28 aprile 2010

Mt. Sims... again

Il signor Sims è un personaggio ben strano.

Addirittura, un colosso come Discogs ha dei problemi a catalogarlo sotto i suoi diversi pseudonimi (Mount Sims, Mt Sims, Mt. Sims e via andare), al punto che quest'ultimo album, di cui vedete la cover qui di fianco, non è listato in nessuna delle pagine a lui ricondicibili sull'aggiornatissimo database del sito.

Produttore, DJ, remixer (in un caso anche per Madonna), ha prodotto un primo album decisamente elettronico (Ultra Sex, 2002), salvo poi imbattersi nel mostro sacro David J, con la collaborazione del quale ha dato alla luce un secondo disco (Wild Light, 2004) molto più influenzato da atmosfere oscure e ammiccanti al post punk. Fin qui lo pseudonimo era Mount Sims. Dal 2008 il nome si accorcia in Mt. Sims, con l'uscita di Happily Ever After, un disco in bilico tra elettronica e gothic wave, dotato di ottime intuizioni e di coraggio sfacciato, sebbene ancora non completamente convincente.

Dopo due anni Matthew Sims ripete l'esperimento con Happily Ever After... Again, un vero e proprio "capitolo II" che riprende la medesima formula del lavoro precedente, spingendo però maggiormente sul pedale della nostalgia primi anni '80.

Il disco è perfettamente godibile per chiunque, come me, sia in grado di apprezzarne le atmosfere electro-dark e i continui rimandi ad un repertorio riconducibile a nomi più o meno noti ed illustri (si può pensare a Bauhaus, Christian Death, New Order e così via, non allungo la lista perchè sarebbe fin troppo facile e banale). Esperienza e mestiere, che vanno riconosciuti al musicista tedesco, gli consentono di tenere saldamente in mano i fili di un gioco altrimente pericoloso, mescolando buone idee compositive a una produzione attenta e consapevole.

L'album mostra un po' di corda sulla lunga durata, ma a parte qualche caso è composto di tracce molto piacevoli e in qualche caso decisamente buone (valgano su tutti i primi 4 brani, saggiamente piazzati in cima alla tracklist come un poker d'assi nella prima mano).

Se amate il batcave-sound, se non disdegnate le ottime imitazioni, se avete voglia di dare una possibilità ad un artista che onestamente si riconosce in una scena che tutti si affannano a dare per morta e sepolta sotto diversi metri di storia della musica, provatelo, e poi ditemi se il consiglio era valido o se avete buttato via un'oretta del vostro tempo.

22 aprile 2010

Blind Side of the Sofa Surfers

Per molti i Sofa Surfers sono solo "quelli di Sofa Rockers", il pezzo che, nella versione remixata da Richard Dorfmeister, li rese brevemente famosi alla fine degli anni '90.

Per chi scrive sono invece un faro che brilla di luce oscura in un territorio di confine tra rock ed elettronica. Il gruppo austriaco rappresenta da più di un decennio un punto di riferimento in una landa poco frequentata dove si mescolano, in modo naturale e mai artificioso, suggestioni trip hop, dub, acid jazz e new wave, in un flusso organico e viscoso che non concede nulla all'orecchiabile ma solletica l'orecchio con morbide carezze sonore.

Blind Side, quinto album di inediti, prosegue nella direzione tracciata col precedente album omonimo del 2005. Il collettivo si è ormai allargato attorno al nucleo storico, assimilando definitivamente il cantante Mani Obeya, che nel lavoro precedente appariva come ospite in tutte le tracce. Il suono si è fatto via via meno elettronico, abbandonando la predominante matrice dub e presentando elementi rock sempre più in evidenza.

Fanno da ponte col passato le linee di basso pulsanti e gommose, e i pattern di batteria ansiogeni che trainano i brani con venature ormai quasi prog. Ma a donare nuova forma e nuova vita al suono dei viennesi sono da un lato la voce di Obeya, in grado di sorprendere con la capacità di stare perennemente in bilico fra tradizione raggae, sprazzi r&b e improvvise arrabbiature quasi punk, e l'uso serrato di chitarre onnipresenti e nervose, che spaziano dalle ritmiche funk metal al rumorismo no wave.

Un album bello e difficile, sintesi perfetta di trent'anni di tradizioni di buona musica, un mantra onirico e a tratti apocalittico; nove brani capaci di donare nuove scoperte ad ogni ascolto.


15 aprile 2010

Dead Again

Stavolta Peter Steele ci ha lasciato davvero, non si tratta di uno scherzo come 5 anni fa, quando il sito ufficiale dei Type O Negative lanciò la falsa notizia del suo trapasso.

Se l'è portato via un banale infarto, all'età di 48 anni.

Inutile stare qui a fare il panegirico di un musicista chiacchierato per la sua immagine pubblica (note le sue foto per Playgirl) ma noto e amato soprattutto per gli album con la sua band principale: sei dischi che da Slow Deep And Hard a Dead Again hanno ridefinito le coordinate del goth metal.

Ci mancherai, Pete, e non è una frase di circostanza.

9 aprile 2010

Addio Malcolm

E adesso se n'è andato Malcolm McLaren.

Che fosse davvero lui a muovere i fili della Grande Truffa del Rock'n'Roll, o che avesse solo traghettato al successo il genio di Johnny Rotten, adesso poco importa: si è meritato un posto nella storia del punk e del XX secolo, e nessuno glielo toglie.

3 aprile 2010

I love Bettina, the Queen of Noise

Le Malaria! furono nei primi anni '80 uno dei più strordinari act musicali tedeschi. Nate dal sodalizio tra Bettina Koester e Gudrun Gut (già assieme nei Mania D), pubblicarono il primo EP nel 1981, aggregando Manon P Duursma (proveniente dall'entourage di Nina Hagen), Christine Hahn (che aveva collaborato con Gleen Branca) e Susanne Kuhnke (precedentemente nei Die Haut).

Il loro art rock rumorista e sperimentale era dotato di grande originalità e si avvantaggiava della formazione tutta al femminile, una scelta che, sebbene non inedita nel punk (le Slits valgano come esempio sufficiente), difficilmente si era presentata in accoppiata con scelte stilistiche così incredibilmente rigorose (si veda, tanto per avere un punto di partenza, il video di Geld/Money). La loro storia e una discografia abbastanza completa sono reperibili ad esempio qui.

Il gruppo si arenò però nel 1984, dopo appena un album e qualche EP (quasi tutto il materiale è raccolto nel fondamentale Compiled 1981-84). Una estemporanea riunione, nel 1993, diede vita all'album Cheerio, lontanissimo dall'ispirazione originale, anche se affascinante a suo modo.

Le successive gesta di Gudrun Gut e di Bettina Koester meritano grande attenzione. La prima si è data ad una carriera da produttrice discografica (sue le label indipendenti Monika Enterprise e Moabit Musik) che la avvicinerà col tempo a realtà più dance, anche se mai prive di guizzi di genialità e oltraggiosa ambiguità. La sua opera migliore ad oggi è il bell'album I put a record on, opera inafferrabile e magnetica.

Bettina Koester invece mollò tutto e se ne andò negli USA, dove abbracciò una inaspettata carriera come analista a Wall Street. Una scelta che per molti versi era quanto di più punk potesse fare a quel punto della sua vita. Ma l'irrequietezza non le consente troppa stabilità: nel 2001, a seguito dello shock per l'attacco al World Trade Center, tornerà a Berlino. Qui, nel 2005 incontrerà la giovane cantante e sassofonista Jessie Evans, già membro dei Vanishing, con la quale darà vita al duo Autonervous, producendo un ottimo album omonimo e portandolo successivamente in tour con buon successo in mezza Europa (dimostrando quanto il pubblico ancora ricordi ed ami Bettina).

Infine, nel 2006 un'altra scelta di vita originale e inaspettata: Bettina si trasferisce in Italia, a Sieti, un paesino di 500 anime nei pressi di Paestum. Qui inizia a lavorare al suo primo album solista, che segue un provesso di gestazione piuttosto lungo e viene completato solo alla fine del 2009.

Queen of Noise è un disco eclettico, dove le esperienze musicali della Koester si fondono generando un risultato unico e contemporaneo, con il solo filo conduttore della voce roca da fumatrice incallita, che suscita un inevitabile confronto con quella di Marianne Faithful.

L'album si apre con una schizoide cover di Helter Skelter, una brillante decostruzione alla Devo, perfettamente riuscita e con una vita propria rispetto all'originale ("Bottom-Top-Stop-Go"... provate a togliervelo dalla testa se ci riuscite).
Seguono due pezzi molto ritmati e quasi ballabili come Crime Don’t Pay (Stupid) e Fianc’ a Fianco, pulsazioni elettriche sulle quali la voce di Bettina disegna traiettorie languide e catarrose.
Ocean Drive, in cui compare il sax, rievoca le Malaria! degli esordi.
Regina è un'ulteriore svolta in territori diversi, uno spoken word minimale a cui segue la seconda cover del disco, una Femme Fatale non tanto dissimile dall'originale dei VU, forse il pezzo che mi convince di meno, avrei preferito un approccio più simile a quello adottato per Helter Skelter.
Holy Water è un grande brano, con strati di voce sovrapposti su un tappeto di percussioni cupe e apocalittiche, a cui fa da contraltare Grab Me, altro pezzo con rimandi al passato, una struttura frammentata con chitarre flamenco e sax che restituisce la Bettina più sensuale. Formano una sorta di trittico con la successiva Confession, bella linea di basso ed echi di sax in evidenza.
Pity Me spiazza con la sua dolcezza, piano e voce per una canzone sentita e malinconica.
In Via Pasolini si torna a muoversi, come esorta Bettina: “You can shake your fist/you can shake your head/you can even shake your booty!
Il disco si chiude con Thar She Blows, un degno finale per un album che ascolterò ancora a lungo.


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