13 ottobre 2010

Il dissenso di Jaz

Torno spesso ad occuparmi dei Killing Joke, e per un motivo assai semplice: poche band hanno saputo tenere un profilo così alto nell'arco di una carriera trentennale. A questo si potrebbe aggiungere che sono uno dei miei gruppi preferiti, ma di gruppi preferiti comincio ad averne decisamente troppi perché quest'etichetta abbia ancora un senso.

La storia dello "scherzo che uccide" parte nei primissimi anni '80, con un'infilata di album straordinari (obbligatorio almeno il primo disco omonimo), che sono storicamente assimilabili alla new wave ma musicalmente caratterizzati da un amalgama molto originale di punk rock, elettronica e ruvidezze quasi metal, nel quale si innestano i testi politicizzati e arrabbiati che resteranno il marchio di fabbrica del leader Jaz Coleman. Nel 1985 arriva anche il successo commerciale con Night Time, un disco lodato anche dalla critica sebbene molto più patinato e orecchiabile dei lavori precedenti. Segue poi una inevitabile decadenza, con album meno apprezzati ma ancora di tutto rispetto, tra i quali si stagliano dei picchi d'eccellenza quali il monumentale Extremities, Dirt & Various Repressed Emotions del 1990. Nel 1996 il progetto va in letargo, e vi resta fino al 2003, quando il marchio ritorna con un nuovo disco omonimo. Lo stile di quell'album è duro, arrabbiatissimo, attuale e anche stupefacente se si considera l'età anagrafica dei musicisti coinvolti. Il seguito Hosannas from the Basements of Hell del 2006 non faceva che confermare lo stato di grazia della band, che tra le altre cose si prendeva la soddisfazione di riappropriarsi dell'eredità lasciata ad una intera generazione di musicisti degli anni '90.

Poi veniva la scomparsa del bassista Paul Raven a scompaginare i piani e a dare un'apparente battuta d'arresto. Negli ultimi anni sembrava che i Killing Joke fossero dediti più che altro alla pubblicazione instancabile di ristampe e live, quasi a voler sfiancare i propri fan, anche i più irriducibili. Non mi aspettavo dunque che il 2010 vedesse la comparsa di un disco convincente come questo nuovo Absolute Dissent. Riunita addirittura la formazione originale (Jaz Coleman, il fedele Geordie alla chitarra, Youth al basso e Paul Ferguson alla batteria) è stato sfornato uno dei capitoli più compatti, militanti e assassini della storia trentennale del marchio KJ.

Il disco sembra quasi studiato per respingere gli ascoltatori meno pazienti. Pochissime concessioni alla melodia (che emergesolo in alcuni brani posti più avanti nella scaletta), batterie poderose, bassi sferraglianti e chitarre grattugianti e corrosive concorrono alla creazione di un muro sonoro ben poco amichevole, sul quale Coleman stende i suoi proclami anti imperialisti, con visioni apocalittiche dalle quali è difficili dissentire. Mentre il dissenso assoluto va al mondo che ci circonda, alla politica in tutte le sue forme, ad una umanità che prepara la propria auto distruzione.

Non fraintendetemi: non è questo, per forza, il compito della musica, e il sottoscritto non è abbastanza ingenuo da credere che dire queste cose in un album possa servire a qualcosa. Ma il grido feroce di Jaz Coleman è parte necessaria in un mondo che se le canta e se le suona senza guardare fuori dalla finestra di casa propria, e spesso nemmeno dentro casa propria.

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