26 ottobre 2009

Alice In Chains back in blue

Quando gli Alice In Chains hanno annunciato, qualche tempo fa, la pubblicazione di un nuovo album, la reazione da parte dei fan di una delle più grandi band degli anni '90 non era stata esattamente positiva.

E' intuitivo quanto sia dura riproporsi utilizzando lo stesso nome dopo la morte del proprio cantante. Lo sanno ad esempio i Queen, che hanno realizzato un flop spaventoso con l'ultimo disco con Paul Rodgers. E hanno certamente avuto qualche timore, a suo tempo, anche gli AC/DC: soltanto col senno di poi possiamo affermare che la scommessa di Back In Black, che giocava tra l'altro in modo un po' discutibile sul ritorno listato a lutto, si tradusse nel loro successo più grande.

La band di Seattle si trovava addosso anche il rapporto ambiguo di Layne Staley con la morte, citata spesso nei testi della band e tema dominante di tutta la scena grunge dell'epoca. Come tornare dopo 14 anni (l'ultimo album con Staley, l'omonimo Alice In Chains, uscì nel 1995) senza snaturarsi e riuscendo a trovare il supporto di una fan-base certamente indignata?

Ok, Jerry Cantrell e soci ce l'hanno fatta. Il disco è bellissimo, e a momenti riesce anche a farmi dimenticare di star lì a fare confronti. Che sono inevitabili, naturalmente; ma il chitarrista, da sempre autore di tutti i brani del gruppo, è riuscito in qualche modo a far rivivere la magia dei vecchi lavori utilizzando la stessa formula di sempre: riparte dal disco precedente ma aggiunge e sottrae, creando qualcosa di mai sentito, pur con la messe incredibile di rimandi che lascio a voi indagare nei dettagli.

Il disco si apre con All Secrets Known, un pezzo che va sul sicuro riproponendo un classico sound "alla A.i.C", ma con idee armoniche e melodiche non scopiazzate. Si avverte subito che William DuVall, il nuovo cantante, dovrà faticare non poco per cercare una propria personalità. A momenti sembra un imitatore di Staley, e questa è l'accusa che gli è stata mossa da più parti. Dissento. Va ricordato che entrambi hanno alla fin fine affrontato i pezzi di Cantrell, il quale le canzoni le scrive in questo modo. E infatti è proprio il lavoro di Cantrell come seconda voce quello che definisce stilisticamente il cantato di questa band: a mio modo di vedere DuVall ne esce più che bene sulla base di questo ragionamento.
Segue Check My Brain, sulla stessa falsariga ma con un refrain molto più accattivante, non per nulla la canzone è stat scelta come secondo singolo.
Last Of My Kind schiaccia l'acceleratore sul versante metal, ricordando quante band degli anni '00 devono parte del proprio sound proprio a questi signori. I Black Label Society di Zakk Wylde sono i primi che mi vengono in mente.
Alla quarta traccia, con Your Decision, c'è il primo momento di rilassamento dal ritmo sostenuto delle prime tre canzoni. Grande ballata nello stile del mai abbastanza lodato ep Jar Of Flies, e sfodera anche un ritornello memorabile dal quale è difficile liberarsi.
A Looking In View gioca invece nei territori di Dirt, con un riff teutonico a martello, un gran lavoro di chitarre, un eccellente intreccio tra le voci di Cantrell e DuVall. Primo singolo estratto dall'album.
When The Sun Rose Again è il gioiellino inaspettato. Percussioni lignee e un gran lavoro di composizione di Cantrell, che gioca sugli accenti producendo un tempo complesso che sembra dispari ma non lo è. Bei break, cambi interessanti, uno dei pezzi migliori del disco.
Acid Bubble è la canzone che mi fa pensare di più a Tripod (come i fan chiamano l'ultimo album con Staley). Un pezzo oscuro e intriso d'angoscia, sostenuto da una chitarra lancinante. A metà il brano s'incattivisce in modo inatteso con un riff di scuola bastarda, di grandissimo impatto.
Da qui in poi però le tenebre che avvolgo i primi sette pezzi si diradano e fuoriesce qualche timido raggio di sole.
Lesson Learned è infatti un hard rock magistrale, dalle sonorità più ottimiste.
Take Her Out prosegue nello stesso stile ma con una riuscita forse inferiore, mi pare il pezzo meno interessante dell'album.
Private Hell è invece una canzone riflessiva splendidamente composta. Bello il testo e notevole, qui come altrove, l'interpretazione di DuVall.
Si approda all'ultima traccia con Black Gives Way To Blue, obbligatoria (?) chiusura lenta, con l'ospitata di Elton John al piano. Un brano che scarseggia in originalità, avrei preferito qualcosa di più coraggioso per la chiusura di un disco così ben riuscito.

E a questo punto, non mi resta che comprare il biglietto per il concerto del 2 dicembre. Vi farò sapere.

23 ottobre 2009

Ist Liebe Für Alle Da? (domande sui Rammstein)

I Rammstein sono un oggetto decisamente misterioso. Tutto in loro sa di fasullo, di prefabbricato, odorano di plastica come action figures del metal appena scartate.
Eppure emozionano, appassionano, piacciono a qualsiasi metallaro ed anche a qualche non metallaro. Come fanno? Questa è la prima domanda, e conto per ora di lasciarla irrisolta. Rifletterò sulla questione in altra sede, magari.

Ora è il momento di parlare di Liebe Ist Für Alle Da, il nuovo album giunto a quasi un lustro dal precedente. Prima di spararlo a volume insano nel lettore, mi chiedevo soprattutto una cosa: sarà migliore del tutto sommato deludente Rosenrot? Seconda domanda. Azzarderò una risposta, ma datemi tempo.

Lasciando per un attimo da parte l'aspetto goliardico predominante nel lancio dell'album (penso al video del singolo Pussy, che termina in scene di pornografia esplicita), quello che percepisco da un punto di vista strettamente musicale da parte degli alfieri del "tanz metall" è, più che un passo in avanti, uno scarto di lato.

Cosa potevano fare i R+ per suonare più cattivi, più disturbanti, più ammalianti che in Mutter o in Sennsucht? Terza domanda, e qui risposta secca: nulla, non potevano fare davvero più nulla per superarsi, e questo era proprio quanto esprimeva l'album precedente. Nonostante gli sforzi, battersi era diventato un obiettivo irraggiungibile. E allora, con calma, da veri professionisti capaci di calcolo e pazienza, i nostri hanno speso i quattro anni trascorsi per rifare i Rammstein uguali a prima ma diversamente uguali.

E hanno fatto spaventosamente centro. Il nuovo disco è un capolavoro di equilibrismi, capace di crescere ascolto dopo ascolto, denso di momenti di intensità sulfurea e traboccante di elementi che si stampano nei neuroni come una droga chimica, costringendo alla dipendenza.
Il tutto, calcando pesantemente sul loro classico riff-o-rama di base - chi distingue un granitico muro di chitarra dall'altro? quarta domanda, ma essendo retorica non vale - lavorando però sui pezzi in modo da caratterizzarli e renderli unici, perfettamente distinguibili e funzionali allo sviluppo del disco. Ehi, mi viene da pensare, ma hanno ragionato come per un disco pop! Già. Qui la domanda la salto e passo alla risposta: certo, i Rammstein sono, semplicemente, una grande pop band che sfrutta elementi del metal, ormai assimilati dall'immaginario collettivo, e li fonde con gli elementi più disparati, tutti però dal forte impatto sulla fantasia e capaci di piantarsi nella memoria.

Il livello delle composizioni è mediamente buono, con qualche eccellenza e poche vere delusioni. Tra i brani migliori rientrano i primi tre - Rammlied, che rimescola efficacemente vecchi elementi del sound "alla Rammstein", l'ottima Ich Tu Dir Weh, la violenta Waidmanns Heil, che usa toni epici per un testo sulla caccia che farà ovviamente discutere - e l'eccellente title track, forse il pezzo più riuscito del disco.
Interessanti la pesantissima Bückstabü, in cui il canto si avvicina un po' al growl, e la ballata Frühling In Paris, in cui i toni si fanno decisamente più romantici: questo è un album in cui la voce di Till Lindeman è finalmente capace di spaziare un po' di più che non nel passato.
Dopo qualche ascolto si fanno apprezzare anche i brani più calssicamente metal, come Wiener Blut e Mehr, ben scritte e ben arrangiate anche se quasi prive dell'apporto delle tastiere di Flake.
Bruttina invece la depechemodiana Haifisch, troppo orecchiabile e basata su una melodia scontatissima e su tastiere davvero abusate.
Inaccettabile, anche come scherzo, l'orrida Pussy. Ne avevo già abbastanza delle varie Amerika e Te Quiero Puta per tollerare un'altra barzelletta musicata.
Discorso a parte per la conclusiva Roter Sand, ballatona epica ben riuscita ma che paga lo scotto di giungere come secondo pezzo lento in un solo album.

Ma dunque, alla fine, quest'album è migliore di Rosenrot? Si, abbastanza, ma non raggiunge le vette del passato. E' interessante però la scelta di innovare la formula, nei limiti del possibile. Attendo i sei germanici al varco del prossimo album. E, nel frattempo, faccio air guitar su questo. Fortuna che non mi vede nessuno.

Post Scriptum: ma quanto è bello l'artwork? Ehi, un'altra domanda. Rispondo subito: molto, molto bello.

22 ottobre 2009

Living Colour in the doorway

Questo blog è nato un po' di tempo fa proprio con un post sui Living Colour. In quell'occasione ero reduce da un loro bel concerto al MusicDrome di Milano, e recensivo la serata in termini decisamente positivi. E' pertanto con una punta di dispiacere che mi accingo a parlare del nuovo disco della band, una uscita deludente che proprio non mi aspettavo.

Velocissima storia: i Living Colour nascono negli anni '80, proponendo una miscela di hard rock e funk che dà uno scossone ai cliché del rock di marca statunitense dell'epoca.
Incorporano di tutto, dal metal all'hip hop, discostandosi però da altre band che fanno del crossover la propria bandiera, sia per l'approccio politicizzato dei testi (influenzato anche dal fatto di essere una all-black band), che per i toni nonostante tutto leggeri che riescono a dare alla propria musica: una colorata sarabanda che, al suo meglio, sforna capolavori da college radio come Funny Vibes, Cult of Personality, Type e via citando.

Dopo i primi due fortunati album (Time's Up, 1988, e Vivid, 1990) e l'EP Biscuits, nel 1993 giunge il primo scossone: Stain è un album molto più concentrato sul metal vero e proprio, appesantito nella formula e che non piace quasi a nessuno, fatti salvi i meriti musicali indiscutibili del chitarrista Vernon Reid e del cantante Corey Glover. Qui la band si arena e giunge lo scioglimento.

Ok, avevo detto storia "velocissima", mi sono dilungato un tantino. Ma la cronologia ci aiuta e salta a piè pari al 2003, quando i Living Colour si ripresentano con il nuovo album Collideoscope. Si tratta di un buon lavoro, non eccellente ma ricco di spunti, con alcuni ottimi brani e momenti che fanno rivivere lo spirito dei primi dischi.

Giunge adesso, dopo altri sei anni che hanno visto soltanto la pubblicazione di un paio di buoni live, The Chair In The Doorway, il quinto album di studio. E per la prima volta non mi spiego proprio cosa avessero in mente i Living Colour quando hanno assemblato questo disco. Lo stile si è appiattito sull'hard rock più tradizionale, per giunta con un trattamento sonoro da band indie che non rende giustizia alla perizia tecnica del quartetto. Gli undici brani scorrono via anonimi, senza infamia e senza lode, tanto che non ho neppure voglia di andarmi a cercare i titoli per trascriverne qualcuno. Trentacinque minuti di compitino svogliato, senza guizzi e senza nulla che lasci traccia nella memoria. La ghost track aggiunge solo una manciata di minuti e si sarebbe potuta anche evitare, considerato che si tratta del brano più debole del lotto.
Mah.

19 ottobre 2009

And Also The Trees al COX18, 17/10/2009

Un ottobre bello ricco, quello che si è profilato a Milano per i nostalgici, romantici, gotici ed ex-gotici terribilmente radificati negli anni '80 come il sottoscritto.

Dopo l'ottima serata trascorsa con Peter Murphy, ed in attesa del faraonico Bats over Milan che si svolgerà nel prossimo weekend, sabato scorso è stata la volta degli And Also The Trees, impegnati con il tour acustico legato all'uscita dell'album When The Rains Come.

Cornice inusuale per questo tipo di serata il COX 18, lo storico centro sociale sul naviglio pavese, di recente tornato agli onori delle cronache per storie di sgomberi e ri-occupazioni.

Il palco di dimensioni lillipuziane e le condizioni acustiche piuttosto avverse della sala non sono riusciti fortunatamente a rovinare la performance della gloriosa band di Inkberrow, che occupa un posto importante nel mio cuore per le emozioni che ho sempre trovato stratificate nella loro musica vibrante e nei testi di rara bellezza. Se c'è un gruppo che interpreta l'aggettivo "gotico" in senso letterale e letterario, questi sono gli And Also The Trees.

La formazione che si presenta dopo mezzanotte sul palchetto del Conchetta è composta di quattro elementi. I due soli superstiti della formazione originale sono il cantante Simon Huw Jones (con capelli scarmigliati e barbetta incolta, un look inaugurato solo nel recente passato) e il chitarrista Justin Jones (che sembra un ragazzino, e invece all'anagrafe conta 45 anni suonati). Li accompagnano gli ottimi Ian Jenkins al contrabasso (che si esibisce in una esecuzione di incredibile precisione) e la talentuosa tastierista Emer Brizzolara, che per l'occasione ha sfruttato percussioni cromatiche e solo occasionalmente una diamonica.

Il concerto parte lentamente e con toni soffusi, le dinamiche molto schiacciate, con Shantell a darmi subito una fitta di nostalgia, seguita da Candace, poi The Suffering Of The Stream e via via brani da tutta la produzione - che conta ormai ben dieci album di studio. Ma con l'avanzare della scaletta la voce di Simon Huw Jones si scalda sempre più, mentre la performance con piccoli incrementi assume l'intensità che fa da marchio di fabbrica per gli AATT sin dagli esordi; i crescendo diventano sempre più marcati, la tensione drammatica cresce. Su Street Organ Justin imbraccia la fisarmonica, e l'esecuzione mi mette i brividi. Il set si chiude con il vecchio brano A Room Lives in Lucy e infine con una meravigliosa versione di The Untangled Man.

Il secondo set, molto più breve, si apre con Vincent Craine e, passando per Wallpaper Dying, viene chiuso da una fantastica interpretazione di Virus Meadow, che mi compensa dell'assenza della pur attesissima Slow Pulse Boy.

In tutto una ventina di brani durante i quali non posso che emozionarmi pensando a quante volte ho ascoltato queste canzoni negli ultimi vent'anni. Che posso dire? Grazie, grazie, grazie.

12 ottobre 2009

Parov Stelar in Coco

Di Parov Stelar vi avevo già parlato ai tempi dell'uscita del terzo album Shine.

Nei due anni trascorsi dall'uscita di quel CD, il musicista austriaco non dev'essere stato con le mani in mano, visto che stavolta il materiale proposto è davvero tanto: Coco è un album doppio, che raccoglie 26 tracce per oltre 100 minuti di musica.

Molto è cambiato nello sviluppo musicale del progetto - dietro il quale si cela nient'altro che Marcus Füreder, fondatore della Etage Noir - anche se il materiale di partenza è sempre lo stesso: una miscela sapiente di jazz, swing ed electro che ammicca agli anni '30, al cinema noir ed alla tradizione della dance austriaca dalle atmosfere più rarefatte e decadenti.

Ciò che distingue in modo deciso questa uscita dalle precedenti è l'innalzamento della media dei bpm delle composizioni. Quest'album è molto più veloce, più ballabile, più radiofonico, a testimonianza del fatto che probabilmente il produttore ha compreso le proprie stesse potenzialità commerciali, ed ha deciso di metterle a frutto.

Ciò nonostante, il risultato è delizioso e non sfigura, per freschezza ed eleganza (due cose difficili da tenere insieme) rispetto ai pur eccellenti primi due album. E così si batte il piede nei pezzi più electro, si sogna su quelli più romanticamente adagiati su splendide voci femminili, si apprezza il sax suadente che appare qua e là, si tollera addirittura il rap non invadente che compare in due brani ben congegnati.

Applausi a Herr Füreder, continui così.

8 ottobre 2009

Torna Disintegration in edizione eccessiva

Robert Smith in persona ha annunciato che il programma di ristampa della discografia integrale dei Cure riprenderà nel 2010 con la pubblicazione di Disintegration in una faraonica edizione tripla.

E quasi mi sorprende che l'ormai pingue ma sempre amatissimo leader della band inglese sia riuscito ancora una volta ad assemblare una uscita che offre, nonostante la riproposizione in gran parte di materiale arcinoto, validi motivi per l'acquisto. Lo dico nonostante sia facile prevedere che sarà caratterizzata da un prezzo non certo abbordabile.

A questo punto lascio parlare direttamente la scaletta dei tre dischi, che dice tutto quanto c'è da dire.

Aggiungo però le ulteriori ghiottissime notizie: nello stesso comunicato Mr Smith annuncia che nello stesso anno potrebbero vedere la luce Mixed Up 2, un nuovo box set con tutti i brani dei Cure alla BBC, e gli attesissimi Cure in Orange e Show finalmente in DVD.
Iniziate a risparmiare...

CD1: Disintegration

01. Plainsong
02. Pictures Of You
03. Closedown
04. Lovesong
05. Last Dance
06. Lullaby
07. Fascination Street
08. Prayers For Rain
09. The Same Deep Water As You
10. Disintegration
11. Homesick
12. Untitled

CD2: Rarities (1988 - 1989)

01. Prayers For Rain (RS home demo - instrumental - 04/88)
02. Pictures Of You (RS home demo - instrumental - 04/88)
03. Fascination Street (RS home demo - instrumental - 04/88)
04. Homesick (band rehearsal - instrumental - 06/88)
05. Fear Of Ghosts (band rehearsal - instrumental - 06/88)
06. Noheart (band rehearsal - instrumental - 06/88) *
07. Esten (band demo - instrumental - 09/88) *
08. Closedown (band demo - instrumental - 09/88)
09. Lovesong (band demo - instrumental - 09/88)
10. 2Late (alt version - band demo - instrumental - 09/88)
11. The Same Deep Water As You (band demo - instrumental - 09/88)
12. Disintegration (band demo - instrumental - 09/88)
13. Untitled (alt version - studio rough - instrumental - 11/88)
14. Babble (alt version - studio rough - instrumental - 11/88)
15. Plainsong (studio rough - guide vocal - 11/88)
16. Last Dance (studio rough - guide vocal - 11/88)
17. Lullaby (studio rough - guide vocal - 11/88)
18. Out Of Mind (studio rough - guide vocal - 11/88)
19. Delirious Night (rough mix - vocal - 12/88) *
20. Pirate Ships (RS solo - rough mix - vocal - 12/89) *

(* previously unreleased song)

CD3: Entreat Plus

Recorded Live at Wembley Arena 1989 - Remixed by RS 2009

01. Plainsong *
02. Pictures Of You
03. Closedown
04. Lovesong *
05. Last Dance
06. Lullaby *
07. Fascination Street
08. Prayers For Rain
09. The Same Deep Water As You *
10. Disintegration
11. Homesick
12. Untitled

(* previously unreleased performance)

7 ottobre 2009

Peter Murphy live a Milano, Alcatraz, 05/10/2009

Peccato che fossimo davvero pochini lunedì sera all'Alcatraz.

Peccato perchè il concerto di Peter Murphy (per chi non se lo ricordasse, parliamo del cantante dei grandi Bauhaus) avrebbe meritato un'audience decisamente più nutrita delle scarse 300 persone che ho contato a occhio.

E l'avrebbe meritata a prescindere dal suo status di leggenda vivente (o non morta, se vogliamo scavare nell'immaginario della vecchia hit alternativa Bela Lugosi Is Dead) della scena proto-goth inglese.

La carriera solista del signor Murphy inizia già nel 1983, subito dopo lo split della band, quando si dedica al progetto Dali's Car con Mick Karn (reduce dalla carriera di bassista dei Japan). Nel 1986 esce il primo album a suo nome, seguito nei due decenni successivi da uscite sporadiche ma piuttosto regolari, fino a totalizzare sette album, un live ed una raccolta.

E a breve uscirà l'ottavo album. Nel frattempo vengono pubblicate alcune cover di brani amati dal cantante, il quale non ha mai nascosto la propria passione per la scena glam degli anni '70. Una tradizione, quella delle cover, che viene diritta diritta dagli anni con i Bauhaus, che quasi ne abusarono riportando al successo, tra gli altri, pezzi di Bowie (vedi l'indimenticata Ziggy Stardust, non a caso riproposta in questo tour) e di Marc Bolan. Non per niente questa serie di concerti prende il nome di Secret Cover Tour.

Onorato l'obbligo di questo veloce riassunto, vengo alla sostanza: Peter Murphy è uno di quei personaggi che, nonostante l'età, e nonostante - va detto - un repertorio non sempre brillante, riempiono la scena con un gesto, con uno sguardo, con una pausa, con una battuta. Una capacità di generare atmosfera e di caricare di significato espedienti che in mano ad altri parrebbero banali e triti, che la dice lunga sulla stoffa di un artista la cui grandezza è stata ancora una volta dimostrata sul palco dell'Alcatraz. Per tacere di una voce da brividi che riesce a nobilitare anche la più scipita delle canzoni - figuriamoci quando affronta cose come Every Dream Home A Heartache dei Roxy Music, oppure Transmission dei Joy Division o ancora, in chiusura di serata, l'intramontabile Space Oddity del solito Bowie.

Non è mancata una riproposizione di The Passion Of Lovers dei Bauhaus (nel tripudio del pubblico che non aspettava altro) ma anche di Too Much 21st Century, brano di apertura del disco di addio della band pubblicato nel 2008.

Dal proprio repertorio il nostro ha ripescato alcune delle canzoni che più strizzano l'occhio al passato new wave: cito a memoria All Night Long, Socrates The Python, Time Has Nothing To Do With It, Deep Ocean Vast Sea, Cuts You Up, A Strange Kind Of Love...
Molte però anche le canzoni inedite, scelte tra quelle che riempiranno il prossimo disco.

Un doveroso plauso va ad un artista che avrebbe potuto facilmente, superati i 50 anni, riposare sugli allori del proprio stesso mito e continuare a riempire palazzetti con l'ennesima reunion dei Bauhaus, e che ha invece preferito scommettere ancora una volta su se' stesso e sul futuro, scegliendo di radunare 300 persone a serata in un tour lungo e faticoso, incentrato sul nuovo materiale nel quale, evidentemente, crede molto.

A chi dal pubblico gli urlava l'ennesimo titolo dei Bauhaus, nel solito giochino stupido dei "desiderata" che si ripropone in queste occasioni, Murphy ha risposto, pressapoco: "You want to listen to a classic, and this is a new song. But in 4 years you will hear this song and say ooh, this is a classic Peter Murphy song... So imagine you listen to this song in 4 years. It's a classic."
Chapeau.