28 dicembre 2008

Chrome box reissue

I Chrome sono stati definiti "gli Stooges che suonano i Can nell'iperspazio". Sebbene questa definizione potrebbe applicarsi a dozzine di sonorità differenti, mi pare azzeccato ricordarla e, già che ci sono, provare a coniarne altre. Ad esempio, potrebbero essere i Pere Ubu che suonano Brian Eno senza mai essere usciti dal sottosuolo, oppure Zappa che suona Stockhausen nelle profondità dell'oceano.
Starete intuendo che, per capire davvero cosa facessero i Chrome, è necessario ascoltarli.

Bisognerà allora iniziare da qualche parte. E qui si scopre che hanno una discografia troppo complessa, questi Chrome. A complicarla ulteriormente sono venute negli anni diverse edizioni e ri-edizioni di album, raccolte, box e cofanetti vari.

Per capirci qualcosa, va innanzi tutto sottolineato che la discografia a nome Chrome si divide in diversi periodi, che si distinguono per la presenza o meno di uno dei due membri principali: Damon Edge ed Helios Creed.

La primissima fatica discografica, The Visitation, uscì per la verità nel 1976 con il solo Damon Edge nell'organico. Si tratta di un album che si fa rientrare per comodità nella prima fase del gruppo, ma costituisce un oggetto a se' stante, poichè già dal secondo album le cose cambieranno.

Seguirono infatti tra il 1977 e il 1983 diversi album, singoli ed EP con la formazione "classica", comprendente sia Creed che Edge. Questo è il periodo più interessante della storia del gruppo, ed è caratterizzato, dal punto di vista del collezionista, dalla difficilissima reperibilità sia dei vinili originali che delle ristampe in CD.

Dopo la defezione di Creed seguì una seconda fase, periodo nel quale restò il solo Damon Edge a capitanare la nave dei folli. Gli album susseguitisi tra il 1984 e il 1994 con la nuova formazione sono caratterizzati da un sostanziale distacco dal sound originale del gruppo.

Con la morte di Damon Edge nel 1995, fu però Helios Creed a riprendere il moniker Chrome ed a dare vita a diversi nuovi album con una nuova formazione, comprendente sia membri delle precedenti incarnazioni del gruppo, sia nuove presenze. L'ultima uscita di questa versione che potremmo definire "mark III" risale per il momento al 2002.

Maggiore interesse, abbiamo detto, suscita però il primo periodo, quello che va dal 1977 al 1983. Il miglior momento dei Chrome fu infatti quello in cui i due pazzoidi che ne tenevano il timone tiravano uno da una parte e uno dall'altra, favorendo un equilibrio incerto che era anche il marchio di fabbrica della formazione.

Già nel 1982 era stato pubblicato un "box", ovviamente in vinile, nel quale si riassumeva in 6 dischi il repertorio della band. Si trattava della riproposizione integrale degli album The Visitation, Half Machine Lip Moves e Blood On The Moon, e delle tre raccolte No Humans Hallowed, Chronicles I e Chronicles II, che racchiudevano singoli, EP e nuovo materiale.

Nel 1996 la Cleopatra ha riproposto un "box" in CD, con identica copertina e stesso titolo, ma con una tracklist decisamente rimaneggiata. Una scelta strana e certamente discutibile. Siccome però questa versione del box, in 3 CD, è stata appena ristampata, e siccome è in sostanza l'unica possibilità di mettere mano su quasi tutta la produzione Edge\Creed, eccomi a darvene conto.

Dopo attenta analisi dei brani inclusi e confronto delle tracklist, eccovi un resoconto di cosa contiene il box.

Le prime sei tracce del CD1 sono tratte da Alien Soundtracks (1977), dal quale dunque restano esclusi ben quattro brani. Dalla traccia 7 alla traccia 16 è proposto quasi per intero l'album Half Machine Lip Moves (1979), con la sola esclusione dell'ultimo pezzo del disco originale. Le tracce 17, 18 e 19 sono tratte dalla compilation Subterranean Modern, che uscì nel 1979 con tre pezzi dei Chrome, tre degli MX-80 Sound, tre dei Residents e tre dei Tuxedomoon. Questi tre brani sarebbero turrora inediti su CD se non fossero stati contemporaneamente inclusi in una nuova compilation dei Chrome dalla Cleopatra.
La traccia 20 è uno strano sunto dei cinque pezzi che componevano l'EP Read Only Memory (1979). I brani risultano tagliati e mixati tra loro, una scelta davvero discutibile. Nel box del 1982 l'EP veniva invece riproposto per intero all'interno del vinile No Humans Allowed. L'ultima traccia del CD è dedicata al lato B del singolo New Age (1980), anch'esso incluso in origine in No Humans Allowed.

Le prime 8 tracce del CD2 ripropongono, quasi integralmente, l'album Red Exposure (1980). Restano fuori però due pezzi del disco originale. Le tracce 9 e 10 sono dedicate ai due brani inclusi nel 12 pollici Inworlds (1981), anch'essi in origine inclusi in No Humans Allowed. Le tracce dalla 11 alla 19 (con l'esclusione della traccia 15) ripropongono quasi fedelmente l'album Blood On The Moon (1981), meno un brano, al posto del quale c'è però l'inclusione di uno strumentale inedito (la traccia 15, appunto).

Il CD3 si apre con un brano inedito (se non per la solita apparizione in No Humans Allowed). Dalla traccia 2 alla traccia 8 trovano posto i brani di 3rd From The Sun (1982), stavolta senza tagli. Le restanti tracce, dalla 9 alla 15, raccolgono diversi singoli e inediti, tutti originariamente presenti, nel box originale, nei due vinili Chronicles I e Chronicles II, e poi raccolti anche nell'album Raining Milk.

Vi è venuto il mal di testa? Anche a me. E dire che sarebbe bastato aggiungere un quarto CD per consentire la pubblicazione di tutti i brani del 1977 al 1983, senza tagli e rinunce. Il sospetto che non si sia voluto fornire l'opera omnia, in modo da non rendere del tutto inutile un'eventuale prossima ristampa degli album integrali, è lecito. Mi consolo da questo pensiero con l'ascolto di queste 55 tracce che arrivano direttamente dall'iperspazio, esempio assoluto di genialità, originalità e folle coraggio. Evviva.

23 dicembre 2008

A Certain Ratio: dopo dieci anni, Mind Made Up

A Certain Ratio è un nome storico della new wave inglese: furono infatti il primo gruppo a firmare per la Factory, prima che vi approdassero i Joy Division.

Dopo i primi fulminanti lavori a base di una originalissima miscela di funk e post punk (memorabile in particolare la cassetta del 1980 The Graveyard and the Ballroom), hanno diradato via via le uscite pur proseguendo in una carriera ai margini della scena musicale più in vista. L'ultimo album finora era Change The Station del 1996, un'opera ben fatta ma dal sound molto mainstream.

L'uscita di un nuovo CD non era perciò del tutto scontata. Quando ho visto Mind Made Up tra le novità mi sono detto: sarà un'altra raccolta. E invece.

E invece questo non solo è un disco di inediti, ma è un grandissimo ritorno, che cancella le banalità disco-soul del disco precedente e ci consegna una band fuori dal tempo, che guarda sia alle proprie origini che al futuro con uguale passione e coinvolgimento. E soprattutto, che si riappropria di tutti quesgli elementi che nell'ultimo decennio sono stati saccheggiati da decine di revivalisti, dimostrando che tranne rare eccezioni, è meglio l'originale della copia.

I Feel Light apre l'album con un giro di chitarra ruvida e sonorità new wave da palpitazione: attenzione, i nostalgici dovranno maneggiare con cura questo pezzo. Un ritmo dance si va a sovrapporre subito a chitarra e basso, ma è solo un trucco: la canzone è post punk puro, e da sola vale il prezzo del disco.

Segue Down, Down, Down, una traccia da manuale del white funk. Da subito si capisce che non ci saranno due tracce simili una dopo l'altra. Questo potrebbe essere un grande singolo dal refrain magnetico.

Everything Is Good cambia ancora le carte in tavola, con una disco d'avanguardia molto acida e paranoica, a tratti quasi industriale.

Way To Escape si apre con un giro di basso slappato molto disco eighties, ma si sposta poi con l'ingresso della voce verso atmosfere molto più rarefatte, sebbene sostenute da una chitarra decisamente funky. Un brano originale e decisamente piacevole.

Rialto 2006 è un remake del classico originariamente apparso nell'album Sextet. Forse non ce n'era tutto questo bisogno (l'originale resta splendido) ma questa versione si fa apprezzare e si veste di un arrangiamento non banale.

Mind Made Up è un nuovo esempio di funk-wave ipnotica, gelida e conturbante.

Teri inizia come un pezzo dei Coldplay (ascoltare per credere) e continua... come un pezzo dei Coldplay. Non male, ma forse troppo Coldplay e un po' fuori luogo in quest'album.

Bird To The Ground torna subito al funk ma con toni molto più solari rispetto ai primi brani, anche se la voce sussurrata tende a creare un'atmosfera vagamente inquieta.

Starlight è l'ultimo brano cantato e si poggia di nuovo su un gran firo di basso e su sonorità che ricordano da vicino il primo periodo della band. Il ritornello, estremamente accattivante ("keep on dancing / outer space", provate a non canticchiarlo già dopo il primo ascolto), si innesta imprevisto su una strofa sognante e tracciata da pennellate di synth futurista.

Which Is Reality?, Skunk e Very Busy Man sono tre strumentali che chiudono l'album tra funk, new wave e disco, una sorta di lunga jam session frenetica e appassionata.

Speriamo che a quest'album faccia seguito una carriera ancora su questa linea. Bentornati.

21 dicembre 2008

Teenage Jesus and Beirut Slump: Shut Up And Bleed

Ho nominato da poco i Teenage Jesus And The Jerks, parlando del DVD antologico di Lydia Lunch.

Gruppo dalla carriera discografica brevissima, i Teenage Jesus And The Jerks pubblicarono appena due singoli e due EP, per poi dissolversi rapidamente - anche se la leader continuò una lunga carriera di musicista e performer con diverse formazioni o in ambito solista.

Caratterizzati da sonorità dissonanti e dalla programmatica brevità delle composizioni, furono una delle band più influenti dell'epoca: seppero infatti rompere qualsiasi schema del rock e del pop, molto più di quanto non avesse fatto il punk, e restituire in modo quasi fisico l'angoscia metropolitana e l'incapacità di una generazione di riconoscersi in un qualsivoglia modello morale o culturale.

Assieme ai DNA di Arto Lindsay ed ai Theoretical Girls di Glenn Branca diedero uno scossone alla scena musicale newyorchese, consentendo la nascita di nuovi filoni musicali, ed in particolare spianando la strada ai Sonic Youth.

La discografia dei Teenage Jesus And The Jerks, essendo così limitata, è stata molto facile da raccogliere in CD. Già nel 1995 era stato pubblicato un album che in 12 brani - e 18 minuti - raccoglieva l'intera opera della band: venivano riproposti la somma dell'EP omonimo, che a sua volta raccoglieva già tutti i brani dei due singoli Orphans e Babydoll, e degli ulteriori tre pezzi pubblicati nell'EP pre-Teenage Jesus And The Jerks, che contenevai brani sviluppati da una formazione precedente della band, quando c'era anche James Chance al sax.

Pareva difficile che si potesse aggiungere qualcosa, e invece ora esce questo Shut Up And Bleed, che riesce nella quasi impossibile impresa di fornire nuovo materiale interessante, e che risulta dunque il benvenuto.

Oltre ai 12 brani "classici", questa edizione aggiunge altro materiale dei Teenage Jesus And The Jerks - soprattutto live di qualità discreta. In secondo luogo, vengono addizionati i pezzi inediti di un'altra band, attiva nello stesso periodo, anch'essa con Lydia Lunch alla voce: i Beirut Slump, un quintetto del quale nulla, fino ad ora, era stato tramandato ai posteri.

E valeva la pena riscoprirli: nervosi, a tratti folli, hanno poco da invidiare ai più famosi "fratelli" (che risultano maggiormente noti anche per la partecipazione alla raccolta No New York curata da Brian Eno).

Cosa dire di quest'album: splendido titolo, ottima copertina, musica fulminante, urgente ed auto-combustiva. Peccato solo per la scelta di mescolare le canzoni dei due gruppi, una soluzione che, pur non inficiando la riuscita dell'album, complica un po' l'ascolto "filologico". Ma si tratta di un peccato veniale che si perdona volentieri ad un oggetto tanto inaspettato quanto gradito come questa raccolta.

18 dicembre 2008

Milano new wave

La storia della new wave italiana fu soprattutto la storia di un paese provinciale, in cui il fenomeno rimase sostanzialmente imitativo e assunse solo raramente contorni di originalità. Lo testimoniano, oltre al semplice confronto con i modelli inglesi e americani, anche le tempistiche delle uscite discografiche, estremamente tardive rispetto allo svilupparsi del movimento.

In Italia mancarono sia la cultura del "fai da te", che tantissima parte ebbe nello sviluppo della nuova onda alla fine degli anni '70, sia un qualsiasi tipo di sostegno sul territorio, ad eccezione di poche zone fortunate - vedi Firenze e dintorni.

Tali circostanze relegarono tanti nuovi gruppi al rango di realtà da garage, impedendo il naturale sviluppo di un fenomeno che avrebbe avuto invece bisogno di rapidità e spontaneità. Quando le etichette discografiche si resero conto dell'esistenza di questo sottobosco, la spinta si era ormai esaurita, i modelli erano cambiati e le poche uscite di valore (emergono fra tutti Siberia dei Diaframma e Desaparecido dei Litfiba, ma era già il 1984) servirono più che altro a gettare le basi per band che si sarebbero evolute in direzioni diverse da quella iniziale.

Tutto ciò non significa che non ci sia stato, nel cosiddetto belpaese, nulla di interessante in ambito new wave, o che non valga la pena riscoprire nulla, se non altro in chiave storica.

Proprio in questo senso si sono succedute diverse ristampe realizzate dalla risorta Spittle Records, tra le quali spiccano le due raccolte Gathered e Body Section, che raccolgono il meglio delle band attive nei primi anni '80, e le ottime uscite relative alla new wave fiorentina (Neon e Rinf in particolare).

Già, la scena fiorentina. A parlare della new wave in Italia pare quasi che accadesse tutto nella città di Dante, mentre il resto del paese stava a guardare il festival di Sanremo. In verità dell'altro ci fu - come dimenticare ad esempio gli splendidi Frigidaire Tango, nati a Bassano del Grappa - ed in particolare qualcosa si mosse a Milano. Si, proprio nella città "da bere", la patria dell'aperitivo e dello yuppismo all'italiana.

Milano aveva il vantaggio, almeno sulla carta, della vicinanza all'Europa e di una maggiore presenza dell'industria discografica. In realtà però non si sviluppò una vera e propria "scena milanese": i gruppi degni di nota furono pochini e si sciolsero nel giro di pochi anni.

La nuova raccolta della Spittle Records è dunque dedicata proprio a quelle band che vale la pena ricordare: 5 brani ciascuno per quattro gruppi che animarono le serate meneghine nei primi anni '80.

Il CD di apre con gli Other Side, una formazione decisamente influenzata dalla new wave più "dark" (Joy Division, Cure). Pur con qualche buona idea, la pecca principale dei brani qui proposti è la scarsa originalità, che porta di conseguenza anche una certa ripetitività nelle soluzioni e nelle melodie. Non aiuta il fatto che le registrazioni sono molto incerte - la chitarra soprattutto è spesso fuori tempo - e il buon remastering non riesce a far dimenticare che si tratta probabilmente di demo casalinghe.
Molto più interessanti gli State of Art, che avevano abbracciato un funk-punk brillante e sperimentale, debitore di Gang of Four, A Certain Ratio e forse della no-wave newyorchese. I cinque brani che li rappresentano qui sono colmi di idee e pur con qualche ingenuità suonano ancora freschi ed interessanti.
Più elettronici i La Maison, influenzati dall'electro pop sorgente nei primi '80. Meno sperimentali di altre realtà italiche dell'epoca (vedi ad esempio Neon e Pankow) ma decisamente interessanti e con una certa originalità: la loro fusione di post punk e sonorità alla Kraftwerk è a tratti ben riuscita. Peccato non si siano sviluppati dopo questa manciata di creazioni che lasciavano intravedere ottimi spunti.
La raccolta si chiude con gli eccellenti Jeunesse d'Ivoire, una band impegnata in un dream pop alla Cocteau Twins, molto raffinati, capaci di arrangiamenti elaborati e intriganti. Tra i più vicini in Italia alla realizzazione di un genere che potesse abbracciare electro pop e new wave e superarli in una soluzione che potesse essere radiofonica ma non banale, non riuscirono propbabilmente a superare le resistenze di un paese come sempre troppo conservatore, anche nelle sue componenti più "alternative".

Anche se si inizia a correre il rischio, con queste ristampe, di raschiare il fondo del barile, Milano New Wave 1980-83 risulta un disco importante per ricordare un'epoca altrimenti molto poco rappresentata e che è stata semi-dimenticata dalla storia ufficiale.

15 dicembre 2008

Lydia Lunch in DVD

Lydia Lunch è uno di quei personaggi che non si riescono a comprimere nelle abituali definizioni musicali di genere, e neppure a descrivere con una semplice successione di aggettivi.

La sua attività, iniziata a New York nella seconda metà degli anni '70, include un lungo elenco di performance e incisioni discografiche, sia soliste che in collaborazioni con numerosi artisti, tra i quali spiccano Nick Cave, Foetus, James Chance, Einsturzende Neubauten, Die Haut, Michael Gira, Marc Almond e Thurston Moore.

Questo DVD ripercorre la sua storia raccogliendo materiale video, principalmente live, dal 1978 al 2006.

Si parte con i Teenage Jesus And The Jerks, storica band della no wave newyorchese, qui rappresentati dal video realizzato per Orphans (un montaggio di violenza e orrori della guerra) e da 5 brani filmati dal vivo nel 1978 (I Woke Up Screaming, Freud in Flop, Race Mixing, Baby Doll, Instra-mental).

A seguire vengono proposti 6 brani live degli 8-Eyed Spy (Sorry for Behaving so Badly, Innocence, Boy Girl, Motor Oil Shanty, Swamp, Run Through the Jungle), la seconda formazione della quale la Lunch fu leader, un miscuglio strano ed affascinante di ritmiche pulsanti, attitudine chitarristica punk e declamazioni in stile no wave. La formazione si sciolse nell'80 dopo la morte per overdose del bassista, e questo documento contribuisce a testimoniarne il valore.

I successivi 12 brani, quasi tutti dal vivo, provengono dalle innumerevoli collaborazioni succedutesi negli anni: 2 pezzi con gli Shotgun Wedding, diverse apparizioni con Terry Edwards, una canzone a testa con Rowland S. Howard, con Mark Cunningham, con Die Haut, con Pepe Sarto.

Le riprese, soprattutto quelle relative agli anni tra i '70 e gli '80, sono di qualità amatoriale, ma l'audio è stato curato bene, rendendo la fruizione del DVD interessante sia dal punto di vista storico che da quello strettamente musicale - al contrario di alcune discutibili operazioni che ho visto negli ultimi anni, in cui il materiale proposto era davvero da cestinare.

Se vi interessa approfondire un'artista di eccezionale valore per la musica contemporanea, e sbirciare nella no wave newyorchese, questo DVD è certamente un mattone importante su cui costruire una ricerca.

6 dicembre 2008

Byrne & Eno... at home



David Byrne e Brian Eno hanno una lunga storia di collaborazioni alle spalle, sin dall'album More songs about buildings and food dei Talking Heads, che fu solo il primo di una serie di dischi del gruppo newyorchese prodotti da Eno.

Nelle rispettive carriere dei due musicisti resta inoltre memorabile il lavoro a quattro mani My life in the bush of ghosts, l'album che nel 1981 rappresentò il primo esempio di sperimentazione musicale - prima dell'era dei campionamenti e della world music - con l'idea allora del tutto innovativa di sfruttare frammenti di trasmissioni radiofoniche, sermoni televisivi, e tutto quanto potesse servire come suggestione per l'inserimento nel contesto di un paesaggio sonoro.

Dopo ben 27 anni i due tornano ad unire i propri nomi per l'uscita di Everything That Happens Will Happen Today. I germi per il nuovo album - che ha anche un sito tutto suo - sono stati posti in occasione dell'incontro che i due hanno avuto per la pubblicazione della versione rimasterizzata e ampliata di My life in the bush of ghosts, quando Eno ha rivelato a Byrne di avere molto materiale strumentale inutilizzato a disposizione, e gli ha passato un po' di registrazioni.

Dopo circa un anno di maturazione, Byrne si è detto pronto a mettere insieme abbastanza canzoni da poter proporre un album, nel quale i compiti sono stati ben suddivisi: il compositore inglese ha contribuito con la musica e le sonorità, il cantante americano con i testi e le parti vocali.

Il risultato è quello che i due definiscono "electronic gospel": una miscela nella quale la voce - o meglio le voci, in quanto c'è un grande uso di cori - assume un ruolo centrale, ma con un contorno di territori sonori inusuali "alla Eno".

Il risultato, per quanto riguarda il mio parere, non è probabilmente all'altezza delle intenzioni. Salvo qualche momento (soprattutto il terzo brano, l'extraterrestre I Feel My Stuff), l'album suona piuttosto monotono e non raggiunge i livelli ai quali i due dovrebbero aspirare. Molte delle melodie sanno pericolosamente di già sentito, e gli arrangiamenti vocali trasformano l'insieme più in album di canzoni natalizie per famiglie che in un interessante esperimento, come pare fosse nei piani.

Peccato, perchè alla notizia della collaborazione avevo sperato in qualcosa di decisamente diverso.
Se volete verificare il mio giudizio (naturalmente sindacabilissimo), avete a disposizione lo strumento che ho preso a prestito dal sito dell'album. Buon ascolto!

1 dicembre 2008

Grandi ritorni: grandi dischi?

Il rock è morto. Questo ormai lo sappiamo e dobbiamo farcene una ragione: non si può credere a Babbo Natale per tutta la vita.

Viva il rock? Certo, se ciò significa continuare a goderselo e a festeggiare i buoni album, senza per forza aspettarsi novità rivelatrici o sconvolgimenti tellurici.

Ben vengano dunque anche i "grandi ritorni", le band che, date ormai per bollite o sparite da diversi anni, piombano a piedi uniti sul mercato con una nuova fatica, sospinte dal vento in poppa del battage pubblicitario, che non manca di promettere faville. Purchè, naturalmente, gli album in questione meritino non dico tanto strombazzamento, ma almeno una manciata di ascolti soddisfacenti.

Andiamo allora a fare un po' le pulci a 4 "grandi ritorni" che hanno caratterizzato l'autunno del 2008.
Un poker d'assi calato da 4 band che hanno venduto milioni di album: AC/DC, Queen (con Paul Rodgers), Metallica e, nientemeno, Guns N' Roses.

AC/DC: Black Ice

L'ultimo disco di studio della band dei fratelli Young era stato Stiff Upper Lip, nel 2000. Otto anni di attesa consentono dunque di parlare di "ritorno", anche in considerazione dell'età media del quintetto australiano. Ma soprattutto è stato il lancio mediatico che ha presentato Black Ice come un ritorno ai fasti di Back In Black (sarà semplicemente il "Black" nel titolo?), creando un fenomeno di osanna generalizzato.

A me quest'album non è parso brutto, ma non capisco perchè dovrebbe essere considerato tanto migliore di Stiff Upper Lip. Sono 15 canzoni del solito hard rock molto tinto di blues, con Brian Johnson in discreta forma, con riff che sembrano tutti già sentiti ma proprio per questo "prendono"; il problema è che i pezzi sono tutti talmente simili tra loro da non consentirmi di arrivare a metà disco senza avere la tentazione di spegnere.

Intendiamoci: ogni canzone, presa da sola, ha i suoi pregi - anzi, si potrebbe sancirne l'assoluta perfezione. Ma sono 15 mid-tempo una dietro l'altra, tutte con gli stessi elementi, senza una sbavatura nella produzione, senza un guizzo, senza nulla che non sia "la band che suona esattamente come dovrebbero suonare gli AC/DC". Non reggo. Una sufficienza meritata, ma nulla di più.

Queen + Paul Rodgers: The Cosmos Rocks

Qui si entra in territori delicati e pericolosi. Freddie Mercury, è inutile ricordarlo, non è più tra noi dal lontanissimo 1991. E' da allora che - tolto un album di brani completati dal gruppo utilizzando le ultime registrazioni lasciate dal cantante, non esce nulla a nome Queen. Giustamente, viene da dire.

Ora, si sa, abbandonare un nome così prezioso in termini di vendite è una cosa difficile. Comprensibile che Brian May, piuttosto che fondare la "Brian May rock band", abbia preferito ad un certo punto dare in pasto al pubblico un CD con le magiche 5 lettere stampate in bella vista.

Naturalmente, nessuno pensa che questi siano davvero i Queen. A ricordarcelo, caso mai non avessimo capito, l'aggiunta "+ Paul Rodgers"campeggia in caratteri più piccini sulla copertina. E l'accostamento tra gli ex-Queen e l'ex cantante dei Free e dei Bad Company poteva anche risultare interessante. Purtroppo, in realtà, ne è risultato un pasticcio in cui è proprio difficile salvare qualcosa.

Testi giovanilistici indifendibili (si parla di scuola come se non si avessero 60 anni), un gravissimo scollamento dalla realtà , scelte musicali indecise tra il vecchio suono della regina e le tendenze rock-blues più tradizionali di Rodgers. Anche il titolo, The Cosmos Rocks, non sta in piedi (che vuol dire? di cosa state parlando, percaritàdiddio?) . Un disco patetico e decisamente evitabile.

Metallica: Death Magnetic

Immaginiamo che una band fondi, negli anni '80, un genere che resterà una pietra milaire nella storia del metal. Facciamo finta che questa band inanelli 4 album venerati dal pubblico, che li conducono allo status eroico di paladini dell'heavy (anzi, del thrash, se ipoteticamente questo fosse il nome del nuovo genere).

Supponiamo che però al quinto album questi quattro loschi figuri (cavalieri delle tenebre, potremmo definirli) decidano di cambiare registro, indovinando un disco dal successo pauroso ma che fa storcere il naso a molti dei fan adoranti di cui sopra. E lanciamoci a briglia sciolta nell'ipotizzare che, a peggiorare le cose, arrivino prima una coppia di album hard-blues rock che non piacciono quasi a nessuno, fino a quando i nostri eroi, in un impeto di auto-lesionismo, partoriscono un ultimo letale disco che fa schifo a tutti, ma proprio a tutti.

Ecco, narrata questa stupida boiata, e chiarito che si parla dei Metallica, immaginiamo infine che questo gruppo, scaricato il bassista ormai transfugo nei Voivod (plauso a lui) e cambiato produttore (aver prodotto Load + Reload + St.Anger non è stato considerato un buon curriculum per il vecchio Bob Rock), decida di tornare sui propri passi e di comporre un album che, per sonorità e stile, sarebbe potuto arrivare dopo il quarto, cancellando tutto quanto c'è stato in mezzo. Et voilà, ecco a voi Death Magnetic. Torna il vecchio logo, tornano i riff thrash, tornano i Metallica.

Ma sarà vero? Dopo tanti tentativi di cambiamento, è proprio difficile credere alla sincerità di questo ritorno alle origini. Ma facciamo finta (tanto ormai ci siamo abituati) che sia così. Che Hammett & soci sentissero proprio il bisogno di farlo. Insomma, non facciamo i sospettosi. Resta il fatto che questo disco convince per metà: in diversi momenti i nostri suonano quasi come se' stessi, ma i brani sono troppo lunghi, il disco dura un'eternità e mezza, le idee sono troppo diluite, la voce di Hatfield non sempre si ri-adatta a fare "se' stessa giovane", i suoni della batteria non hanno ancora dimenticato di essere passati per il purgatorio dell'album precedente.

Una mezza botta. Sei meno meno? Ma si, nonostante la perversa idea di inserire l'inutilissima Unforgiven III. Però, ammettiamolo: i primi due minuti del disco sono un tuffo al cuore. Ascoltatevi almeno quelli.

Guns N' Roses: Chinese Democracy

La storia di quest'album è una delle più assurde nella storia del rock. Atteso dai fan dei Guns N' Roses dal 1993 (anno di pubblicazione dell'ultimo disco del gruppo, la raccolta di cover The Spaghetti Incident?), e più volte annunciato come imminente, Chinese Democracy era ormai diventato un oggetto leggendario e quasi una barzelletta: il sospetto che non sarebbe mai uscito era ormai molto diffuso.

E invece eccolo qua: esisteva davvero, anzi, ormai esiste, ed è uscito da pochi giorni. Naturalmente, come tutti sanno, il nome Guns N' Roses sta a significare il solo Axl Rose: niente Slash, niente Izzy, niente Duff, sostituiti negli anni da una varietà di musicisti dei quali si è oramai perso il conto. Pare incredibile dunque che l'album, a dispetto anche delle innumerevoli sessioni di registrazione in 14 studi diversi, suoni decisamente compatto, molto potente e - udite udite - anche piuttosto convincente. E ci tengo a sottolineare che chi scrive può essere considerato tutto meno che un fan di Axl Rose, la cui voce starnazzante non è in effetti il punto forte dell'album.

Ciò che funziona, semplicemente, sono i pezzi: rock ruffianissimo, metal ballads - in mezzo c'è anche qualche pezzo che davvero ricorda i vecchi Guns - arrangiati in modo sorprendentemente moderno ma soprattutto dotati di buoni riff, ritornelli azzeccati, grinta quanto basta, una certa dose di rabbia, spruzzate di romanticismo, soli degni di nota (certo, facile se li si fa registrare a un certo Buckethead). Se questo blog avesse le stelline, sarebbe almeno un 7 su 10. Non posso crederci.