porterà alla diretta conseguenza che chiunque potrà modificare e redistribuire i brani a piacimento.

A prescindere dai dettagli, il modello che si sta imponendo è chiaro: lasciare che le canzoni trovino una diffusione sostanzialmente libera, e guadagnare sulle edizioni di lusso, riducendo il rischio con la formula della prenotazione online. Dato per scontato che impedire le diffusione pirata di file in formato digitale è impossibile, e appurato che le case discografiche sono troppo miopi per prenderne semplicemente atto, e smetterla di trattare i propri potenziali clienti come nemici, sono gli artisti a prendere il toro per le corna ed a proporre l'unica soluzione possibile ed efficiente. Basta una calcolatrice per rendersi conto che i NIN con l'edizione super mega lusso hanno già racimolato la bellezza di 750.000 dollari, una somma che non penso non sia sufficiente a coprire i costi dell'album. Aggiungete i proventi delle altre edizioni e vedrete che, se anche decine di milioni di utenti nel mondo scaricheranno l'album "aggratis", a perderci sarà solo la faccia dei discografici e non le tasche degli artisti.
In questo caso, mi pare che la furbata sia doppia: l'album, che non ho ascoltato, è un po' "fuori serie" (trattandosi di un doppio strumentale) e ben si prestava ad un esperimento in grande stile.

Rinnovo soltanto il dubbio che espressi al tempo di In Rainbows: potrebbe la stessa strategia avere successo per un gruppo alle prime armi? Il buon senso, e l'esperienza, suggeriscono di no. Bisognerà pertanto che qualcuno elabori nuovi mezzi di diffusione per portare al grande pubblico la nuova musica.
Finalmente comunque qualcosa si muove, ed è molto bello che siano gli artisti ad essere gli unici protagonisti di questa rivoluzione.

3 marzo 2008

(Listen to) And Also The Trees

Ecco finalmente nelle mie mani l'ultimo album degli And Also The Trees. Era introvabile nei negozi in Italia: ho dovuto ordinarlo. Lo ascolto dunque con qualche mese di ritardo rispetto all'uscita sul mercato, avvenuta a novembre dello scorso anno.

(Listen for) The Drag and Bone Man non ha per nulla deluso le mie aspettative, anzi mi ha sorpreso con un livello di scrittura molto alto e con l'assoluta predominanza di atmosfere crepuscolari e quasi claustrofobiche, che non mi aspettavo di ritrovare così presenti in un nuovo disco del gruppo inglese.

Rispetto al precedente Further from the Truth (del 2003), che pure recuperava molti elementi dal passato glorioso della band (vedi il classico e tenebroso Virus Meadow), con l'ultimo lavoro si piomba in territori davvero oscuri, basati su un impasto sonoro molto fitto e dalla voce evocativa e oscura (a tratti greve) di Simon Huw Jones. La strumentazione, rigidamente "analogica", comprende molto contabbasso, la classica chitarra di Justin Jones che conserva in parte le sonorità anni '50 degli ultimi album, incursioni di piano dovute alla nuova entrata contribuiscono a ricreare trame tese e cupe che ricordano da vicino il primo periodo e i fasti della band.

Un nuovo grande tassello nella discografia di un nome storico del dark rock (anche se questa etichetta sta davvero stretta all'originalissimo gruppo dei fratelli Jones). A cercare il pelo nell'uovo, un disco accusabile soltanto di una certa ripetitività, che però si perdona molto volentieri pur di ascoltare gemme come Domed, The legend of Mucklow o The Saracen's head.

Per inciso:
con tanta enfasi sul "ritorno alle origini" non vorrei far passare l'idea che gli album della seconda metà degli anni '90 (da The Klaxon a Silver Soul) mi sembrassero indegni del passato della band. Basati su sonorità meno introverse, ma sempre dotati di grande atmosfera, sono riconducibili per molti versi a degli anni '50 da western noir (ricordano in chiave più oscura il migliore Chris Isaak), e incarnano la dimostrazione di come un insieme di musicisti validi possa evolversi senza aver paura di snaturarsi e continuando a sfornare splendide canzoni.

1 marzo 2008

Dig, Nick, Dig!!!

Accantonato per il momento l'alter ego Grinderman (ma ha promesso un secondo album a breve) Nick Cave torna con i Bad Seeds dopo uno iato di 3 anni e mezzo, nel quale ha infilato il già citato Grinderman, due colonne sonore, un DVD live e una raccolta di b-side e rarità.
Un ruolino di marcia piuttosto fitto, un po' come si usava ai vecchi tempi - un album all'anno era la regola per qualsiasi artista fino ai primi anni '80 - che potrebbe avere l'effetto di appesantire l'offerta e di abbassarne la qualità. Ma questo pare non valere per il vecchio Re Inchiostro, che sforna con questo Dig, Lazarus, Dig, un album quanto meno interessante e variegato, sicuramente non scadente come anche avrebbe potuto succedere.

Nelle recenti interviste Nick ha spiegato che "volevamo fare un album guidato da una chitarra acustica anche nelle fasi più aggressive" e che "volevo distanziarmi dal suono degli ultimi quattro o cinque album in cui c’era veramente molto piano". Via dunque il piano, e spazio a una sonorità basata su una chitarra acustica molto presente, usata in modo sostanzialmente ritmico, sulla quale l'elettrica e il violino lavorano in modo melodico ma più spesso rumoristico.

Al primo ascolto saltano subito all'orecchio alcuni elementi. Innanzi tutto, gli arrangiamenti, basati su un organico compatto e che tendono a dare una forte coerenza all'album, pur con la presenza di materiale molto variegato dal punto di vista compositivo. Il che va in forte contrasto con il precedente Abattoir Blues - The Lyre of Orpheus, nel quale avevano trovato posto arrangiamenti e sonorità tra i più disparati. In secondo luogo, si fa notare l'assenza di quelle oscure ballate che sono state una caratteristica saliente dei Bad Seeds di fine '90 e che non erano mai state del tutto messe da parte, fino ad ora. E infine, una certa giocosità, a volte in chiave ironica, a volte semplicemente ludica, mitigata solo negli episodi più blues che suonano più sinistri ed evocano in certi momenti i primi episodi dei Bad Seeds.

Ho ascoltato troppo poco l'album per un giudizio definitivo. Sicuramente un lavoro non interlocutorio, con testi al livello al quale Nick Cave ci ha abituati, suonato con passione ed alla ricerca di una immediatezza che stupisce per un gruppo di cinquantenni.
Non so se, alla lunga, sarà annoverabile tra i miei dischi preferiti dei Bad Seeds, essendo un po' troppo lontano dalla formula alla quale mi sono affezionato. Ma questo non è detto.