28 giugno 2010

Il Genio 2

Torna il duo de Il Genio, a due anni dall'improvviso exploit di Pop Porno e dal primo disco omonimo. Torna con un secondo album che, come tutti i secondi album, presta il fianco ad essere sezionato e analizzato in un feroce confronto con la prima prova.

Questo se lo saranno ben atteso i due musicisti salentini (ma d'adozione milanese), i quali evitano il possibile passo falso di proporre in scaletta un clone del singolo di successo del primo disco, ma si guardano anche bene dal modificare la propria formula, che viene rivisitata senza troppe variazioni.

Inutile dunque cercare la Pop Porno 2 che non c'è, ma vano anche sperare in qualcosa di nuovo o di poter rintracciare una maggiore profondità in questo Vivere negli anni X. D'altronde, come già dicevo a suo tempo, questo è pop, e deve fare il suo mestiere senza scantonare troppo (anche se di esempi di pop che scantona potrei ben farne, ma si tratta di scelte).

Si ritrovano nell'album apprezzabili bozzetti alla Gainsbourg-Birkin, intrecci vocali ben studiati, arrangiamenti carini, suoni modaioli ma neppure troppo, insomma una piacevolezza leggera che appaga ma svanisce un po' troppo presto.

Nonostante venga confermata la mia buona impressione sul loro pop ottimamente confezionato, nonostante la conferma di una capacità notevole nella realizzazione degli arrangiamenti, e nonostante l'apprezzamento per lo spy-blues di Cosa Dubiti, per il cabaret sonoro di Overdrive, per la disco-modernariato di Fumo negli Occhi, mi aspettavo qualcosa di più dal duo Contini / De Rubertis. Gli auguro comunque tutto il successo del mondo e li attendo al varco del terzo album.

19 giugno 2010

Where did the UNKLE fall

Il terribile giochino delle etichette di genere, sempre opinabile (anche quando ci sono pochi dubbi sull'appartenenza di un gruppo ad una "scena" riconoscibile), si inceppa a volte in modo grave, affibbiando in eterno ad un gruppo o progetto una definizione poco sensata.

E' il caso degli UNKLE, frettolosamente infilati negli anni '90 nel calderone del trip hop, anzi indicati addirittura da alcuni come "il futuro del trip hop", e lì rimasti a dispetto di qualsiasi ragionamento.

A me invece sono sempre sembrati un'evoluzione ben diversa della scena DJ dei primi anni di quel decennio. Una scena, certo, legata all'hip hop ed alle tecniche di scratching e di sampling, tutte cose confluite anche nella costola "trip", ma nel caso degli UNKLE c'è una inclinazione molto più vicina all'electro pop raffinato e un po' intellettuale, roba che si avvicina decisamente più a Bjork che ai Massive Attack, tanto per dire.

Where did the night fall è il quarto album di studio di una storia discografica rarefatta, fatta di lunghissimi silenzi appena intervallati da raccolte di materiale vario (soundtrack, raccolte di remix). La forza del progetto, il cui unico punto fermo è rappresentato da James Lavelle, è stata sempre l'uso di ottime collaborazioni: nei dischi usciti con l'etichetta UNKLE si ritrovano nomi eccellenti come DJ Shadow, Richard Ashcroft, Thom Yorke, Ian Brown, Josh Homme, Ian Astbury, Mark Lanegan, e la lista sarebbe ancora lunga.

Questo quarto disco si innesta nel solco tracciato dai precedenti, senza introdurre innovazioni o brividi particolari. C'è qualche canzone di eccellente fattura, momenti pop di sicura efficacia, arrangiamenti perfetti e un eccelso lavoro dii studio.

Il problema degli UNKLE sta però nel loro essere privi di un'anima o di una visione unitaria. Ogni singolo brano può essere gradevole o restare anche impresso per qualche ora, ma nulla in definitiva sopravvive alla polvere del tempo. Peccato, perchè di qualità ce n'è tanta e il lavoro di produzione è di altissima scuola.

Quindi, Max?

Max Gazzè, come ormai assodato, è un ottimo musicista e un autore dalle grandi capacità, uno che può giocare al nuovo Battiato creando arrangiamenti raffinatissimi, ma anche in grado all'occorrenza di sfornare brani irresistibili, con una presa immediata ma sempre dotati da una evidente intelligenza e da uno stile personale.

Comincio però a pensare che il nostro abbia una sorta di sdoppiamento di personalità artistica, una tendenza a generare due discografie parallele.

Una è quella più "alta", musicalmente molto densa, attraversata da inquietudini personali e corredata da un immaginario affascinante. Una vena che si avverte soprattutto nell'album d'esordio e in parte del più famoso secondo disco (La favola di Adamo ed Eva), ma che si ritrovava anche nel penultimo ed ottimo Tra l'aratro e la radio.

Una differente cifra stilistica, più radiofonica, ma soprattutto più rassicurante, è quella che predomina ad esempio nell'album Un Giorno, e che si trasferisce per direttissima a quest'ultimo Quindi?Sarò pertanto molto banale, ma trovo irresistibile trasformare il titolo del disco in una battuta e chiedere a Max quale sia, quindi, la sua vera strada.

Lo so, un artista fa quello che gli pare, e alternare proposte più complesse a trame più immediate potrebbe essere una scelta. Ed è anche vero che un autore non debba per forza tenere conto di differenze del genere in fase di composizione: possibile che lo stesso Gazzè abbia lavorato con la medesima attitudine ai due ultimi album, salvo poi ottenere due raccolte di canzoni così diverse tra loro. Ma trovo strano ritrovarmi con due album successivi che sembrano quasi nascere da due autori diversi.

Personalmente, di questo lavoro riesco ad apprezzare del tutto solo pochi momenti: l'iniziale Io dov'ero, la stralunata Storie crudeli, la conclusiva DNA e qualche "potrei ma non voglio" che emerge da altri brani.
Per carità, capiamoci: è un album di eccellente fattura, ricco di ottimi spunti, con testi sempre interessanti, ma personalmente avrei preferito ritrovare un lavoro di arrangiamento che sollevasse i brani da una certa delicata giovialità che sinceramente non fa per me. Fortunatamente, il pubblico è ben più vario e Gazzè potrà continuare a incidere un po' quello che cavolo gli pare, senza curarsi delle mie lamentele.

Broken Bells

Brian Burton e James Mercer. Se non lo sapete, il primo è il vero nome di Danger Mouse, il secondo è il cantante degli Shins.

Si sono incontrati ed è venuto fuori questo dischetto strano, un alternative-rock-pop che suona molto come se Danger Mouse avesse prodotto un disco degli Shins.

Un concentrato di psichedelia minima, di sintesi accorta e di melodie ben studiate, un disco lieve ed orecchiabile che non lascia segni evidenti ma si fa anche riascoltare con piacere.

Su tutto, si staglia la perfezione del primo singolo estratto (nonchè brano di apertura): The High Road ha tutti i crismi per diventare la vostra canzone pop preferita, ascoltatela e ditemi se non è così.

17 giugno 2010

Stone Temple Pilots are alive

Dopo il ritorno degli Alice in Chains, stavolta tocca agli Stone Temple Pilots rifarsi vivi dopo tanto tempo.

Certo, si sono molte differenze tra i due ritorni - il leader degli AIC ha conosciuto una morte prematura, mentre gli STP tornano nella formazione originale; i primi non davano alle stampe un disco dal 1995, i secondi dal 2001 - ma l'analogia principale sta nel fatto che si tratta di due band che avevano conosciuto, dopo il grande successo degli anni '90, legato all'esplosione del grunge - e anche qui urge un distinguo tra lo stile delle due band, decisamente orientati al metal gli AIC, molto più glam e psichedelici gli STP - si erano poi perse per strada per ragioni legate all'abuso di droghe da parte del proprio cantante. "Non si esce vivi dagli anni '90" è un adagio che mi suona molto più realistico di quello diffuso in relazione agli anni '80.

Layne Staley se n'era andato nel 2002, dopo anni di reclusione in casa, a causa della tossicodipendenza mai vinta. Scott Weiland sostiene invece di essersi disintossicato nel medesimo anno, sebbene si siano sempre inseguite voci di ricadute. Il cantante sostiene di aver abusato d'alcol e di altre sostanze ma mai più di eroina. nel frattempo ha trovato le energie per due album con i Velvet Revolver (assieme a tre ex membri dei Guns N' Roses) e per il proprio secondo album solista. Chi come il sottoscritto ha avuto modo di vederlo dal vivo negli ultimi anni, avrebbe scommesso ben poco sul fatto che sopravvivesse ancora a lungo.

E invece. Eccolo qua Scott Weiland, ed ecco qua gli Stone Temple Pilots. Quindi anche i fratelli Robert DeLeo (basso e voce) e Dean DeLeo (chitarra), ed Eric Kretz (batteria). Negli anni '90 c'era chi li considerava un gruppo minore, troppo incline al pop, troppo leggero rispetto al grunge dei duri e puri. E certo, era vero che la band subiva influenze diversissime, mescolando qualche elemento grunge (presente soprattutto nel primo album Core) a glam, pop, psichedelia, e hard rock puro e semplice. Ma il valore di un album come Purple non può essere valutato in base all'aderenza ad uno stile formale che all'epoca pareva essere diventato obbligatorio.

Questo disco di rientro non ha purtroppo la medesima caratura dei primi lavori, ma nemmeno la piacevole giocosità di Tiny Music o l'elegante grazia compositiva del radiofonico ma ottimo No. 4. Somiglia piuttosto a Shangri-La Dee Da, il disco col quale la band si era accomiatata 9 anni fa.

Troppe banalità melodiche e una patina di vacuo negli arrangiamenti indeboliscono un lavoro che invece qua e là farebbe intravedere anche cose buone (il primo pezzo ad esempio poteva far ben sperare). Soprattutto i fratelli DeLeo, capaci di composizioni se non altro intriganti, mi deludono con scelte molto timide e generalmente banali. Peccato, anche se ci sono comunque due buone notizie: la prima è che un disco degli Stone Temple Pilots è sempre meglio che una band con Slash, la seconda è che pare che Weiland sembri un po' più in carne nei live recenti. Dai, che almeno lui ce le fa.

15 giugno 2010

Wovenhand: The Threshingfloor

E' quasi superfluo ricordare la mia devozione per questa band e per il suo leader.
The Threshingfloor è il quinto album di inediti partorito dai Wovenhand di Eugene Edwards, arriva due anni dopo l'ottimo Ten Stones e l'ho atteso con una certa trepidazione.

Il disco l'ho ascoltato ormai diverse volte e devo dire di essere sorpreso dall'effetto che ne ho avuto: è come se questo disco non fosse uscito, come se lo attendessi ancora.
Qual'è il problema? Nessuno, in effetti: l'album è molto bello e lo consiglierei ad occhi chiusi a chiunque non conoscesse ancora la band statunitense.

Ma è un disco talmente "Wovenhand" da sembrarmi già sentito mille volte: sonorità, atmosfere, strutture, tutto mi sembra un'eco dei lavori precedenti. Non siamo certo di fronte ad un fenomeno di auto-plagio; ma avrei probabilmente gradito maggiormente qualche tentativo di innovazione. Con questo pensiero in mente, lo rimetto su, che mi piace da impazzire.

12 giugno 2010

Settimo album per i Chemical Brothers

Further segna il capitolo numero sette nella ormai quindicinale carriera dei Chemical Brothers.

Sembra vicinissimo e lontanissimo il giorno in cui ascoltai il devastante Dig Your Own Hole, uno dei dischi che hanno segnato la storia mia personale e della musica dei '90.

Pionieri della fervente scena big beat, i due musicisti londinesi hanno continuato, dopo l'enorme successo di quell'album, sfornare ad intervalli regolari dischi che non hanno più raggiunti i vertici iniziali ma sempre ricchi di spunti interessanti.

La formula è stata via via rivisitata senza scossoni improvvisi ma con la sapienza di chi non vuole ripetersi a tutti i costi: da Surrender a We Are The Night si sono trovate sempre meno "big drums", una pacata introduzione di elementi electro più tradizionali, il ritorno occasionale in territori psichedelici.

Further a sua volta scarta di lato rispetto al predecessore e punta su un sound molto cosmico e di discendenza quasi kraut. Totalmente padroni dei sintetizzatori, che spremono in tutti i modi immaginabili, i due rinunciano alle collaborazioni alle quali ci avevano abituati e si riappropriano totalmente del desk, sfornando un album che potrebbe essere un manuale techno-psichedelico per il terzo millennio.

Qui però salta fuori il paradosso: i Chemical sono incollocabili nel tempo eppure suonano così pervicacemente 90's...

2 giugno 2010

Danza meccanica

Ho già parlato del fermento underground nell'Italia degli anni '80, ben documentato in particolare da diverse uscite recenti curate dalla rediviva Spittle Records. A fare da utile complemento a quelle raccolte, giunge ora Danza Meccanica, compilation che vede la luce grazie alla collaborazione tra Mannequin e In The Night Time

Pubblicato un anno fa in vinile in edizione limitata, viene adesso distribuito in CD con l'aggiunta di 3 bonus tracks. Danza Meccanica scava nell'ambito più elettronico della new wave italiana, e infatti riporta il sottotitolo "Italian Synth Wave 1982-1987".

L'edizione è molto ben curata, a partire dalla bella grafica minimale, e propone una collezione di brani registrati da nomi praticamente sconosciuti, tranne qualche rara eccezione (Victrola, Janitor of Lunacy, Monuments).

Il livello medio delle composizioni non è eccelso, ma d'altronde qui si pesca appunto nell'underground più marginale dell'epoca. L'operazione ha il suo valore soprattutto nel riportare alla luce una scena altrimenti decisamente dimenticata.

01. Xno - The Story Of The Death Boy
02. Vena - A Mortal Song In A Beautiful Sunday
03. Victrola - The Mutant Glow
04. Tommy De Chirico - Flower Into The Factory
05. Carmody - Vulcani
06. Janitor Of Lunacy - On The Dancefloor
07. Monuments - Veiled Lady
08. Intelligence Dept. - Loneliness
09. Chromagain - Wake Up
10. Lisfrank - Identity (Deep Version)
11. Victrola - Behind The Door
12. Tommy De Chirico - Close Your Eyes
13. Janitor Of Lunacy - War Days