10 dicembre 2009

And Also The Trees al settimo cielo

Certo, 22 euro + spese di spedizione, per un EP, non sono proprio pochi.

Ma come si fa a resistere a tutto il bendidio di questa offerta?

A proporla è la neonata Les disques du 7ème ciel, che inaugura il proprio catalogo con un EP 10" in vinile degli And Also The Trees.

Il disco contiene quattro tracce acustiche, registrate nella scia dell'ultimo CD When The Rains Come. La tracklist comprende i brani Stay Away From The Accordion Girl, Shantell, The Street Organ e Feeling Fine. La selezione integra alcune canzoni che sono state eseguite nel tour senza essere presenti nell'album.

Ma è il packaging a fare gola: una bellissima sleeve in cartoncino riciclato al 100%, booklet di quattro pagine, versione in CD dell'EP (per il conforto di chi il piatto per i vinili non ce l'ha nemmeno più), due cartoline, un adesivo e un badge.

L'edizione è limitata a 500 copie numerate. Ah, Simon Huw Jones' ha scritto a mano i testi per questa edizione... cos'altro volete di più?

29 novembre 2009

Moltheni, l'ingrediente nuovo e lo sdegnato addio

Ingrediente Novus è il modo in cui Moltheni ha deciso di ripensare il concetto di compilation.

Con 5 album alle spalle, che lo hanno confermato tra i migliori autori italiani del decennio, e con una mezza idea di mollare il proprio pseudonimo e il proprio paese per dedicarsi ad altro (vedi interviste rilasciate di recente), Moltheni ha pensato bene di auto celebrarsi senza farlo in modo sterile, e dunque ecco qua non già una semplice raccolta di pezzi tratti dai suoi dischi, ma 17 registrazioni inedite, riletture insomma, che aggiungono ingredienti nuovi e aromi inaspettati a vecchie ricette.

In alcuni casi il nuovo lavoro di studio è quasi impercettibile: i pezzi che vengono riproposti dal recente I segreti del corallo sono praticamente indistinguibili dagli originali. Ma è con le composizioni più lontane nel tempo - vedi Il circuito affascinante o Nutriente - che l'operazione fornisce i risultati più apprezzabili. Spogliate degli arrangiamenti ridondanti dell'inizio carriera (quando Moltheni cercava la propria identità sotto l'ala protettiva di Carmen Consoli) le canzoni risplendono della luce pulita e abbacinante che caratterizza tutta la produzione più recente di Umberto Giardini.

Una raccolta che riesce dunque tramite lo stratagemma della nuova esecuzione a farsi compatta, tesa, assieme intima e fortemente comunicativa. L'unica eccezione potrebbe essere la versione di Zona monumentale cantata da Vasco Brondi (de Le luci della centrale elettrica), dove l'espressività di quest'ultimo spezza lo stile del contesto.

Moltheni è uno di quelli che si amano o si odiano (per quanto mi ripugni ammetterlo, questo vecchio luogo comune si adatta a qualcuno). Questo però non sempre accade a chi vale qualcosa: ma in questo caso il valore delle canzoni è indiscutibile, anche se posso capire quelli che non sopportano il malessere così precisamente disegnato dall'artista marchigiano.

Una nota per il DVD allegato: contiene tutti i video di Moltheni, due live e un cortometraggio. Non è un semplice accessorio, meriterebbe l'acquisto già da solo.

Ancora Spittle

Non sto a ripetere il solito panegirico per l'opera di ristampa della Spittle Records.
Scavate pure in questo blog alla ricerca delle precedenti uscite della label italiana,
Mi limito dunque in questa occasione a segnalare le ultime tre uscite che riguardano altrettante band italiane degli anni '80.


I Not Moving furono attivi nella prima metà degli anni '80 e giunsero alla Spittle dopo una lunga gavetta live. In questa uscita vengono proposti in un solo CD l'EP del 1985 Black 'N' Wild e il primo LP Sinnermen del 1986.
Pur risentendo di uno stile imitativo e di una pronuncia inglese non proprio convincente, i Not Moving, con la loro mescolanza di generi tra psichedelia, punk, blues, rock'n'roll, proponevano uno spaccato della scena wave italiana che rimasticava tra gli altri Gun Club, X, Bauhaus, Cramps, Siouxsie, dando comunque prova di vitalità e fermento. Il brano Sinnerman da solo, qui riproposto nella versione originale, varrebbe a dimostrare quanto di buono si potesse rintracciare nel sottobosco alternativo dell'epoca.


Gli State Of Art li avevamo già ritrovati nella compilation Milano New Wave 1980-83. Nel CD Dancefloor Statements 1981-1982 vengono ora raccolte tutte le incisioni di studio della band milanese e alcune esecuzioni live finora inedite.

Dediti ad un funk-wave alla A Certain Ratio, ma vicini anche a soluzioni no-wave lontanissime dalla scena italiana dell'epoca (riesco a citare solo i Rinf), gli State Of Art sono stati una delle realtà italiane più originali dell'epoca e vanno certamente riscoperti.


Il trittico si chiude con gli Art Boulevard. La band nasce più tardi, nel 1985, e di conseguenza muta la proposta stilistica.
Il post-punk si fonde con altre suggestioni, con la preponderanza di una fascinazione per i tardi anni '60.

1987 > 1985 a story backwords è il titolo di questa raccolta, nella quale sono inclusi tutti i brani registrati dalla band bergamasca: l'unico EP The Favorite Toy e le varie demo distribuite in cassetta.
Il gruppo seguirà poi una diversa evoluzione con cambi di formazione e nome mutato, ma questa è un'altra storia.

18 novembre 2009

1, x,... xx

Bisognerebbe trovare il modo di vietare ai recensori di creare false aspettative utilizzando associazioni improprie per descrivere un nuovo album.

Per questo disco dei giovanissimi xx ho letto da più parti che ricorderebbe il meraviglioso unico album degli Young Marble Giants.

Riconosco qualche rassomiglianza ma lo preciso subito: i due lavori sono imparagonabili perchè qui manca la straordinaria ingenuità che donava a quel lavoro, costruito su pochissimi suoni e su una scrittura limpida e originale, un'alchimia che oggi è impossibile. E lo è perchè l'ingenuità non esiste più.

Laddove ce n'è, viene attenuata dalla consapevolezza dei propri mezzi, delle mode e dei gusti del pubblico che oggi anche un giovanissimo quartetto come gli xx può possedere e tenere in considerazione nell'autoprodursi un'uscita discografica.

Premesso questo, l'album d'esordio è delizioso: pur essendo assemblato a partire da echi riconoscibili e obbligatori di questi tempi (anni 80 a palate), è capace di alcuni momenti memorabili e con i suoi 38 minuti circa scivola via che è un piacere e invoglia ad ascolti ripetuti. Come primo lavoro non è proprio malaccio, e questi ragazzini vanno tenuti d'occhio.

Secondo commento letto qua e là: gli xx sarebbero spudorati imitatori degli Human League. Per fare una simile affermzaione basta, ovviamente, non aver mai ascoltato un album degli Human League, o forse essersi basati solo sulle foto in cui i quattro ragazzi possono ricordarne il look (ma diciamo la verità: non vi ricordano il look di altri 100 gruppi post-punk / new wave?)

In realtà nelle tracce di questo disco c'è tutt'altro.
Si parte con un intro strumentale debitore dei New Order (quelli di Low Life) ma poi si scivola verso un dark-soul minimale che spazia da reminiscenze dei Cocteau Twins, Cure e Pixies assieme (i singoli Crystalized e Islands sono quasi perfetti) a brani più upbeat che mi ricordano soprattutto gli Everything But The Girl, ma anche tanto soul anni 90/00 (Heart Skipped a Beat, Basic Space), senza disdegnare una puntatina in atmosfere ipno-ambient alla Coil (l'onirica Fantasy). L'intreccio delle due voci è piacevole ed attenua l'effetto ripetizione che pure qua è là viene rischiato. Arriva come una sorpresa la ripresa, quasi a fine album nella bella Infinity, delle sonorità riconoscibilissime del successo di Chris Isaak Wicked Game

Una veloce annotazione sul packaging: per il materiale usato e per l'idea semplice, fanciullesca e di assoluta integrità ricorda i libricini di Munari, e questo basta a renderlo speciale.

14 novembre 2009

L'illusione del volo

Erano i primi anni '80.

Nel belpaese la new wave era una meteora tardiva e bistrattata, appena gratificata dall'interesse di poca stampa specializzata e di un manipolo di appasionati.

Non molti lasceranno cose memorabili, eccezion fatta per la cosiddetta scena fiorentina. E' singolare dunque che in una Bassano del Grappa ben lontana dall'epicentro del fenomeno, i Frigidaire Tango di Carlo Casale e Stefano DalCol contribuissero in modo così concreto: una ventina di canzoni appena, per la verità dotate però di un peso specifico rilevante.

Lontani dagli schemi, ed anche da quelli della stessa new wave stessa, tanto che questa etichetta stava piuttosto stretta al sestetto veneto, attraversato da influenze diverse tra prog rock, sperimentalismo, elettronica minimale, ed echi di una miriade di band anglosassoni.
Di recente mi sono sorpreso, ad un riascolto dell'album d'esordio The Cock (1982), nel notare, soprattutto per le sonorità, l'unico disco che riuscivo ad accostarvi era il primo dei Chrisma, non a caso uno dei pochi lavori italici dell'epoca ad avere un respiro internazionale.

La parabola dei Frigidaire Tango durò pochissimo e terminò già nel 1985. Da allora, per almeno vent'anni, il nome sarebbe rimasto una sorta di mito, vivo solo nella memoria degli appassionati più curiosi. A sorpresa, però, eccoli riapparire qualche anno fa, con lo splendido cofanetto The Freezer Box, raccolta della loro opera omnia, seguito da una reunion per diverse date dal vivo che riscuotono un inaspettato successo.

A coronamento di questa esperienza, giunge ora il nuovo album di studio L'Illusione del volo, prodotto da Giorgio Canali per LaTempesta Dischi. E si tratta di un disco molto gradito, che offre contemporaneamente delle sorprese e delle conferme.

La prima sorpresa è il cantato in italiano anzichè in inglese. Una scelta legata alla tradizione dell'etichetta La Tempesta, ma che si è rivelata molto felice in quanto la resa dei testi è eccellente e dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, che si può fare ottima musica in italiano senza apparire provinciali.

La seconda sorpresa sta nel fatto che questo non è un disco revivalistico: è un disco di rock italiano pieno d'influenze, ma che non sa di nostalgico.

Le conferme sono legate all'altissima qualità dei brani, al respiro musicalmente ampio e variegato - si contano numerose escursioni nella canzone d'autore, nel rock alternativo, nel post-punk - ed anche all'eccellente fattura del bellissimo packaging, un'attitudine già apprezzata nel box antologico.

Il disco ha qualche flessione soltanto nel mezzo, con un paio di tracce dall'impostazione troppo melodica che va fuori dalle corde naturali della band. Ottimi invece altri episodi, come l'apertura affidata alla convincente Milioni di parole, oppure il quasi-punk alla CCCP di Mescola le razze, o ancora il rock italico con giro di basso pulsante di Natural mente. E potrei citare anche Distogli lo sguardo, Le cose capite, o la splendida Preghiera che muta il Padre Nostro in una invocazione di libertà.

Ma la menzione d'onore va al nostalgico brano di chiusura New wave anthem, il cui testo è costituito da una incredibile girandola di citazioni di nomi di band new-wave. Un esperimento che poteva finire nel tragicomico e che invece ha dato vita ad una splendida canzone che conclude più che degnamente questo bel disco contemporaneo.

12 novembre 2009

This Immortal Coil

This Immortal Coil è un progetto in memoria di John Balance, nato dalla volontà del musicista francese Stéphane Grégoire. Il progetto è stato portato avanti per quattro anni ed ha condotto alla pubblicazione dell'album di cover dei Coil The Dark Age Of Love. L'idea di fondo viene spiegata dallo stesso Grégoire sul sito dedicato al progetto.

"Il 13 Novembre 2004, Jhonn Balance ci ha lasciato. Era, assieme a Peter Christopherson, il membro fondatore dei Coil. La sua morte improvvisa ha segnato la fine di vent'anni di attività e di genio musicale. Ho dunque deciso di lavorare ad un progetto che rendesse tributo a ciò.
Non volevo un'altra compilation che accumulasse pezzi senza una connessione. Il mio desiderio era di trasportare il suo mood musicale unico in un'altro più classico e maggiormente accessibile a tutti. L'idea nel suo complesso era di tributare un omaggio alla musica anche per ciò che c'era dietro, esattamente nel modo sottolineato dagli stessi Coil: 'i Coil sono più che musica'."

Il nome scelto per il progetto evoca una bella realtà degli anni '80 (ed utilizza un gioco di parole di cui ho abusato in passato), come conferma il paragrafo successivo.

"Ho tratto ispirazione dal progetto This Mortal Coil, avviato negli anni ottanta dall'etichetta inglese 4AD. Il manager della label aveva raggruppato alcuni dei propri artisti al fine di riproporre degli standard della musica rock e pop."

Le analogie, a dire il vero, sono ben poche: è diverso il criterio di reclutamento (Ivo Watts Russell aveva radunato solo i propri artisti o comunque personaggi che avevano collaborato a progetti della 4AD), è diverso il bacino del materiale riproposto (che in questo caso è limitato alla sola produzione dei Coil). Ma lo spirito dell'idea è invece molto simile, come viene spiegato subito dopo.

"La maggior parte di quelli che hanno partecipato a questo lavoro conoscevano a malapena i Coil. Il mio proposito era di non rivolgermi a quegli artisti che avevano una connessione esplicita con la musica del gruppo, lasciando stare i musicisti che affermavano di essere gli eredi di questo lavoro seminale. Il mio scopo era di giocare sulla scoperta e di condurre i pezzi dei Coil verso nuove interpretazioni, sbarazzandosi di tutte le influenze. Il rispetto e l'ammirazione che ho per il lavoro dei Coil mi ha condotto a circondarmi di artisti di talento che ammiravo anche per la loro scrittura brillante. Avevo bisogno di personalità forti che mostrassero un desiderio anche inconscio di mettere tutta la propria anima, con grande umiltà e maturità, nella loro partecipazione. L'interpretazione di Bonnie Prince Billy ne è certamente la testimonianza più intensa.
Ognuno degli artisti che hanno partecipato a questo progetto è rimasto profondamente affascinato dalla profondità del repertorio. Sono stati tutti motivati e felici di portare il proprio bagaglio personale e di condividerlo con gli altri.
I membri dei DAAU di Anversa, la virtuosa Christine Ott, Yann Tiersen and Matt Elliott hanno avuto incontri produttivi forti e appassionati, che hanno indotto Yann Tiersen ad offrire a Matt Elliott di partecipare al suo nuovo album Dust Lane. Per completare, e per rafforzare questo spirito di team, l'intero album è stato mixato da Oktopus (Dälek) che sapeva meglio di chiunque altro come mettere assieme il contributo di ciascun membro al progetto.

Peter Christopherson, che nel frattempo è tornato a lavorare con i suoi primi due gruppi Throbbing Gristle e Psychic TV, ha scritto di This Immortal Coil: 'Li AMO. E' la prima volta che qualcuno con talento e sensibilità musicale abbia impiegato tanto tempo ed impegno nel suonare brani dei Coil. Hanno assolutamente superato il mio test peli sul collo rizzati per l'intera durata dell'album. Sono rimasto sbalordito e ammirato.'
Dopo quattro anni dedicati a questo progetto, non potevo chiedere di più."

Così chiude la propria presentazione Stéphane Grégoire. Di mio aggiungo che il commento di Christopherson è sacrosanto, vista l'incredibile intensità di questo lavoro.
Consiglio vivissamente di ascoltarlo sia a chi ha amato i Coil, sia a chi non li ha mai neppure sentiti nominare. E anche chi non li avesse mai apprezzati in modo particolare, potrebbe trovare in queste tracce delicate, evocative e musicalmente ineccepibili, un nuovo inatteso punto di contatto.

8 novembre 2009

La gioia dei Massive Attack

Questa non è la recensione di un concerto. Non è la narrazione di una serata. E' la testimonianza di un rituale di adorazione, il cui oggetto sono stati i Massive Attack, protagonisti di uno splendido show ieri sera al Palasharp di Milano.

In forma strepitosa, con un contorno di voci che dire eccellenti è riduttivo (Martina Topley Bird, Horace Andy, Deborah Miller), accompagnati dal solito strepitoso gruppo di musicisti (tra cui cito sempre volentieri il chitarrista Angelo Bruschini), e graziati da un'acustica impeccabile, i due di Bristol hanno deliziato il pubblico milanese, che ha reso loro omaggio con numerose ovazioni e applausi anche nel bel mezzo delle canzoni, una manifestazione di stima e di affetto che ricordo di aver visto raramente tributato ad una band pop.

Bellissimo il palco, che con poche luci ed un solo screen posto dietro la band ha dimostrato che con mezzi tecnici non faraonici si può aggiungere emozione ad emozione (in particolare le frasi in italiano che scorrevano sullo sfondo hanno colpito tutti, soprattutto quelle riguardanti l'attualità di questo povero paese).

Assolutamente convincenti i pezzi nuovi (sei, se ho contato bene), proposti dal vivo prima dell'uscita del nuovo album (che ormai è slittato a data da destinarsi), notevoli tutti i nuovi arrangiamenti dei brani vecchi, al punto che mi auguro fortemente la realizzazione di un DVD di questo tour.
Inertia Creeps, Teardrop, Angel, Safe From Harm, Unfinished Sympathy e la stessa Karmacoma sono state proposte in versioni modificate - qualcuna in modo sottile, qualche altra in modo macroscopico, ma tutte decisamente efficaci.

Emozioni rare, una serata che in molti ricorderemo a lungo. Si esce sotto la pioggia battente, instupiditi, raggianti, commossi. Lunga vita ai Massive.


NB: le immagini non sono relative alla data di Milano. Per una volta non avevo la macchina fotografica, e me ne sono pentito.

1 novembre 2009

Gli Editors cambiano stile. Ma comunque...

Yawn... Che c'è? Ah? Si? Ooops, scusate, avevo appena finito di ascoltare In This Light And On This Evening, terzo e forse attesissimo album degli Editors, e mi ero appisolato.

Pessima gag, lo so, ma se non la sfrutto ora che mi accingo a parlare di un album davvero soporifero, quando potrò mai giocarmela in futuro?

Ma entriamo nel merito. Reduci da due album a loro volta decisamente noiosi, gli Editors decidono nella loro terza fatica di abbandonare il suono guitar-oriented e di darsi alle tastiere.
Una mossa originale, non fosse che è esattamente la stessa cosa che fecero i Joy Division quando cambiarono il nome in New Order.

Lì, è vero, si parlava di una delle più grandi band di sempre. E il cambio di stile (e di nome) era da imputare alla scomparsa di Ian Curtis. Qui siamo invece di fronte ad uno dei tantissimi emuli che nell'ultimo lustro si sono accumulati sulla lapide del cantante di Manchester ad accendere un lumino e a chiedere un po' di ispirazione. Il nostro evidentemente non collabora, e infatti l'ispirazione è proprio la merce che più latita nei vari Interpol, Editors e compagni (per i quali è stata coniata la brutta etichetta di Neo-Wave).

L'album si compone di nove tracce dalla durata sostenuta (la media è sopra i 4 :30) . Pezzi che sono giocati quasi tutti sugli stessi elementi: batteria minimale, molto sequencer, linee di synth decisamente basiche, la voce di Tom Smith che, pur gradevole quando si tiene sui toni baritonali che sfrutta maggiormente, a volte si lascia andare ad un falsetto alla Coldplay sul quale non ritengo di spendere un commento.

Il risultato, quando tutto va bene (vedi il singolo Papillon) è una scopiazzatura dei New Order che potrà andar bene per un po' nelle discoteche di tendenza. Quando tutto va male, si traduce in lunghi brani ripetitivi che mescolano un po' dei primi Human League, un po' di Coldplay, un po' di New Order, ma senza nulla di memorabile o di profondo.

Bricks And Mortar, con i suoi 6:15 di totale vacuità, è il manifesto del disco e rappresenta tutto ciò che i denigratori della goth-wave ritenevano che quest'ultima fosse: una gran noia con un tipo che fa la voce lugubre.

La sola Eat Raw Meat = Blood Drool esce dagli schemi e propone qualcosa di interessante. Ma è il penultimo pezzo e ormai è troppo tardi.

26 ottobre 2009

Alice In Chains back in blue

Quando gli Alice In Chains hanno annunciato, qualche tempo fa, la pubblicazione di un nuovo album, la reazione da parte dei fan di una delle più grandi band degli anni '90 non era stata esattamente positiva.

E' intuitivo quanto sia dura riproporsi utilizzando lo stesso nome dopo la morte del proprio cantante. Lo sanno ad esempio i Queen, che hanno realizzato un flop spaventoso con l'ultimo disco con Paul Rodgers. E hanno certamente avuto qualche timore, a suo tempo, anche gli AC/DC: soltanto col senno di poi possiamo affermare che la scommessa di Back In Black, che giocava tra l'altro in modo un po' discutibile sul ritorno listato a lutto, si tradusse nel loro successo più grande.

La band di Seattle si trovava addosso anche il rapporto ambiguo di Layne Staley con la morte, citata spesso nei testi della band e tema dominante di tutta la scena grunge dell'epoca. Come tornare dopo 14 anni (l'ultimo album con Staley, l'omonimo Alice In Chains, uscì nel 1995) senza snaturarsi e riuscendo a trovare il supporto di una fan-base certamente indignata?

Ok, Jerry Cantrell e soci ce l'hanno fatta. Il disco è bellissimo, e a momenti riesce anche a farmi dimenticare di star lì a fare confronti. Che sono inevitabili, naturalmente; ma il chitarrista, da sempre autore di tutti i brani del gruppo, è riuscito in qualche modo a far rivivere la magia dei vecchi lavori utilizzando la stessa formula di sempre: riparte dal disco precedente ma aggiunge e sottrae, creando qualcosa di mai sentito, pur con la messe incredibile di rimandi che lascio a voi indagare nei dettagli.

Il disco si apre con All Secrets Known, un pezzo che va sul sicuro riproponendo un classico sound "alla A.i.C", ma con idee armoniche e melodiche non scopiazzate. Si avverte subito che William DuVall, il nuovo cantante, dovrà faticare non poco per cercare una propria personalità. A momenti sembra un imitatore di Staley, e questa è l'accusa che gli è stata mossa da più parti. Dissento. Va ricordato che entrambi hanno alla fin fine affrontato i pezzi di Cantrell, il quale le canzoni le scrive in questo modo. E infatti è proprio il lavoro di Cantrell come seconda voce quello che definisce stilisticamente il cantato di questa band: a mio modo di vedere DuVall ne esce più che bene sulla base di questo ragionamento.
Segue Check My Brain, sulla stessa falsariga ma con un refrain molto più accattivante, non per nulla la canzone è stat scelta come secondo singolo.
Last Of My Kind schiaccia l'acceleratore sul versante metal, ricordando quante band degli anni '00 devono parte del proprio sound proprio a questi signori. I Black Label Society di Zakk Wylde sono i primi che mi vengono in mente.
Alla quarta traccia, con Your Decision, c'è il primo momento di rilassamento dal ritmo sostenuto delle prime tre canzoni. Grande ballata nello stile del mai abbastanza lodato ep Jar Of Flies, e sfodera anche un ritornello memorabile dal quale è difficile liberarsi.
A Looking In View gioca invece nei territori di Dirt, con un riff teutonico a martello, un gran lavoro di chitarre, un eccellente intreccio tra le voci di Cantrell e DuVall. Primo singolo estratto dall'album.
When The Sun Rose Again è il gioiellino inaspettato. Percussioni lignee e un gran lavoro di composizione di Cantrell, che gioca sugli accenti producendo un tempo complesso che sembra dispari ma non lo è. Bei break, cambi interessanti, uno dei pezzi migliori del disco.
Acid Bubble è la canzone che mi fa pensare di più a Tripod (come i fan chiamano l'ultimo album con Staley). Un pezzo oscuro e intriso d'angoscia, sostenuto da una chitarra lancinante. A metà il brano s'incattivisce in modo inatteso con un riff di scuola bastarda, di grandissimo impatto.
Da qui in poi però le tenebre che avvolgo i primi sette pezzi si diradano e fuoriesce qualche timido raggio di sole.
Lesson Learned è infatti un hard rock magistrale, dalle sonorità più ottimiste.
Take Her Out prosegue nello stesso stile ma con una riuscita forse inferiore, mi pare il pezzo meno interessante dell'album.
Private Hell è invece una canzone riflessiva splendidamente composta. Bello il testo e notevole, qui come altrove, l'interpretazione di DuVall.
Si approda all'ultima traccia con Black Gives Way To Blue, obbligatoria (?) chiusura lenta, con l'ospitata di Elton John al piano. Un brano che scarseggia in originalità, avrei preferito qualcosa di più coraggioso per la chiusura di un disco così ben riuscito.

E a questo punto, non mi resta che comprare il biglietto per il concerto del 2 dicembre. Vi farò sapere.

23 ottobre 2009

Ist Liebe Für Alle Da? (domande sui Rammstein)

I Rammstein sono un oggetto decisamente misterioso. Tutto in loro sa di fasullo, di prefabbricato, odorano di plastica come action figures del metal appena scartate.
Eppure emozionano, appassionano, piacciono a qualsiasi metallaro ed anche a qualche non metallaro. Come fanno? Questa è la prima domanda, e conto per ora di lasciarla irrisolta. Rifletterò sulla questione in altra sede, magari.

Ora è il momento di parlare di Liebe Ist Für Alle Da, il nuovo album giunto a quasi un lustro dal precedente. Prima di spararlo a volume insano nel lettore, mi chiedevo soprattutto una cosa: sarà migliore del tutto sommato deludente Rosenrot? Seconda domanda. Azzarderò una risposta, ma datemi tempo.

Lasciando per un attimo da parte l'aspetto goliardico predominante nel lancio dell'album (penso al video del singolo Pussy, che termina in scene di pornografia esplicita), quello che percepisco da un punto di vista strettamente musicale da parte degli alfieri del "tanz metall" è, più che un passo in avanti, uno scarto di lato.

Cosa potevano fare i R+ per suonare più cattivi, più disturbanti, più ammalianti che in Mutter o in Sennsucht? Terza domanda, e qui risposta secca: nulla, non potevano fare davvero più nulla per superarsi, e questo era proprio quanto esprimeva l'album precedente. Nonostante gli sforzi, battersi era diventato un obiettivo irraggiungibile. E allora, con calma, da veri professionisti capaci di calcolo e pazienza, i nostri hanno speso i quattro anni trascorsi per rifare i Rammstein uguali a prima ma diversamente uguali.

E hanno fatto spaventosamente centro. Il nuovo disco è un capolavoro di equilibrismi, capace di crescere ascolto dopo ascolto, denso di momenti di intensità sulfurea e traboccante di elementi che si stampano nei neuroni come una droga chimica, costringendo alla dipendenza.
Il tutto, calcando pesantemente sul loro classico riff-o-rama di base - chi distingue un granitico muro di chitarra dall'altro? quarta domanda, ma essendo retorica non vale - lavorando però sui pezzi in modo da caratterizzarli e renderli unici, perfettamente distinguibili e funzionali allo sviluppo del disco. Ehi, mi viene da pensare, ma hanno ragionato come per un disco pop! Già. Qui la domanda la salto e passo alla risposta: certo, i Rammstein sono, semplicemente, una grande pop band che sfrutta elementi del metal, ormai assimilati dall'immaginario collettivo, e li fonde con gli elementi più disparati, tutti però dal forte impatto sulla fantasia e capaci di piantarsi nella memoria.

Il livello delle composizioni è mediamente buono, con qualche eccellenza e poche vere delusioni. Tra i brani migliori rientrano i primi tre - Rammlied, che rimescola efficacemente vecchi elementi del sound "alla Rammstein", l'ottima Ich Tu Dir Weh, la violenta Waidmanns Heil, che usa toni epici per un testo sulla caccia che farà ovviamente discutere - e l'eccellente title track, forse il pezzo più riuscito del disco.
Interessanti la pesantissima Bückstabü, in cui il canto si avvicina un po' al growl, e la ballata Frühling In Paris, in cui i toni si fanno decisamente più romantici: questo è un album in cui la voce di Till Lindeman è finalmente capace di spaziare un po' di più che non nel passato.
Dopo qualche ascolto si fanno apprezzare anche i brani più calssicamente metal, come Wiener Blut e Mehr, ben scritte e ben arrangiate anche se quasi prive dell'apporto delle tastiere di Flake.
Bruttina invece la depechemodiana Haifisch, troppo orecchiabile e basata su una melodia scontatissima e su tastiere davvero abusate.
Inaccettabile, anche come scherzo, l'orrida Pussy. Ne avevo già abbastanza delle varie Amerika e Te Quiero Puta per tollerare un'altra barzelletta musicata.
Discorso a parte per la conclusiva Roter Sand, ballatona epica ben riuscita ma che paga lo scotto di giungere come secondo pezzo lento in un solo album.

Ma dunque, alla fine, quest'album è migliore di Rosenrot? Si, abbastanza, ma non raggiunge le vette del passato. E' interessante però la scelta di innovare la formula, nei limiti del possibile. Attendo i sei germanici al varco del prossimo album. E, nel frattempo, faccio air guitar su questo. Fortuna che non mi vede nessuno.

Post Scriptum: ma quanto è bello l'artwork? Ehi, un'altra domanda. Rispondo subito: molto, molto bello.

22 ottobre 2009

Living Colour in the doorway

Questo blog è nato un po' di tempo fa proprio con un post sui Living Colour. In quell'occasione ero reduce da un loro bel concerto al MusicDrome di Milano, e recensivo la serata in termini decisamente positivi. E' pertanto con una punta di dispiacere che mi accingo a parlare del nuovo disco della band, una uscita deludente che proprio non mi aspettavo.

Velocissima storia: i Living Colour nascono negli anni '80, proponendo una miscela di hard rock e funk che dà uno scossone ai cliché del rock di marca statunitense dell'epoca.
Incorporano di tutto, dal metal all'hip hop, discostandosi però da altre band che fanno del crossover la propria bandiera, sia per l'approccio politicizzato dei testi (influenzato anche dal fatto di essere una all-black band), che per i toni nonostante tutto leggeri che riescono a dare alla propria musica: una colorata sarabanda che, al suo meglio, sforna capolavori da college radio come Funny Vibes, Cult of Personality, Type e via citando.

Dopo i primi due fortunati album (Time's Up, 1988, e Vivid, 1990) e l'EP Biscuits, nel 1993 giunge il primo scossone: Stain è un album molto più concentrato sul metal vero e proprio, appesantito nella formula e che non piace quasi a nessuno, fatti salvi i meriti musicali indiscutibili del chitarrista Vernon Reid e del cantante Corey Glover. Qui la band si arena e giunge lo scioglimento.

Ok, avevo detto storia "velocissima", mi sono dilungato un tantino. Ma la cronologia ci aiuta e salta a piè pari al 2003, quando i Living Colour si ripresentano con il nuovo album Collideoscope. Si tratta di un buon lavoro, non eccellente ma ricco di spunti, con alcuni ottimi brani e momenti che fanno rivivere lo spirito dei primi dischi.

Giunge adesso, dopo altri sei anni che hanno visto soltanto la pubblicazione di un paio di buoni live, The Chair In The Doorway, il quinto album di studio. E per la prima volta non mi spiego proprio cosa avessero in mente i Living Colour quando hanno assemblato questo disco. Lo stile si è appiattito sull'hard rock più tradizionale, per giunta con un trattamento sonoro da band indie che non rende giustizia alla perizia tecnica del quartetto. Gli undici brani scorrono via anonimi, senza infamia e senza lode, tanto che non ho neppure voglia di andarmi a cercare i titoli per trascriverne qualcuno. Trentacinque minuti di compitino svogliato, senza guizzi e senza nulla che lasci traccia nella memoria. La ghost track aggiunge solo una manciata di minuti e si sarebbe potuta anche evitare, considerato che si tratta del brano più debole del lotto.
Mah.

19 ottobre 2009

And Also The Trees al COX18, 17/10/2009

Un ottobre bello ricco, quello che si è profilato a Milano per i nostalgici, romantici, gotici ed ex-gotici terribilmente radificati negli anni '80 come il sottoscritto.

Dopo l'ottima serata trascorsa con Peter Murphy, ed in attesa del faraonico Bats over Milan che si svolgerà nel prossimo weekend, sabato scorso è stata la volta degli And Also The Trees, impegnati con il tour acustico legato all'uscita dell'album When The Rains Come.

Cornice inusuale per questo tipo di serata il COX 18, lo storico centro sociale sul naviglio pavese, di recente tornato agli onori delle cronache per storie di sgomberi e ri-occupazioni.

Il palco di dimensioni lillipuziane e le condizioni acustiche piuttosto avverse della sala non sono riusciti fortunatamente a rovinare la performance della gloriosa band di Inkberrow, che occupa un posto importante nel mio cuore per le emozioni che ho sempre trovato stratificate nella loro musica vibrante e nei testi di rara bellezza. Se c'è un gruppo che interpreta l'aggettivo "gotico" in senso letterale e letterario, questi sono gli And Also The Trees.

La formazione che si presenta dopo mezzanotte sul palchetto del Conchetta è composta di quattro elementi. I due soli superstiti della formazione originale sono il cantante Simon Huw Jones (con capelli scarmigliati e barbetta incolta, un look inaugurato solo nel recente passato) e il chitarrista Justin Jones (che sembra un ragazzino, e invece all'anagrafe conta 45 anni suonati). Li accompagnano gli ottimi Ian Jenkins al contrabasso (che si esibisce in una esecuzione di incredibile precisione) e la talentuosa tastierista Emer Brizzolara, che per l'occasione ha sfruttato percussioni cromatiche e solo occasionalmente una diamonica.

Il concerto parte lentamente e con toni soffusi, le dinamiche molto schiacciate, con Shantell a darmi subito una fitta di nostalgia, seguita da Candace, poi The Suffering Of The Stream e via via brani da tutta la produzione - che conta ormai ben dieci album di studio. Ma con l'avanzare della scaletta la voce di Simon Huw Jones si scalda sempre più, mentre la performance con piccoli incrementi assume l'intensità che fa da marchio di fabbrica per gli AATT sin dagli esordi; i crescendo diventano sempre più marcati, la tensione drammatica cresce. Su Street Organ Justin imbraccia la fisarmonica, e l'esecuzione mi mette i brividi. Il set si chiude con il vecchio brano A Room Lives in Lucy e infine con una meravigliosa versione di The Untangled Man.

Il secondo set, molto più breve, si apre con Vincent Craine e, passando per Wallpaper Dying, viene chiuso da una fantastica interpretazione di Virus Meadow, che mi compensa dell'assenza della pur attesissima Slow Pulse Boy.

In tutto una ventina di brani durante i quali non posso che emozionarmi pensando a quante volte ho ascoltato queste canzoni negli ultimi vent'anni. Che posso dire? Grazie, grazie, grazie.

12 ottobre 2009

Parov Stelar in Coco

Di Parov Stelar vi avevo già parlato ai tempi dell'uscita del terzo album Shine.

Nei due anni trascorsi dall'uscita di quel CD, il musicista austriaco non dev'essere stato con le mani in mano, visto che stavolta il materiale proposto è davvero tanto: Coco è un album doppio, che raccoglie 26 tracce per oltre 100 minuti di musica.

Molto è cambiato nello sviluppo musicale del progetto - dietro il quale si cela nient'altro che Marcus Füreder, fondatore della Etage Noir - anche se il materiale di partenza è sempre lo stesso: una miscela sapiente di jazz, swing ed electro che ammicca agli anni '30, al cinema noir ed alla tradizione della dance austriaca dalle atmosfere più rarefatte e decadenti.

Ciò che distingue in modo deciso questa uscita dalle precedenti è l'innalzamento della media dei bpm delle composizioni. Quest'album è molto più veloce, più ballabile, più radiofonico, a testimonianza del fatto che probabilmente il produttore ha compreso le proprie stesse potenzialità commerciali, ed ha deciso di metterle a frutto.

Ciò nonostante, il risultato è delizioso e non sfigura, per freschezza ed eleganza (due cose difficili da tenere insieme) rispetto ai pur eccellenti primi due album. E così si batte il piede nei pezzi più electro, si sogna su quelli più romanticamente adagiati su splendide voci femminili, si apprezza il sax suadente che appare qua e là, si tollera addirittura il rap non invadente che compare in due brani ben congegnati.

Applausi a Herr Füreder, continui così.

8 ottobre 2009

Torna Disintegration in edizione eccessiva

Robert Smith in persona ha annunciato che il programma di ristampa della discografia integrale dei Cure riprenderà nel 2010 con la pubblicazione di Disintegration in una faraonica edizione tripla.

E quasi mi sorprende che l'ormai pingue ma sempre amatissimo leader della band inglese sia riuscito ancora una volta ad assemblare una uscita che offre, nonostante la riproposizione in gran parte di materiale arcinoto, validi motivi per l'acquisto. Lo dico nonostante sia facile prevedere che sarà caratterizzata da un prezzo non certo abbordabile.

A questo punto lascio parlare direttamente la scaletta dei tre dischi, che dice tutto quanto c'è da dire.

Aggiungo però le ulteriori ghiottissime notizie: nello stesso comunicato Mr Smith annuncia che nello stesso anno potrebbero vedere la luce Mixed Up 2, un nuovo box set con tutti i brani dei Cure alla BBC, e gli attesissimi Cure in Orange e Show finalmente in DVD.
Iniziate a risparmiare...

CD1: Disintegration

01. Plainsong
02. Pictures Of You
03. Closedown
04. Lovesong
05. Last Dance
06. Lullaby
07. Fascination Street
08. Prayers For Rain
09. The Same Deep Water As You
10. Disintegration
11. Homesick
12. Untitled

CD2: Rarities (1988 - 1989)

01. Prayers For Rain (RS home demo - instrumental - 04/88)
02. Pictures Of You (RS home demo - instrumental - 04/88)
03. Fascination Street (RS home demo - instrumental - 04/88)
04. Homesick (band rehearsal - instrumental - 06/88)
05. Fear Of Ghosts (band rehearsal - instrumental - 06/88)
06. Noheart (band rehearsal - instrumental - 06/88) *
07. Esten (band demo - instrumental - 09/88) *
08. Closedown (band demo - instrumental - 09/88)
09. Lovesong (band demo - instrumental - 09/88)
10. 2Late (alt version - band demo - instrumental - 09/88)
11. The Same Deep Water As You (band demo - instrumental - 09/88)
12. Disintegration (band demo - instrumental - 09/88)
13. Untitled (alt version - studio rough - instrumental - 11/88)
14. Babble (alt version - studio rough - instrumental - 11/88)
15. Plainsong (studio rough - guide vocal - 11/88)
16. Last Dance (studio rough - guide vocal - 11/88)
17. Lullaby (studio rough - guide vocal - 11/88)
18. Out Of Mind (studio rough - guide vocal - 11/88)
19. Delirious Night (rough mix - vocal - 12/88) *
20. Pirate Ships (RS solo - rough mix - vocal - 12/89) *

(* previously unreleased song)

CD3: Entreat Plus

Recorded Live at Wembley Arena 1989 - Remixed by RS 2009

01. Plainsong *
02. Pictures Of You
03. Closedown
04. Lovesong *
05. Last Dance
06. Lullaby *
07. Fascination Street
08. Prayers For Rain
09. The Same Deep Water As You *
10. Disintegration
11. Homesick
12. Untitled

(* previously unreleased performance)

7 ottobre 2009

Peter Murphy live a Milano, Alcatraz, 05/10/2009

Peccato che fossimo davvero pochini lunedì sera all'Alcatraz.

Peccato perchè il concerto di Peter Murphy (per chi non se lo ricordasse, parliamo del cantante dei grandi Bauhaus) avrebbe meritato un'audience decisamente più nutrita delle scarse 300 persone che ho contato a occhio.

E l'avrebbe meritata a prescindere dal suo status di leggenda vivente (o non morta, se vogliamo scavare nell'immaginario della vecchia hit alternativa Bela Lugosi Is Dead) della scena proto-goth inglese.

La carriera solista del signor Murphy inizia già nel 1983, subito dopo lo split della band, quando si dedica al progetto Dali's Car con Mick Karn (reduce dalla carriera di bassista dei Japan). Nel 1986 esce il primo album a suo nome, seguito nei due decenni successivi da uscite sporadiche ma piuttosto regolari, fino a totalizzare sette album, un live ed una raccolta.

E a breve uscirà l'ottavo album. Nel frattempo vengono pubblicate alcune cover di brani amati dal cantante, il quale non ha mai nascosto la propria passione per la scena glam degli anni '70. Una tradizione, quella delle cover, che viene diritta diritta dagli anni con i Bauhaus, che quasi ne abusarono riportando al successo, tra gli altri, pezzi di Bowie (vedi l'indimenticata Ziggy Stardust, non a caso riproposta in questo tour) e di Marc Bolan. Non per niente questa serie di concerti prende il nome di Secret Cover Tour.

Onorato l'obbligo di questo veloce riassunto, vengo alla sostanza: Peter Murphy è uno di quei personaggi che, nonostante l'età, e nonostante - va detto - un repertorio non sempre brillante, riempiono la scena con un gesto, con uno sguardo, con una pausa, con una battuta. Una capacità di generare atmosfera e di caricare di significato espedienti che in mano ad altri parrebbero banali e triti, che la dice lunga sulla stoffa di un artista la cui grandezza è stata ancora una volta dimostrata sul palco dell'Alcatraz. Per tacere di una voce da brividi che riesce a nobilitare anche la più scipita delle canzoni - figuriamoci quando affronta cose come Every Dream Home A Heartache dei Roxy Music, oppure Transmission dei Joy Division o ancora, in chiusura di serata, l'intramontabile Space Oddity del solito Bowie.

Non è mancata una riproposizione di The Passion Of Lovers dei Bauhaus (nel tripudio del pubblico che non aspettava altro) ma anche di Too Much 21st Century, brano di apertura del disco di addio della band pubblicato nel 2008.

Dal proprio repertorio il nostro ha ripescato alcune delle canzoni che più strizzano l'occhio al passato new wave: cito a memoria All Night Long, Socrates The Python, Time Has Nothing To Do With It, Deep Ocean Vast Sea, Cuts You Up, A Strange Kind Of Love...
Molte però anche le canzoni inedite, scelte tra quelle che riempiranno il prossimo disco.

Un doveroso plauso va ad un artista che avrebbe potuto facilmente, superati i 50 anni, riposare sugli allori del proprio stesso mito e continuare a riempire palazzetti con l'ennesima reunion dei Bauhaus, e che ha invece preferito scommettere ancora una volta su se' stesso e sul futuro, scegliendo di radunare 300 persone a serata in un tour lungo e faticoso, incentrato sul nuovo materiale nel quale, evidentemente, crede molto.

A chi dal pubblico gli urlava l'ennesimo titolo dei Bauhaus, nel solito giochino stupido dei "desiderata" che si ripropone in queste occasioni, Murphy ha risposto, pressapoco: "You want to listen to a classic, and this is a new song. But in 4 years you will hear this song and say ooh, this is a classic Peter Murphy song... So imagine you listen to this song in 4 years. It's a classic."
Chapeau.

26 settembre 2009

Long Live Père Ubu!

Long Live Père Ubu! Questo titolo, che sembra frutto di una puerile auto esaltazione, si giustifica col fatto che il nuovo album della band di David Thomas (oggi unico superstite della formazione che nel 1978 diede alle stampe il capolavoro The Modern Dance) è dedicato proprio a papà Ubu, il protagonista dell'opera teatrale Ubu Roi di Alfred Jerry, alla quale deve il nome la leggendaria formazione americana.

Nel 2008, dopo una carriera trentennale, i Pere Ubu hanno messo in piedi uno spettacolo liberamente tratto dalla pièce teatrale, reinterpretando in musica, a modo loro, la storia dell'Ubu Roi. Un adattamento che è poi finito, dopo opportune riduzioni nella durata dei brani, su questo nuovo CD.

Scrivo queste righe dopo aver già letto diverse recensioni, tutte mediamente negative. Si parla di un disco noioso, di una evidente derivazione teatrale (e in parte è vero) che ingabbierebbe troppo il materiale proposto, di una composizione un po' scolastica e di una formula stanca. E così via. Non sono d'accordo su nulla.

Devo confessare, è vero, spesso mi piace "fare il fan": anche di fronte a qualche scivolone, preferisco difendere a spada tratta i musicisti che amo. Lo faccio perchè penso che l'artista non debba dimostrare nulla a nessuno, che debba essere libero. E anche perchè mi piace pensare che i critici, in generale, siano musicisti frustrati che parlano quasi sempre per invidia (toh, ora che ci penso, mi pare che questo concetto sia stato sviscerato proprio da Thomas in qualche intervista, un genere che tra l'altro detesta).

Ma in questo caso voglio soprattutto difendere un album che mi è sinceramente piaciuto e i cui meriti vado ad elencare.

1. Se c'è una band che è stata accusata di tutto e del contrario di tutto, questi sono gli Ubu. Dopo i primi due album, universalmente osannati, si iniziò già al terzo e quarto ad accusarli di eccessiva sperimentazione e di cerebralismo. Salvo poi passare ad accusarli di banalità e comercializzazione quando tornarono con una formula meno ostica. Per poi finire ad accusarli di rifare se' stessi e di aver perso la bussola quando ripiegarono su album più complessi e coraggiosi (vedi ad esempio l'ottimo Pennsylvania). Nei confronti del penultimo Why I Hate Women si è giunti ad affermare che cercavano di suonare come una band alternativa. Che è come accusare il papa di cercare di suonare cattolico.

La verità è che i Pere Ubu fanno un po' come gli pare, e questo album non fa eccezione.

2. Cimentarsi con un'opera di riferimento ha costretto la band a sperimentare soluzioni mai adottate prima: strutture basate sulla ripetizione, cori, duetti (punto su cui tornerò), rimandi sonori e tematici tra un brano e l'altro. Trovo questa ricerca affascinante e meritevole di attenzione, quando fatta con originalità - e quest'ultima qui di certo non manca.

3. In questo disco emergono elementi prog rock rimestati in salsa Ubu che non immaginavo avrei mai sentito. Una sorpresa che, per quanto sia paradossale parlando di prog, dona a quest'album una freschezza inaspettata.

4. Secondo paradosso: questo è un disco quasi orecchiabile. Alcune soluzioni melodiche si stampano facilmente in testa, nonostante gli arrangiamenti non sempre improntati ad una facilità di fruizione. Ascoltare per credere.

5. Il personaggio di Mere Ubu è interpretato da Sarah Jane Morris. Cioè, avete presente? Quella che duettava con Jimmy Sommerville in Don't Leave Me This Way. Quella che in genere, come ci ricorda Wikipedia, si cimenta in Jazz e R&B. Ascoltarla interpretare questo materiale - assieme al gutturale e cacofonico Thomas - è una vera gioia per le orecchie.

21 settembre 2009

Play more Magazine

Ristampa ghiotta per Play, classico album dal vivo dei mai abbastanza lodati Magazine, tra l'altro da poco riformatisi per una serie di concerti.

La nuova edizione è stata abbondantemente espansa ed ora consta di due CD.

Il primo disco ripropone tutti i brani presenti nella vecchia edizione (da una registrazione del concerto alla Melbourne Festival Hall del 6 settembre del 1980), con l'aggiunta di due canzoni recuperate dai nastri originali: Feed the Enemy e Shot by Both Sides.

Il secondo disco è invece relativo allo show, finora ssolutamente inedito, tenutosi alla Manchester Lesser Free Trade Hall due anni prima , il 21 luglio del 1978.
Ovviamente è questo CD a suscitare il maggiore interesse, in quanto offre la possibilità di ascoltare nove brani suonati dal vivo dalla formazione originale della band e rimasti fino ad ora sepolti in qualche armadio ad accumulare strati di polvere.

La qualità audio del primo set è eccellente e fotografa la band in un momento di forma splendida. Le versioni dei brani sono a volte anche migliori di quelle originali, e la resa dal vivo dei musicisti testimonia un affiatamento che origina dall'intensa attività sul palco per diversi anni.

Il set del 1978 è caratterizzato da una minore pulizia del suono e da una minore precisione nell'esecuzione, ma gode di una notevole energia più vicina all'origine punk della band (Howard Devoto era stato il cantante dei Buzzcocks). Si nota una maggiore libertà espressiva del tastierista Dave Formula, che si lascia andare più facilmente a variazioni nelle proprie parti, mentre è come al solito solidissimo il basso di Barry Adamson (poi nei Bad Seeds di Nick Cave).

Soprattutto, nel 1978 c'era ancora la chitarra di John McGeoch, mio mito personale, che nel set del 1980 era stato sostituito da Robin Simon (del quale va detto che assolse ottimamente al suo compito).

Una ristampa imperdibile per tutti i fan di questo gruppo tra i più sottovalutati della sua epoca, e che è invece stato una fondamentale influenza per decine di band fino ad oggi, come la storia ha dimostrato.

Disco 1

1. Feed the Enemy
2. Give Me Everything
3. A Song from Under the Floorboards
4. Permafrost
5. The Light Pours Out of Me
6. Model Worker
7. Parade
8. Thank You (Falettinme Be Mice Elf Agin)
9. Because You're Frightened
10. Shot by Both Sides
11. Twenty Years Ago
12. Definitive Gaze

Disco 2

1. Definitive Gaze
2. Touch and Go
3. Burst
4. The Light Pours Out of Me
5. My Tulpa
6. Shot by Both Sides
7. Give Me Everything
8. Big Dummy
9. My Mind Ain't So Open

10 settembre 2009

Clan Of Xymox: In Love We Trust

Il nome Clan of Xymox costituisce per il sottoscritto la chiave per una dimensione magica: un mondo alternativo sotterraneo nel quale scoprivo di volta in volta i personaggi della new wave più torbida e ammaliante. La porta l'avevo trovata in un negozietto di dischi che aveva un intero scaffale dedicato alla 4AD, dal quale pescavo di volta in volta, a scatola chiusa, album di artisti sconosciuti le cui copertine entravano in risonanza con i miei occhi affamati di emozioni. Appena avevo in tasca la somma necessaria, visitavo quel piccolo tempio e ne portavo via un'icona, gustando fino a casa l'attesa per una scoperta che non ricordo mai deludente.

Fu così che prima il secondo album Medusa, e poi il primo disco omonimo, entrarono a far parte di una collezione che aveva appena iniziato a crescere - fino a diventare oggi un mostro a troppe teste.

Dopo quei primi due album, sui quali non posso spendere parole che non siano iperboliche ed eccessive, i Clan of Xymox cambiarono pelle riducendosi a Xymox e imboccando la strada di una dance che, seppur lugubre e alternativa, fece loro perdere una parte dell'originale fascino gotico. Lì li persi di vista.

Ronny Moorings, unico membro stabile dalla formazione originale, fece però rivivere i Clan of Xymox nel 1997, con un disco di ottimo spessore, che riprendeva in modo sapiente il vecchio stile fondendolo con quanto accumulato nell'esperienza dance: nasceva Hidden Faces, un album tetro e al tempo stesso ammiccante, che ha oggi lo status di piccolo classico del genere.

Sono seguiti l'ottimo Creatures e via via altri 3 album nei quali la formula è stata ritoccata di poco, con una preponderanza altalenante tra i pezzi da dancefloor alternativo e le tirate gotiche alla Sisters of Mercy.

Giunge ora il sesto lavoro di questa seconda vita del Clan: In Love We Trust, al quale è affidato il compito di risollevare le sorti del moniker dopo le recensioni non sempre favorevolissime destinate al precedente Breaking Point.

Fatto salvo che competere con la propria stessa storia è impresa difficilissima, dai primi ascolti mi pare che il buon Ronny (compositore, esecutore e produttore di tutto il materiale degli ultimi dischi) stia perdendo un po' la capacità di creare le gemme di cui aveva costellato gran parte della produzione fino a un paio di album addietro. Questo nuovo lavoro rigetta in parte le sonorità più danzerecce del precedente, e si immerge in una atmosfera più oscura e intima, pur conservando l'armamentario di synth e batterie elettroniche che fanno da marchio di fabbrica del progetto. Nonostante gli splendidi arrangiamenti non riesce però a infilare dieci composizioni convincenti su dieci, con una scrittura che oscilla tra il decente e il buono, mancando l'obiettivo evidente di tornare ad eguagliare i propri vertici.

Ciò detto, l'album supera di gran lunga la sufficienza e perde di fascino solo in questa operazione di confronto. Se questo fosse il livello medio delle uscite electro/goth, ci sarebbe di che rallegrarsi. D'altronde, ripetersi è sempre un rischio, anche per i più grandi.

15 agosto 2009

Colonna sonora per un ferragosto di città

Mi sveglio presto, fa già molto caldo, ho mal di testa. Le giornata inizia ma non vuole iniziare, l'aria viscosa mi manipola in modo molesto, muovermi mi causa fastidio. E' necessario qualcosa di lieve, che non cerchi di darmi una spinta che non tollererei, ma che mi coccoli un po', mi faccia sentire a casa. From the Heart degli Shadow Project mi sembra la scelta migliore. Le voci decadenti di Rozz Williams ed Eva O, che spiccano sugli arrangiamenti delicati di quest'album, mi tengono in piedi mentre preparo i primi due caffè della giornata.

Dopo questo inizio, è difficile proseguire senza scossoni. Scelgo Cold dei Lycia, un album che dovrebbe far pensare alle distese siberiane ma che a mio modo di sentire si adatta perfettamente anche ad un Sahara desolato e cementificato come la Milano del 15 di agosto.
Quest'album è un plagio raffinatissimo di tutto il repertorio 4AD degli anni '80, rimescolato con una sensibilità tipicamente americana. Monotono, ripetitivo, quasi interminabile: i suoi pregi che sono, volendo, anche i suoi difetti (due categorie che spesso coincidono).

Prima di mezzogiorno decido di uscire a fare un giro in bicicletta. Se devo morire per la temperatura e l'afa, voglio che accada in modo eroico, mentre pedalo stoicamente nell'ora più calda dell'anno. Mi accompagna Ballate per Piccole Iene. Per diversi motivi. Perchè gli Afterhours sono la mia colonna sonora di questo agosto. Perchè glielo devo, perchè anni fa li ho snobbati, e perchè loro lo devono a me, per la tristezza che mi infondono. Per quella piccola iena che uccide ma non vuol morire. Per il suono sincero di quest'album maturo che suona come un'opera prima. Perchè l'amore è una malattia dalla quale non si sa guarire.

Sulla strada del ritorno cambio tutto. E' necessario che nel lettore scivoli qualcosa come Infini dei Voivod perchè io abbia la forza di tornare indietro, di non svenire per strada, di non lasciar andare la ruota anteriore della bicicletta nei binari del tram, così da rompermi la testa sul pavè.
Che grande album, quest'ultimo dei canadesi.
La cosa che amo di più dei dischi dei Voivod è che ogni volta che li ascolto li trovo un po' più belli, un po' più incredibili, un po' più imprenscindibili.
E, ora e sempre, onore a Piggy, eroe immortale nel paradiso del metal.

Pomeriggio a casa. Gli occhi incollati allo schermo del PC, le dita lente sulla tastiera, mentre dalle casse dello stereo si spandono con cupa indolenza le note di Blues For The Red Sun dei Kyuss.
Un disco nato dal deserto, che non si può non ripescare il 15 di agosto.
Cupo, sudato, pesante, ipnotico, lento, distorto, psichedelico, valvolare, tellurico, rovente, brutale, acido, corposo, pulsante, un lungo inno lisergico che macina tutto l'hard rock dei settanta e lo filtra in un amplificatore per basso.

Nel tardo pomeriggio mi trascino sul lenzuolo, trasformandolo subito in sindone. Eleggo Second Edition dei PIL a traghettatore nel mondo dei sogni confusi che seguiranno. Un disco che rappresenta i miei sedici anni, ed è soprattutto per questo che prediligo l'edizione "normale", quella senza il famoso "metal box": per la copertina che ho amato negli anni '80. Dire di quest'album qualcosa che non sia stata già detta, e molto meglio, mi risulta impossibile. Lascio allora che il basso di Jah Wobble e la voce stidula di John Lydon si scolpiscano fluttuando nella stanza, mentre vi si sovrappongono immagini oniriche della mia camera di adolescente.

6 agosto 2009

A Killing discography: are you joking?

I Killing Joke sono uno dei miei 3 gruppi preferiti. Uhm, 10 gruppi preferiti. Facciamo 100, va. Mi sa che ho troppi gruppi preferiti.

Insomma, i Killing Joke mi piacciono molto. Li seguo con grande attenzione e ho accolto con molto piacere i loro ultimi lavori. Però mi pare che in quanto a uscite discografiche stiano un po' tirando la corda.

Mi spiego meglio.

Negli ultimi anni è stato ristampato l'intero catalogo della band. Un'ottima cosa, per certi versi: parte della vecchia discografia era diventata di difficile reperibilità, vedi titoli come What's This For? oppure il grande Extremities, Dirt And Various Repressed Emotions, che è stato ripubblicato in una splendida edizione doppia.
Da Killing Joke del 1980 a Democracy del 1996 sono stati ristampati 11 album, un bell'investimento per i fan che hanno pensato di accaparrarseli tutti, vuoi per l'audio remasterizzato (molto evidente ad esempio il buon lavoro fatto per Night Time), vuoi per le bonus tracks.

Ma non ci si è limitati solo a questo! Oltre agli album c'è stato, all'incirca dal 2004, un vero e proprio diluvio di pubblicazioni più o meno interessanti e "golose". Tralasciando le già numerose uscite precedenti, solo negli ultimi 12 mesi posso elencare:

- Love Like Blood (ristampa con titolo modificato di un live del 1985);
- RMXED (raccolta di remix);
- The Peel Sessions 79-81 (di cui avevo già dato conto qui);
- The Original Unperverted Pantomime (ristampa con bonus DVD del vecchio live);
- Duende - The Spanish Sessions (live in studio della formazione originale riunita nel 2008).

A tutto questo bendidio si aggiunge ora il monumentale live in 4 CD The Gathering 2008.
E purtroppo, anche stavolta si tratta di una proposta dopotutto interessante. Il live è quello di Londra dell'anno scorso, nel quale in due date sono stati proposti per intero i primi due dischi Killing Joke e What's This For!, l'album Democracy e una raccolta di singoli e brani sparsi del primo periodo della band.
I 4 CD testimoniano le due date per intero, senza omissioni e senza sovraincisioni.
The Gathering 2008 è disponibile sia in una versione costituita da due uscite separate (vol I e II), da due CD ciascuna, sia nella versione in cofanetto, completa di tutti e 4 i CD.

Il problema è: resisterò?

25 luglio 2009

Benedette ristampe: UK Decay, For Madmen Only

Era stato difficile da trovare per un bel po', ora finalmente viene ristampato questo caposaldo del gothic rock.

Gli UK Decay furono una delle tante meteore del post punk: formatisi nella primavera del 1979, ebbero il tempo di realizzare soltanto una manciata di singoli, qualche EP ed un unico album prima dello scioglimento, avvenuto alla fine del 1982.

Eppure posero le basi per una intera generazione di band che utilizzarono la loro formula per una ben più proficua carriera: Sex Gang Children e Southern Death Cult (poi Death Cult e infine The Cult) sono solo i nomi più noti tra quelli che calcarono le orme del gruppo di Luton, riproponendo l'amalgama di post punk, oscurità e intensità sciamanica.

Questa ristampa è una sorta di raccolta completa: comprende, oltre all'album For Madmen Only del 1981, anche gli EP The Black Cat (1980) e Rising From The Dread (1982), e i singoli For My Country, Unwind e Barbarian.

Vi segnalo inoltre che la Anagram Goth ha ristampato, qualche anno fa, in un unico CD, i due EP pubblicati qualche anno dopo, a nome Furyo, da un organico rimaneggiato ma nel quale comparivano chitarrista, bassista e batterista degli UK Decay.

Si tratta di materiale che si discosta dal gothic rock avvicinandosi maggiormente allo stile più ambient di band come i Cindytalk, ma mantenendo inalterata l'indiscutibile intensità originaria.

Due CD immancabili in una collezione gothic che si rispetti.

18 luglio 2009

The Filth And The Fury, il DVD

La storia di The Great Rock and Roll Swindle ormai la conosciamo tutti, è quasi materia da sussidiario scolastico.
Riassumo dunque solo ad uso e consumo dei più distratti.
Mentre i Sex Pistols si dissolvevano, disgregati dalla propria stessa forza dirompente, Julien Temple montò una sorta di documentario di fantasia sulla band, su mandato del famigerato manager Malcolm McLaren.
E' un'opera discutibile, che trasforma in macchietta una delle più grandi leggende del rock.

Dopo più di vent'anni, nel 2000, Julien Temple tornò però sul luogo del delitto, confezionando The Filth And The Fury.

Ne è uscito un film che affronta la storia della band in modo molto più aderente alla realtà (sebbene questo sia un concetto sfuggente), e molto meno legato al punto di vista di McLaren.

Le vicende delle pistole del sesso vengono ripercorse attraverso filmati d'epoca, spezzoni televisivi e footage inedito. Soprattutto, a differenza del vecchio film, viene narrato dalle vive voci dei membri della band, efficacemente ripresi in controluce in modo da nasconderne i lineamenti di oggi.

Preziosissima la raccolta di materiale d'archivio, la maggior parte del quale proviene dagli armadi dello stesso Temple. Un film imperdibile per chi vuole comprendere il punk delle origini, e da vedere se non altro per recuperare la lunga intervista ad un Sid Vicious steso in sedia a sdraio ma totalmente devastato dall'eroina. Toccante il modo in cui Lydon ancora oggi ricorda l'amico di allora e rivela di sentirsi in colpa per la sua morte.

La mai abbastanza lodata ISBN ha finalmente pubblicato il film in DVD in Italia, in lingua originale (come è giusto) ma con sottotitoli in italiano, in una bella confezione che offre in allegato un volumetto (che fa anche da custodia) con tanto di interventi dello stesso Temple e di Marco Philopat.

5 luglio 2009

John McGeoch (1955-2004)

Ci sono personaggi che attraversano la storia della musica lasciandovi un'impronta profonda, al punto da essere citati come importante fonte di ispirazione da generazioni di successori, ma che non riescono a raggiungere fama e notorietà, se non in ambienti ristretti agli appassionati ed agli addetti ai lavori.

Uno a cui è toccata questa sorte è sicuramente John McGeoch, un chitarrista scozzese molto attivo tra il 1976 e il 1992, anni nei quali si alternò in diverse band dai nomi, questi sì, notissimi: fu infatti nell'organico di Magazine, Visage, Siouxsie And The Banshees, PIL.

McGeoch è stato un artista originale, dallo stile riconoscibile e molto personale. Usciva spesso dagli schemi di genere, ribaltando i clichè chitarristici abituali, e spesso ha delineato nuove traiettorie per lo sviluppo delle band alle quali ha contribuito.
Mi piace sottolineare in particolare un suo tratto caratteristico, quello di scegliere spesso di suonare l'ultima cosa che ci si potesse attendere dallo sviluppo del brano. Non fu un grande solista, ma il suo approccio armonico e il tipico stile negli arpeggi, oltre all'uso creativo dell'effettistica, lo pongono una spanna più sopra e dieci anni più avanti di molti contemporanei.

Iniziò la carriera artistica in pieno punk collaborando a band come The Skids e i Generation X di Billy Idol, prima di approdare ai Magazine di Howard Devoto. Con loro pubblicò i primi tre splendidi album, negli anni tra il '78 e l'80. Il suo apporto a questa grande band è fondamentale, ed anche alla sua creatività si devono gemme come Shot By Both Sides, The Light Pours Out of Me e A Song from Under the Floorboards.

Fece parte anche della formazione dei Visage, il gruppo seminale del movimento new romantic, nato per volontà di Steve Strange. Dal primo album va ricordato almeno il singolo Fade To Grey (1980), baciato da un grande successo commerciale e tuttora presente in qualsiasi compilation anni '80 che si rispetti.

Passò poi ai Banshees, una formazione nella quale, forse per i delicati equlibri interni della band, si sono alternati innumerevoli chitarristi. Tra tutti fu il più stabile (partecipò a 3 album tra l'80 e l'82), e più volte Siouxsie ha dichiarato che John è stato il miglior chitarrista della band e quello che maggiormente ha contribuito a definirne il sound, arrivando una volta a definirlo "il mio chitarrista preferito di tutti i tempi". Gli album nei quali appare in organico sono dei classici e contengono molti dei brani più noti della band: Happy House, Christine, Spellbound, Cascade, Melt!...
Lasciò il gruppo a seguito di un esaurimento nervoso (destino che lo unisce a Robert Smith, che mollò Siouxsie prima di un tour per il medesimo motivo).

Si dedicò poi agli Armoury Show, con i quali pubblicò il primo album, e a vari progetti e collaborazioni (da citare almeno la partecipazione al primo album solista di Peter Murphy).

Entrò infine nei Public Image Limited di John Lydon, gruppo che nella seconda metà degli anni '80 si affacciava al proprio declino, ma che darà alle stampe ancora tre album ricchi di spunti interessanti sebbene non sempre riusciti. Il gruppo si scioglierà definitivamente nel 1992.

Qui in pratica si spegne la carriera discografica di McGeoch. Dopo alcune ulteriori collaborazioni con diversi artisti, e qualche tentativo abortito di mettere insieme una nuova band, si dedicò infine all'attività di infermiere. Morirà nel sonno nel 2004, all'età di 48 anni.

A citarlo come grande fonte di ispirazione sono stati, tra gli altri, The Edge, John Frusciante, Dave Navarro, Johnny Marr, i Radiohead.

Per ulteriori approfondimenti potete partire dalla pagina a lui dedicata su Wikipedia, o dalle note sul sito dei PIL.

Vi propongo una discografia minima:

Magazine: Real Life (1978)
Magazine: Secondhand Daylight (1979)
Magazine: The Correct Use of Soap (1980)
Visage: Visage (1980)
Siouxsie And The Banshees: Kaleidoscope (1980)
Siouxsie And The Banshees: Juju (1981)
Siouxsie And The Banshees: A Kiss in the Dreamhouse (1982)
The Armoury Show: Waiting for the Floods (1985)
Peter Murphy: Should The World Fail To Fall Apart (1986)
Public Image Limited: Happy? (1987)
Public Image Limited: 9 (1989)
Public Image Limited: That What Is Not (1992)