30 dicembre 2011

Ciao 2011, ovvero il mega post di fine anno

Ho sempre avuto sulle balle i consuntivi di fine anno (parlo di quelli musical-discografici, ma in altra sede potrei estendere il concetto...).
Non mi metterò dunque a dire cosa salvare e cosa buttare dell'anno passato ne' a tirare giù una classifica dei dischi "importanti". Questa roba non frega a nessuno, e poi in quelle liste si finisce sempre per dire delle cavolate pazzesche (non che non ne dirò lo stesso).

Ho però da parte un po' di titoli di dischi ascoltati, digeriti e per i quali non ho trovato tempo di dare conto qui. Il mega post di fine anno lo dedico dunque a questi album, poche righe ciascuno (almeno, spero di contenermi). Si tratta soprattutto di raccolte e ristampe, mi spiace se a volte so un po' di muffa ma di roba attualissima ho ascoltato proprio poco.
Per ragioni di comodità, procedo a ritroso: da quelli usciti a fine 2011, ad un disco di fine dicembre 2010 che ho amato molto e che per me rientra a diritto nelle uscite di gennaio.

Kate Bush: 50 Words For Snow

Per il suo secondo album di inediti in 18 anni (il precedente era stato Aerial nel 2005, e prima ancora The Red Shoes nel 1993), Kate Bush sceglie di proporci 7 brani lunghi, accomunati da un legame con la neve, anzi, come dice la stessa autrice, "appoggiati su uno sfondo di neve che cade". È un disco invernale ma certo non "natalizio", che si ammanta del fascino di un panorama in bianco e nero, lentamente e silenziosamente coperto dal manto bianco, ma certo non "freddo". La Bush inanella una dopo l'altra sette composizioni ammalianti, dense ma ricche di spazi, caratterizzate da una crescita lenta ma ben sviluppata, e impreziosite da una voce che a 53 anni non conosce incrinature e dai dettagli lasciati qua e là con sapienza dal manipolo di musicisti di valore che la accompagnano. Palma d'oro per la title track, una specie di scherzo teatrale, dove vengono snocciolati 50 nomi per la neve (di cui parte si sospetta inventati), e per Snowed in at Wheeler Street, efficace duetto con Elton John tra due amanti costretti alla separazione.

The Fall: Ersatz GB

Cosa dire del ventottesimo (o ventinovesimo? i pareri discordano...) album di studio dei Fall? Premesso che qualsiasi disco della band di Mark E. Smith, anche il peggiore, è sempre un disco degno di essere ascoltato, e aggiunto che questo non è per nulla il peggiore, sono tentato di dirvi solo che dovreste ascoltarlo, così come tutti gli altri precedenti e probabilmente quelli che seguiranno. Anzi, vi dirò proprio e soltanto questo.
La formazione è la stessa di Your Future Our Clutter (2010) e Imperial Wax Solvent (2009), un primato di longevità per i Fall. Anche la ricetta è la medesima dei due predecessori: rock di stampo assortito, su solidi giri di basso e con la solita, inconcepibile voce ubriaca di Smith a narrare storie strampalate.

Throwing Muses: Anthology

La prima raccolta retrospettiva dei Throwing Muses arriva in coincidenza con il 25ennale del primo album della band della 4AD. Non c'è molto da dire sulla band di Tanya Donnelly e Kristin Hersch che non sia già storia: 8 album di cui l'ultimo nell'ormai lontano 2003, sconfinamenti della Donnelly nelle Breeders e nei Belly (due ottimi side project), una sezione ritmica interessante nelle mani di Dave Narcizo e un songwriting difficilmente inquadrabile se non nella tradizione post punk femminile (Slits, Raincoats), dalla quale comunque si discosta in modo originale. Il doppio CD si giova di una bella edizione cartonata, e di una selezione accurata da parte della band, che in due dischi presenta una scelta di brani dagli album (CD1) ed una raccolta di canzoni che altrimenti sarebbero state disponibili solo in singoli, EP o colonne sonore (CD2). Non è un "greatest hits": mancano alcuni successi, anzi a volte sono stati privilegiati brani meno noti ma evidentemente più cari alla band. Dire che è una bella raccolta è poco. Io l'ho comprato e me lo sono spupazzato un bel po'.

Sixteen Horsepower: Yours, Truly

Sono passati 6 anni dallo scioglimento ufficiale della band di David Eugene Edwards e soci, e 9 anni dal loro ultimo album di studio. Sembra dunque tardiva questa antologia, ma il fatto che il nostro sia ancora in giro con gli splendidi Wovenhand ne fa una scelta dopotutto tempestiva.
La logica applicata per selezionare la compilation è a un tempo simile e diversa da quella del doppio dei Throwing Muses. Il secondo disco è anche qui dedicato agli inediti, che in questo caso sono spesso versioni alternative. Il primo è stato affidato non alle preferenze dei membri della band, ma a quelle del pubblico, che è stato invitato a votare i propri brani preferiti. Ne è uscita una raccolta assassina (per quanto riguarda il primo disco), che è per una volta un vero "best of", ma rappresenta ovviamente un elemento inutile per chiunque possieda la discografia completa. Il secondo disco è interessante, e molto goloso per i fan, ma non all'altezza del primo. Un oggetto un po' strano, nobilitato soprattutto dall'eccellente realizzazione grafica.

Tom Waits: Bad As Me

Il buon vecchio Tom è tornato con un disco di inediti dopo ben 7 anni di silenzio (Real Gone era datato 2004) e una raccoltona in tre CD nel mezzo che aveva quasi fatto temere un ritiro.
L'album è godibile, quasi orecchiabile in confronto alle prove del Waits "seconda maniera".
Una raccolta di belle canzoni che non aggiunge nulla di importante a quanto sappiamo già del "cantautore di Pomona", ma che rinfranca i fan che iniziavano a sentirsi orfani.
Si viaggia tra ballate oscure, momenti di ubriachezza ritmica, crooning malinconico e veloci passaggi all'inferno: gli ingredienti di casa Waits sono serviti in tavola con la perizia di un grande chef.

Mick Harvey: Sketches From The Book Of The Dead

Harvey è noto ai più come (ex) chitarrista dei Bad Seeds di Nick Cave. In realtà ha avuto una carriera ben più complessa, anche se vissuta in buona parte all'ombra del Re Inchiostro: chitarrista dei Boys Next Door, poi dei Birthday Party, infine dei Bad Seeds, ha accompagnato il compagno più famoso per la bellezza di 36 anni (dal 1973 al 2009).
Nel frattempo ha prestato la propria opera anche nei Crime And The City Solutions, e si è pure levato lo sfizio di una carriera solista: quattro dischi a suo nome fino ad ora, i primi due dedicati a reinterpretazioni delle canzoni di Serge Gainsbourg, altri due a cover di vari altri artisti, fatta eccezione per sole 4 canzoni originali. Questo quinto disco è dunque il primo vero album di Mick Harvey, se così vogliamo dire. Costato quattro anni di gestazione, l'album è un concept su un argomento difficile ma caro ad un certo pubblico: la dipartita da questo mondo. Musicalmente il disco è caratterizzato da ritmi lenti, sonorità prevalentemente acustiche e uno stile in generale più intimo di quello tipico degli altri album di Harvey. Non ho gridato al miracolo per le canzoni, che fanno sentire una certa mancanza di originalità, ma il disco nell'insieme è apprezzabile e per qualche motivo mi è caro. Sarà per il primo brano, dedicato a Rowland S. Howard, che da solo vale l'intero CD.

Big Sexy Noise: Trust The Witch

Il secondo capitolo della band capitanata da Lydia Lunch conferma quanto espresso nel primo album, e ne rappresenta se possibile una versione ancora più radicale.
Noise, no wave, hardcore, garage, sono tutte etichette che si potrebbero spendere per descrivere ciò che semplicemente è la fusione di rabbia ed erotismo, ossia cià che da sempre predica la strega evocata dal titolo.
Una dimostrazione di energia e di resistenza allo scorrere del tempo che fa quasi impressione.
Assieme alla ristampa del classico 13.13 ad opera de Le Son Du Maquis, è stato per me uno dei titoli imprenscindibili del 2011.

The Raincoats: Odyshape

Da quanto tempo mancava una ristampa di questo classico del 1981? Almeno 18 anni, a quanto riporta Discogs, e ci credo senza problemi visto che non ne avevo mai visto una copia in circolazione.
Come sempre quando parlo di ristampe, ho qui la scelta tra rievocare la storia dell'album e soprassedere con la considerazione che esiste abbondante materiale in rete per chi volesse approfondire.
Scelgo per una volta la seconda opzione, limitandomi a dire che l'anarchia schizoide di quest'album è delizia per le mie orecchie.
Nota di merito per l'edizione, sobriamente filologica, custodia in cartone con libretto ben fatto.

Radiohead: The King Of Limbs

Se ne è parlato così tanto che al momento avevo evitato di aggiungere le mie modeste impressioni. A distanza di molti mesi, posso dire che confermo l'idea che sia un passo falso.
Avevo ascoltato In Rainbows in rotazione continua (pur con una iniziale diffidenza). Questo invece non è riuscito a entrarmi in testa ne' a farsi amare.
I motivi sono più o meno quelli detti da tutti: poca unitarietà, forse troppi esperimenti mal coniugati tra loro. Le otto composizioni sono tutte interessanti e al di sopra della media di quasi qualsiasi band in attività, ma questo si può dire anche per qualunque b-side inclusa nei loro singoli.
Questo non sembra un album, tutto qua. Tra qualche anno lo ascolteremo con nostalgia.

Oceansize: Self preserved while the bodies float up
Un titolo che nonostante gli sforzi non ho ancora imparato. Eppure il disco l'ho ascoltato molto. Uscito a dicembre 2010, ho iniziato ad ascoltarlo i primi di gennaio in un viaggio in treno. Al primo impatto mi sono detto che si trattava di un capitolo decisamente interessante nello sviluppo della loro discografia, un passo difficile ma fatto nella giusta direzione. Poi ho scoperto che gli Oceansize si erano sciolti nel darlo alle stampe, e ci sono rimasto male: il discorso dello "sviluppo" si ferma qui. Peccato, perchè pur essendo potenzialmente insidioso modificarsi all'interno del proprio stesso elemento - la complessità della proposta e l'originalità delle loro composizioni fanno sì che queste rischino sempre di avvitarsi su se' stesse, come era accaduto parzialmente nel pur bello Everyone Into Position - qui alla band era riuscito il miracolo di innovarsi restando se' stessi. Non semplicemente "il quarto disco degli Oceansize", dunque, ma una raccolta di brani coraggiosi, di musica con mille rimandi ma senza riferimenti espliciti o agganci facili. L'epitaffio di una band che vanta innumerevoli tentativi (falliti) di imitazione.

Postilla: quelli che non mi sono proprio andati giù.

1. Un sincero fanculo ai Rammstein che hanno pensato bene di partorire una inutilissima raccolta (con inedito, naturalmente) in non so quante versioni a prezzi letteralmente incredibili. La carriera degli allegri cattivoni teutonici è in fase calante e questa ne è solo una conferma.
2. Mi sono sorbito un paio di volte l'album di James Blake cercando di capire cosa ci sentissero tutti di nuovo e di entusiasmante, ma non ho trovato ne' novità ne' emozioni. Un esercizio di stile, anzi, piuttosto stantìo.
3. Mi ha deluso il nuovo album di Gary Numan, a quanto pare fatto di materiale scartato da incisioni precedenti - e non me ne sorprendo.
4. Non dico nulla sull'album di Lou Reed e Metallica per non aggiungermi inutilmente al coro degli scontenti. Come disco di Reed non è male. Cosa ci facciano i Metallica non si sa.
5. Sonno profondo, ma proprio profondissimo, sul versante italiano: mi ha annoiato anche l'album di Dente, che al quarto giro è sempre se' stesso ma inizia a stancarmi, mentre ho decisamente aborrito quella bruttura sonora che è Il sorprendente album d'esordio dei Cani (titolo carino, va detto). Cito questi due tanto per fare due esempi ma potrei proseguire. Mi pare che l'inseguimento di mode e tendenze stia alla fine ammazzando la pur fievole ventata di novità che c'era stata negli ultimi anni. Che poi in Italia esca anche qualche bel disco, vabbè, lo sappiamo: succede anche nelle peggiori famiglie. (PS: mi si chiede qualche esempio, eccoli qua: Zen Circus, sulla fiducia il Teatro degli Orrori, e nonostante tutto anche i Verdena.)

30 novembre 2011

Voivod Live

Il 2011 ha visto due uscite per i Voivod: prima il live Warriors of Ice, che testimonia una performance del dicembre 2009, e poi il leggendario demo To the Death, registrato nell'ormai lontano 1984.

Il live si avvale dell'ultima della riunita formazione (quasi) originale che comprende Snake, Away e Blacky. Il compianto Piggy è sostituito da Daniel Mongrain, un chitarrista tecnicamente dotato e perfettamente in grado di riprodurre con perizia note e sonorità del suo monumentale predecessore, ma come è ovvio traspare qua è là uno stile personale, differente, e ci mancherebbe. Piggy era un esemplare unico, un innovatore capace di invenzioni e performance mai banali. Il confronto sarebbe terrificante per chiunque e non sarà stato facile accollarsi il compito.

Il vero problema del disco però è una qualità sonora sorprendentemente scarsa, tanto da suonare come una specie di bootleg ufficiale. Se avete il DVD Tatsumaki uscito di recente, forse vi conviene soprassedere. Se siete dei completisti, e non temete di sorbirvi un audio non esattamente cristallino e corposo, buttatevi pure. La band è in forma eccellente e dopo un paio di brani potreste pure abituarvi ad ascoltare un loro concerto dalla cornetta del telefono.


To the Death 84 è tutta un'altra storia. Registrato in presa diretta agli albori della band, è praticamente un live senza pubblico. Paradossalmente, la qualità audio è accettabile, anzi pure migliore di quella di Warriors of Ice. La band è fotogafata nello sviluppo del suo personalissimo trash-punk degli esordi, ancora grezza ma tutt'altro che acerba. La formazione è quella che darà alla luce War And Pain: Away, Piggy, Blacky e Snake.

Vengono snocciolati vari brani che finiranno nel disco d'esordio, altri che resteranno inediti, e tre cover (una dei Mercyful Fate e due dei Venom). Proprio nei Venom si può ancora riconoscere qui la maggiore influenza sui quattro canadesi, con spruzzate di harcore punk e della NWOBHM più dura. A partire dal terzo album queste sonorità si diluiranno in altre influenze più prog e psichedeliche, ma la furia degli esordi non verrà mai dimenticata.

Personalmente, questo demo mi sembra quasi più convincente dello stesso primo album, per energia, solidità e ferocia generale. E questo, a differenza del live 2011, è invece un acquisto consigliatissimo.


Warriors of Ice tracklist:

01. Voivod 04:36
02. The Unknown Knows 04:41
03. The Prow 03:46
04. Ripping Headaches 03:33
05. Ravenous Medicine 04:33
06. Tribal Convictions 05:29
07. Overreaction 05:25
08. Panorama 03:10
09. Global Warning 04:17
10. Treasure Chase 03:33
11. Tornado 06:56
12. Nothingface 04:26
13. Brain Scan 05:13
14. Nuclear War 05:17
15. Astronomy Domine (Pink Floyd cover) 06:49

To The Death 84 tracklist:

01. Voivod 04:24
02. Condemned to the Gallows 04:56
03. Helldriver 03:58
04. Live for Violence 05:19
05. War & Pain 04:54
06. Negatation 01:54
07. Buried Alive (Venom cover) 03:40
08. Suck Your Bone 03:39
09. Blower 03:11
10. Slaughter in a Grave 04:37
11. Nuclear War 07:27
12. Black City 05:33
13. Iron Gang 04:49
14. Evil (Mercyful Fate cover) 03:51
15. Bursting Out (Venom cover) 02:50
16. Warriors of Ice 05:11

22 novembre 2011

E tornano anche i Magazine

Ed ecco qua anche loro, i mitici Magazine, redivivi dopo ben 30 anni.

Sembrava impossibile (Paul Morley aveva dichiarato che dava più probabile la glaciazione dell'inferno che una loro reunion), ma dopo la riformazione del 2009, per una lunga sequenza di live molto ben accolti dal pubblico, ora arriva anche un nuovo album di studio.

La formazione non è esattamente quella originale, ma comprende Devoto, Formula e Doyle (voce, tastiera e battiera), un ottimo 3 su 5. Il bassista Barry Adamson aveva partecipatop al tour, ma ha poi preferito lasciare per dedicarsi al suo impegno principale, che sono ormai le colonne sonore. Lo ha sostituito Jon "stan" White, mentre al posto del chitarrista John McGeoch, deceduto nel 2004, c'è Noko, già nei Luxuria con lo stesso Devoto, poi negli Apollo 440 - di cui fa ancora parte - e in un numero incredibile di altre band.

Uscire con un nuovo album a 30 anni di distanza dall'ultimo non è una passeggiata. Soprattutto per una band che ha uno status di culto come quello dei Magazine, e i cui primi 4 album sono considerati dei capolavori del post-punk (e non solo). Mi sono dunque accostato a No Thyself con cirscospezione, senza farmi troppe illusioni, attendendomi un risultato deludente a prescindere, un po' come era stato per l'album dello stesso Devoto con Pete Shelley nei primi anni del decennio scorso, interessante sulla carta ma poi rivelatosi niente di che.

E invece... Invece mi trovo ad ascoltare un album più che degno di portare in copertina il nome dei Magazine. Certo, lo dico subito, le scelte sono state molto conservative: poca innovazione, molto ritorno alle origini. Ma avrebbe avuto senso rifondare la band per snaturarne il suono? Direi di no, nessuno in quel caso avrebbe risparmiato critiche alla scelta di riciclare il nome per poi tradirne l'identità. E allora eccoci a godere del ritorno di sonorità familiari, dalle progressioni di chitarra alla McGeoch (che Noko riesce a ricreare in modo convincente grazie anche al fatto di essere stato in quella scena, ai tempi, di fianco ai protagonisti), ai classici fraseggi di tastiera di Dave Formula, in sospeso tra prog e new wave, fino ai testi sempre sorprendenti di Howard Devoto.

L'album infila 11 tracce che ascolto dopo ascolto si consolidano fino a suonare classiche come quelle degli album dell'epoca (se non mi credete, fate un po' la prova). In particolare segnalo Other Thematic Material che ricorda da vicino brani come Shot By Both Side e fa un effetto "brivido lungo la schiena" al primo ascolto; Hello Mister Curtis (With Apologies), in cui Devoto dialoga con Ian Curtis e Kurt Cobain, giungendo alla conclusione "But I’ve made my decision / To die like a King / Like Elvis / On some godforsaken toilet"; la godibile Happening In English; Final Analysis Waltz, in cui Noko si esibisce in un numero di chitarra post punk da fare invidia a molti virtuosi senz'anima. Non ci sono, comunque, riempitivi o scarti: l'intera scaletta merita un 8 pieno (si, dopo più di 3 anni abdico ad una ferrea regola non scritta, e do un voto).

01. Do The Meaning
02. Other Thematic Material
03. The Worst Of Progress...
04. Hello Mister Curtis (With Apologies)
05. Physics
06. Happening In English
07. Holy Dotage
08. Of Course Howard (1979)
09. Final Analysis Waltz
10. The Burden Of A Song
11. Blisterpack Blues

20 novembre 2011

Throbbing (and remastered and expanded) Gristle

Non era mai stata data finora una sistemazione che si potesse considerare definitiva al catalogo dei Throbbing Gristle.

Un po' strano considerando l'importanza del quartetto. La Mute Records, che ha gestito le edizioni della band fino al 2010, ha mancato l'occasione di farlo; ci pensa dunque ora la Industrial Records, ossia la storica etichetta fondata dalla band nel 1976 e riattivata circa 12 mesi fa proprio con questo intento.

Gli album sono già pronti, in versione vinile, CD e download digitale, e stanno uscendo con cadenza settimanale, a partire dal 31 ottobre scorso.

Trovate i primi 4 già nei negozi, l'ultimo sarà disponibile dalla settimana prossima:

31 ottobre: The Second Annual Report
7 novembre: D.O.A.
14 novembre: 20 Jazz Funk Greats
21 novembre: Heathen Earth
28 novembre: Greatest Hits

Tutti i brani sono stati rimasterizzati da Chris Carter, ed è stato creato un nuovo packaging in digipak in modo da riprodurre nel miglior modo possibile l'aspetto degli artwork originali.

Ogni uscita include un secondo CD di performance live risalenti all'epoca dell'uscita dell'album. Non ho ancora avuto modo di ascoltarli, quindi non saprei dirvi se la qualità audio degli album è effettivamente migliorata, anche se suppongo sia lecito aspettarselo, e se i live selezionati siano sufficientemente interessanti da meritare la spesa: intorno ai 20 € per uscita, per un totale di 100 € complessivi.

Mi chiedo poi che ne sia stato di tutte le altre uscite che questa serie di ristampe non prende in considerazione. Ci sarebbero ad esempio In the Shadow of the Sun (colonna sonora del film di Derek Jarman), il cosidetto First Annual Report (ossia le prime registrazioni uscite su cassetta e poi oggetto di un classico bootleg con questo titolo), TG Now (uscito in edizione limitatissima nel 2004 e del tutto introvabile). Oltre, naturalmente, a Desertshore, il disco in lavorazione che si attende(va?) per il 2012. Dopodichè, la storia delle leggende dell'industrial si potrebbe dire chiusa, essendo chiaro che nessuno sostituirà Sleazy dopo la sua scomparsa. Ma si sa, mai dire mai.

10 novembre 2011

David Lynch, la pop star

Se potessi chiedere qualcosa a David Lynch su questo suo primo CD solista, la prima domanda sarebbe se ha qualcosa a che fare con la meditazione trascendentale (pratica di cui il regista è praticante e grande sostenitore). Ma sono sicuro che la risposta sarebbe poco chiara, leggemente surreale e farebbe riferimento ad un sogno il cui il finale era straordinariamente simile al proprio stesso inizio.

Come tutti i suoi seguaci sanno, Lynch ha sempre sguazzato nella musica popolare, in particolare in quella con forti influenze anni '50. Le sue opere cinematografiche sono infarcite di brani che sottolineano momenti fondamentali della narrazione, e si è detto che Lynch usa la musica non tanto da regista quanto da appassionato: piazza una canzone nel punto in cui noi la useremmo nella nostra vita quotidiana, per darci forza, o per sottolineare un momento di tristezza.

Negli anni ha adoperato musica di diversa provenienza: l'ha appositamente commissionata, oppure ha donato nuova vita a brani altrui, tornati alla ribalta proprio grazie all'uso nei suoi film. Si va dalla classica In Heaven cantata dalla "Lady in the Radiator" in Eraserhead (canzone alla quale ho dedicato un intero post), alle famosissime musiche create da Badalamenti per Twin Peaks (e per il film Fire Walk With Me, oltre a vari altri), alla quasi scoperta di Chris Isaak (presente con propri brani sia in Blue Velvet che in Wild At Heart), alla registrazione "a tradimento" della splendida esecuzione di Llorando (versione spagnola del classico di Orbison) per Mulholland Drive. Spesso però ha anche scritto musica di suo pugno: i brani per i dischi di Julee Cruise, l'album BlueBob con John Neff. Eccetera. La lista sarebbe lunga e vi lascio partire alla scoperta di questo mondo, se vi va.

Fino a pochi anni fa però si trattava di brani cantati da altri o di musica strumentale. La voce di Lynch, dal timbro particolarissimo (stridula, molto acuta e nasale, insomma il contrario di quella che si potrebbe dire una "bella voce") ha fatto capolino per la prima volta solo di recente, nella colonna sonora di Inland Empire, dove cantava due brani: Ghost of Love e Walkin' on the Sky. Ha successivamente prestato la voce anche a due canzoni contenute nell'album Dark Night of the Soul di Danger Mouse e Sparklehorse.

Pareva si trattasse solo di uno sfizio da togliersi: a 60 anni può succedere. Ma invece deve averci preso gusto, o aver perso il senso del pudore, perchè l'album Crazy Clown Time contiene 14 tracce composte, suonate, ma soprattutto cantate da Lynch. In realtà il disco si apre (e non è un caso, secondo il mio modesto e un po' malizioso parere) con la voce dell'unico ospite: Karen O degli Yeah Yeah Yeahs, che si aggiudica anche una delle composizioni più riuscite e l'onore della prima fila.

Il disco riserva poche sorprese, ed è quanto ci si può aspettare da Lynch: blues elettrici, ripetitivi e ipnotici, dove si fa l'unico uso possibile di una voce del genere: molto effettata, in secondo piano, a volte recitata (e sono i due episodi più ostici per il pubblico casuale). Pochi tra i brani in scaletta si sfilano da questo clichè e sforano nella vera e propria dance: ne è un (ottimo) esempio il primo singolo Good Day Today (tra l'altro protagonista di un interessante contest per il miglior video).

L'album è godibile, grazie ai suoi pezzi migliori, ma non è perfettamente riuscito, un po' per l'abuso della voce dell'autore - alla lunga i vocoder stancano - un po' per una certa ripetitività nella formula destrutturata della maggior parte delle tracce. Qualche brano in meno, o qualche ospite in più, avrebbero probabilmente giovato. O forse un po' di composizione in più in senso stretto. Ciò non toglie che per gli estimatori di Lynch questo disco sia un ulteriore tassello di un mondo a se' stante, una cosa forse po' troppo da iniziati, ma quelli di voi là fuori che sanno di cosa parlo, stanno facendo segno con la testa che si, ci siamo capiti benissimo.

E poi, forse il disco ha davvero a che fare con una storia di meditazione trascendentale: sarà una di quelle idee che arrivano dal profondo, uno di quei pesci grossi che si pescano solo dopo anni e anni, e di cui noi persone comuni non riusciremo mai ad afferrare completamente il significato.

8 novembre 2011

Who's Afraid of the Art of Noise Reprints?

Non so esattamente quando sia uscita questa ristampa del classico album degli Art of Noise, io l'ho vista solo da pochi giorni e nonostante abbia tentato di resistere, alla fine l'ho presa.

Non mi metto a raccontarvi quanto Who's Afraid of the Art of Noise abbia rivoluzionato la storia del pop. Chi ha conosciuto quei tempi, ricorderà benissimo la sensazione di straniante novità che emergeva dai solchi del vinile, e il sentimento che niente sarebbe più stato come prima.

La storia della band, del membro fondatore Trevor Horn e della sua etichetta discografica, meriterebbe un intero volume. Cerco dunque di evitare. Le note di copertina di questa riedizione mi hanno però portato a ripercorrere la storia discografica dell'album e a fare alcune considerazioni sulle ristampe, i bonus, gli inediti (e tutto quanto).

L'album fu originariamente pubblicato dalla ZTT in vinile e cassetta (con 3 diverse cover per diversi mercati) in epoca pre Compact Disc nel 1984. Fu poi brutalmente ristampato su CD nel 1986, per la Island, senza alcuna modifica alle tracce e un artwork impoverito (il retro era costituito dalla stampa della tracklist su uno sfondo anonimo, comune a tutte le uscite Island).

In casa ZTT lo smembramento del gruppo originale (che continuerà a pubblicare con lo stesso nome, ma per un'altra etichetta) porterà alla pubblicazione, curata da Trevor Horn, di una edizione antologica in CD intitolata Daft, contenente tutte le tracce dell'album, parte dell'EP Into Battle, e un paio di versioni dal maxi single Moments in Love. Il disco aveva il suo perchè (tanto è vero che per anni ne ho preferito l'ascolto rispetto all'album per la maggiore ricchezza) ma in nessun modo si poteva considerare l'edizione in CD di Who's Afraid.

E infatti, come le note di copertina del curatore Ian Peel tengono a precisare, questa è la prima vera edizione in CD dell'album (se non altro da parte dell'etichetta d'origine). Come si potrà dedurre dalla tracklist riportata in fondo a questo post, il materiale aggiuntivo è stato per una volta tanto selezionato con cura, e risponde ad un criterio cronologico e filologico molto rigoroso.

Lo stesso Peel aveva curato nei primi mesi di quest'anno la ristampa dell'EP del 1983 Into Battle, riproposto col running order originale, ma con l'aggiunta dell'intera sessione di registrazione successiva della band. La sessione conteneva il materiale grezzo che sarebbe stato poi usato per l'album del 1984 oggetto di questa seconda ristampa definitiva, che dunque non aggiunge altro materiale di studio o versioni alternative, ma due sessioni live per la BBC (sul CD audio), e tutto il materiale video riconducibile all'album (sul DVD).

Questo è un criterio sufficientemente corretto, per il mio approccio sempre più schizzinoso (e sempre più attento alla tasca). A questo punto, sembra scriteriato invece il metodo di selezione usato alcuni anni fa per la compilazione del cofanetto And What Have You Done With My Body, God? contenente una incredibile mole di tracce relativa al periodo ZTT (1983-84) tra versioni alternative, sessioni scartate, prove di studio e così via, ma anche, ad esempio, il medesimo EP Into Battle per intero. Ma vabbè, ormai ce l'ho, me lo tengo. Sarà una sofferenza dura ma necessaria.


Who's Afraid of the Art of Noise reprint tracklist:

CD1 (audio)

Original album:

01 A Time for Fear (Who's Afraid)
02 Beat Box (Diversion One)
03 Snapshot
04 Close (to the Edit)
05 Who's Afraid (of the Art of Noise)
06 Moments in Love
07 Memento0
8 How to Kill0
9 Realisation

Radio 1, November 1984 BBC live session:

10 'too busy talking'
11 Close (to the Edit)
12 'exploring the jungle'
13 Moments in Love
14 'arranged in a circle'
15 Beat Box (Diversion Seven)

Radio 1, March 1985 BBC live session:

16 From Science to Silence
17 Beat Box
18 Moments in Love

CD2 (DVD):

A Feast of Reason -- All Art:

01 'so what happens now?'
02 Beat Box
03 Close (to the Edit) (version one)
04 Closer (to the Edit) (cinema version)
05 Moments in Love
06 Art of Noise (live at The Value of Entertainment, June 1985)
07 Moments in Love (live around the world, Summer 1999)
08 Beat Box and Close (to the Edit) (live at Coexistence, June 2000)

All Noise:

09 When Art of Noise met Kenneth Williams (and Other Commercial Breaks) (Parts 1-9)
10 Close (to the Edit) (version three)
11 Moments in Love (version two)
12 Close (to the Edit) (version two)
13 Beat Box (edit)
14. so what happened next?

7 novembre 2011

Annunci sparsi per uscite varie in tempi diversi ed eventuali

Leggo in giro di diverse uscite, ristampe, live e robe varie da vecchie glorie degli anni '80. Vi riporto qualcuna delle più interessanti o curiose. Escludo dalla breve carrellata il DVD live dei Talking Heads, che dovrebbe essere appena arrivato nei negozi e che prevedo di recensire appena me lo sarò goduto, nelle prossime settimane.

Si parte con Siouxsie & The Banshees, gloriosa band che ha attraversato gli anni '80 e '90 e sulla quale è ormai calato un sipario che, a quanto pare dalle recenti dichiarazioni degli ex membri, sarebbe definitivo. Il bassista Steven Severin - del quale si vocifera anche che possa stare meditando un ritorno dei Glove assieme al socio Robert Smith, ma questa è un'altra storia - ha annunciato un progetto titanico: un mega box set da 20 dischi che dovrebbe includere tutti gli 11 album in studio, più la raccolta completa dei singoli, varie registrazioni live (non quelle della BBC, per le quali esiste già un box in 2CD e 2 DVD) e varie apparizioni televisive, incluso un DVD con l'intera performance del 1981 alla televisione tedesca (della formazione con John McGeoch), e forse anche l'apparizione della band all'Almost Acoustic Christmas, trasmessa dalla KROQ del 1991. Severin dice che questo "va inteso come il box 'completo'. [...] Se avrai questo più 'At the BBC' più 'Downside Up' avrai TUTTO tranne i video, che presumo vedranno infine la luce come set separato." La prospettiva è interessante, ma non so quanto sarà appetibile il prezzo di un simile "mostro" per chi ha già acquistato prima la vecchia edizione in CD dei dischi in studio, e poi le ristampe di qualche anno fa. Sarebbe gradita la disponibilità separata delle registrazioni finora inedite.

Visto che ho nominato il vecchio zio Bob, faccio un salto dalle parti dei Cure. Si sono perse le tracce del cosiddetto "dark album" che avrebbe dovuto emergere dai pezzi registrati e non inclusi in 4:13 Dream. Robert Smith ha detto che ha assolutamente intenzione di far uscire quelle canzoni, ma che il progetto non è attualmente argomento di discussione nella band. Il che si può anche capire, visto che il chitarrista Porl Thompson ha di nuovo lasciato il gruppo, mentre vi è rientrato il tastierista Roger O'Donnell. A proposito, alzi la mano chi è riuscito a star dietro alla lineup dei Cure negli ultimi 10 anni. Comunque, la notizia è che è stata annunciata l'uscita di un live in 2 CD, contenente l'intera setlist della serata registrata al Bestival dello scorso settembre. La formazione è, appunto, quella successiva all'uscita di Thompson ed al ritorno di O'Donnell. Smith ha anche annunciato di avere intenzione di realizzare una edizione in DVD di Reflections, il concerto all'Opera House di quest'anno, nel quale sono stati eseguiti Three Imaginary Boys, Seventeen Seconds e Faith, oltre a diversi altri brani dell'epoca, con diversi ex-membri sul palco (tra cui Laurence Tolhurst), ma lo stesso Bobby suppone "che il Live in Paris 2008 possa batterlo sul tempo", riferendosi probabilmente ad un concerto dei Cure al Palais Omnisport de Paris-Bercy il 12 marzo 2008.

Annunciato a più riprese, potrebbe essere finalmente in arrivo l'EP dei Dalis Car, registrato da Peter Murphy e Mick Karn nei giorni precedenti alla prematura scomparsa del bassista, avvenuta nel gennaio di quest'anno dopo una lunga e impietosa malattia. L'ex leader dei Bauhaus ha fatto sapere che l'EP - composto da quanto si è potuto utilizzare delle registrazioni, che avrebbero dovuto dar vita ad un intero album - è pronto, artwork incluso, e che è stato consegnato da tempo alla famiglia di Karn, la quale ne disporrà come meglio crede. Anticipato già come imminente per l'ottobre del 2011, potrebbe in realtà vedere la luce in dicembre. Murphy nel frattempo si prepara ad un ulteriore tour promozionale per il suo ultimo album, e ha ribadito che non è prevista alcuna riunione dei Bauhaus, con buona pace dei fan. A quanto pare, l'alchimia tra l'ex vampiro e i restanti membri è finita per sempre. Come lo stesso cantante ha fatto notare, i Bauhaus si sono sciolti nel 1983, mentre Daniel Ash, David J e Kevin Haskins sono rimasti assieme come Love & Rockets fino all'altro ieri. Anche David J, per inciso, ha un nuovo album solista in uscita.

In arrivo anche il prossimo disco di studio dei Killing Joke, il secondo con la formazione originale riunitasi nel 2010 per Absolute Dissent. La band ha annunciato di aver già inciso 26 pezzi e di stare lavorando alla selezione del materiale da includere nell'album, che vedrà la luce nel 2012.
Per non mettere mai fine alla incredibile successione di live e ristampe, sulla quale vi do' ogni tanto un aggiornamento, la band ha annunciato anche l'uscita nel prossimo gennaio di Down By the River, un live registrato il primo aprile del 2011 a Londra. Il concerto sarebbe stato ripreso sotto la direzione del chitarrista Geordie, all'insaputa degli altri membri del gruppo. Come d'obbligo di questi tempi, l'uscita sarà in diversi formati, tra cui il download digitale, la classica versione 2CD/1DVD, un doppio vinile e varie altre. Considerato il numero di supporti in mio possesso col marchio JD, ci penserò un attimo. Devo dire però che la band è più in forma che mai, ripongo dunque ottime aspettative sul nuovo disco di studio. Farovvi sapere.

3 novembre 2011

Peel Sessions, le storia infinita

La EMI ha annunciato la pubblicazione di una nuova serie che raccoglierà una selezione delle mitiche sessioni di John Peel per la Radio 1 della BBC.
Il primo volume, in 2 CD, è già bello e pronto, e ve ne riporto la tracklist in fondo a questo post.

Assodato che ogni uscita che riporti alla luce questo materiale è sempre bene accetta, il meccanismo mi lascia alquanto perplesso.
Ricordo benissimo che le Peel Sessions vennero inizialmente pubblicate dalla Strange Fruit Records - etichetta fondata dallo stesso Peel per questo scopo - in una serie di Ep che raccoglievano, in modo organico, le sessioni dei gruppi che via via si sono alternati negli studi della BBC.

In quella forma si aveva la possibilità di mettere assieme una collezione completa e cronologicamente sensata, consentendo ai fan delle band di mettere le mani sul materiale che desideravano ascoltare. Con una logica simile, sono uscite poi via via negli anni delle raccolte monografiche per alcuni gruppi, a volte con l'aggiunta di altre sessioni per la BBC, vedi ad esempio le ottime uscite dedicate a Siouxsie and the Banshees, ai Killing Joke, ai Cocteau Twins. Monumentale l'uscita dei Fall, in 6 CD.

Ora è invalso invece questo sistema del calderone misto, con una traccia per gruppo. Nulla da ridire, anzi in alcuni casi c'è l'occasione di mettere le mani su incisioni altrimenti di difficile reperibilità. Ma che fine hanno fatto le altre registrazioni? Di questo passo nella mia collezione avrò decine di tracce duplicate e un caos poco sensato. Un esempio su tutti: che fine hanno fatto le sessioni dei Cure? Avevo questo vinile che all'epoca è stato consumato dalla puntina del giradischi. Ora devo accontentarmi di qualche copia digitale contrabbandondata tramite i p2p. Mah.

Tracklist: Movement: BBC Radio 1 Peel Sessions 1977–1979

Disc 1
1. The Jam, “In the City” (4/26/1977)
2. Buzzcocks, “What Do I Get?” (9/7/1977)
3. Generation X, “Youth Youth Youth” (12/4/1977)
4. The Stranglers, “No More Heroes” (8/30/1977)
5. The Adverts, “Gary Gilmour’s Eyes” (4/25/1977)
6. The Slits, “Love and Romance” (9/19/1977)
7. XTC, “Science Friction” (6/20/1977)
8. Dr. Feelgood, “She’s a Wind Up” (9/20/1977)
9. Tom Robinson Band, “Don’t Take No for an Answer” (11/1/1977)
10. Ian Dury & The Blockheads, “Sex, Drugs & Rock ‘n’ Roll” (11/30/1977)
11. Adam and The Ants, “Deutscher Girls” (1/23/1978)
12. Siouxsie & The Banshees, “Hong Kong Garden” (2/6/1978)
13. The Only Ones, “Another Girl Another Planet” (4/5/1978)
14. The Undertones, “Get Over You” (10/1/1978)
15. The Rezillos, “Top of the Pops” (5/31/1978)
16. The Flys, “Love and a Molotov Cocktail” (3/15/1978)
17. The Members, “Sound of the Suburbs” (1/17/1979)
18. Stiff Little Fingers, “Alternative Ulster” (9/12/1978)
19. The Skids, “The Saints Are Coming” (8/29/1978)
20. The Angelic Upstarts, “We Are the People” (10/24/1978)
21. The Ruts, “Sus” (5/21/1979)
22. 999, “Homocide” (10/25/1978)
23. John Cooper Clarke, “Reader’s Wives” (10/3/1978)

Disc 2
1. Penetration, “Movement” (2/28/1979)
2. Monochrome Set, “Goodbye Joe/Strange Boutique” (8/21/1979)
3. Wire, “The Other Window” (9/11/1979)
4. Magazine, “The Light Pours Out of Me” (2/14/1978)
5. Joy Division, “Transmission” (1/31/1979)
6. Killing Joke, “Wardance” (10/17/1979)
7. The Human League, “Being Boiled” (8/8/1978)
8. Orchestral Manoeuvres in the Dark, “Messages” (8/20/1979)
9. The Psychedelic Furs, “Sister Europe” (7/25/1979)
10. Simple Minds, “Premonition” (12/19/1979)
11. Public Image Ltd., “Poptones” (12/10/1979)
12. Steel Pulse, “Jah Pikney (Rock Against Racism)” (4/4/1978)
13. Aswad, “It’s Not Our Wish” (10/10/1978)
14. UB40, “Food for Thought” (12/12/1979)
15. The Specials, “Gangsters” (5/23/1979)
16. Madness, “The Prince” (8/14/1979)
17. The Selecter, “Street Feeling” (10/9/1979)
18. The Beat, “Ranking Full Stop” (10/24/1979)

1 novembre 2011

U2: la crisi e la peppa

Per l'immancabile edizione del ventennale, della quale tutti noi sentivamo l'insopportabile mancanza (?), gli U2 hanno pensato bene di dare in pasto ai propri fan ben 6 versioni di Achtung Baby, il loro album del 1991, controverso a suo tempo per le scelte stilistiche, ma non per questo di minor successo rispetto alle precedenti uscite della band.

Potrete dunque scegliere la banale versione Digital (solo download, beati voi se vi soddisfa), l'immancabile Vinyl Box, la normalissima Standard (per capirci, solo il CD, e scommetto che sarà arduo scovare le differenze con l'originale), e poi via con le versioni d'eccellenza: Deluxe, Super Deluxe e, udite udite, Uber Deluxe. Quest'ultima contiene 6 CD, 4 DVD, 2 LP e 5 vinili 7 pollici (potete ammirarne la magnifica opulenza qui di fianco).

Quanto costa questo prodigio? Non ve lo dico per pudore: cliccate qui e lo scoprirete da soli. Ora, non mi piacciono i moralismi e penso che se qualcuno ha proprio voglia di spendere quella cifra per cotanta paccottiglia, ne è liberissimo. Sono il primo che sperpera denaro per i dischi e non posso scagliare alcuna pietra addosso a chicchessia. Però un sonoro e poco reverente "e la peppa!" me lo consentirete, soprattutto di questi tempi.

Coda acidognola: ho pensato molto nei giorni scorsi a quanto si possa stare rivoltando nella tomba Kurt Cobain per le varie edizioni del ventennale di Nevermind. Ma ve lo vedete voi, da vivo, a supportare l'edizione in 4CD+DVD o in quadruplo vinile? A Bono, evidentemente, la cosa non deve fare alcun effetto.

25 ottobre 2011

La biofilia di Bjork, bella ma noiosa

Gli anni '90 sono finiti da un pezzo. L'ho già detto più volte, che quasi nessuna delle glorie dell'elettronica di quel decennio è arrivata ai giorni attuali in gran forma, e purtroppo la pur sempre affascinante Bjork non riesce a fare eccezione.

Tra le due strade disponibili, ossia cercare di rifare all'infinito il proprio capolavoro (l'eccellente Post), oppure tastare la strada della sperimentazione "colta", l'artista islandese ha scelto la seconda. Con risultati altalenanti, a volte anche molto interessanti (vedi Medùlla, l'album di qualche anno fa composto solo da parti vocali) ma spesso con scarsa risposta da parte del pubblico.

Il nuovo Biophilia è un progetto che mescola diversi media, cosa di per se' non certo nuovissima (vedi vecchie realizzazioni di Brian Eno), ma con un elemento di novità assoluta, ossia che ogni brano è associato ad una "app" (la parola va abbreviata per non suonare vecchi). Le applicazioni sono rappresentazioni interattive del fenomeno fisico che dà il tirolo alla canzone (Moon, Thunderbolt, Cosmogony, etc), oltre a contenere un gioco associato al fenomeno stesso. Numerosi strumenti musicali sono stati creati appositamente per l'album, e la cosa è sembrata così futusristica a quelli di Wired Italia che vi hanno dedicato un articolo nel numero di settembre scorso. Detto così suona tutto molto figo, e da diversi punti di vista lo è. A molti suonerà molto figo anche il fatto che l'album sia stato parzialmente composto con un iPad, ma a me non sembra affatto figo, visto che sono già in troppi ad averlo fatto (vedi Damon Albarn con l'ultimo dei Gorillaz) e soprattutto che lo sbandieramento insistito del marchio Apple sa oramai davvero troppo di sponsorizzazione.

Ma il problema non sta nella strumentazione usata, ne' nella sovrabbondanza di prodotti legati al progetto (CD, app, sito internet, libri, cofanetti e chi più ne ha più ne metta), ne' nei costi delle varie versioni (chi vuol spendere, è liberissimo di farlo). Il problema vero è che quest'album, dal punto di vista musicale, è di una noia mortale. Non bastano i suoni innovativi, che alla fine della fiera suonano come i soliti strumenti virtuali che chiunque può suonare a casa propria (magari sarà affascinante vederli erompere dal vivo dagli strumenti di sui sopra), ne' i gorgheggi elaborati di Bjork, che anzi hanno sempre più un effetto soporifero, per quanto azzardati e stratificati. È proprio la materia musicale proposta ad essere piatta, ripetitiva, poco originale e in definitiva trascurabile.

L'album non mi invoglia neppure ad affrontare un secondo ascolto per potervi dire in quale brano c'è l'unico momento percussivo in vecchio stile break-beat (ma credo sia in Crystalline, scelta come singolo, e probabilmente non a caso).

Ciò detto, attendo un'occasione per vedere la baracca dal vivo, chissà che l'allestimento e la presenza scenica del folletto del nord non mi riaccendano quella vecchia passione, che dopo il giro di Biophilia nel lettore si è data a dormire sonni profondi.

2 ottobre 2011

Mastodon, Mastodon

Il nuovo disco dei Mastodon è giunto a casa, e mentre lui si ambienta in mezzo agli altri, a me prima di parlare della musica viene di dire immediatamente una cosa: l'artwork degli album precedenti era incomparabilmente più bello. Non ho capito questo bisogno di cambiare, e anche se la scultura in legno che fa mostra di se' in copertina è degna d'ammirazione (nel video di Black Tongue ne è documentata la realizzazione), non posso non paragonarla con una certa delusione alle fantastiche illustrazioni di Remission, Leviathan, Blood Mountain o Crack The Skye.

Detto questo, e avendo nel frattempo riascoltato l'album per la settima volta, il mio giudizio oscilla su due binari, o punti di vista, che vado ad esporvi. Prima osservazione: questo disco è stato un bel problema per i Mastodon, essendo (e non potendo essere) il seguito di Crack The Skye. Quest'ultimo era stato un enorme successo di critica e pubblico, e rappresentava la vetta della band. Un gruppo che aveva iniziato facendo di velocità, precisione e brutalità i propri punti di forza, e che aveva sommato via via gli elementi che hanno poi generato il loro attuale, affascinante blender di sludge metal, stoner rock, psichedelia, prog e svariate altre influenze anni '70. Crack The Skye, con la scelta di voci pulite, cori, strutture lunghe da concept album d'altri tempi, era stato un cambiamento importante e un vero meteorite sulla superficie del metal degli anni '00. Impossibile bissarlo, se non copiando se' stessi.

E infatti i Mastodon non cercano di rifare il disco precedente, pur non rinnegandone gli elementi, i quali sono ormai parte integrante del sound della band (vedi soprattutto l'uso dei cori e l'accento sugli elementi più psichedelici), ma non diventano predominanti. L'album a qualcuno potrà sembrare un piccolo passo indietro, caratterizzato com'è da una struttura frammentaria, tipica dei primi album del gruppo. Ma in realtà, come sempre per i Mastodon, The Hunter costituisce un mondo a se', diverso dagli altri e coerente al proprio interno (e questa era la seconda osservazione).

In nessun modo, infatti, si può dire che la qualità sia calata. È vero che c'è molto più lavoro di riff, e che a causa di questa scelta le canzoni risultino più orecchiabili, ma ciò non corrisponde certamente ad una maggiore banalità o a creazioni meno complesse. Il disco, anzi, è molto denso, e i pezzi crescono ascolto dopo ascolto, rivelando via via nuovi dettagli e trame intricate dietro una apparente semplicità. È il lavoro di rifinitura che rende così scorrevoli i brani, grazie a quella attitudine al lavoro di studio che questa band ha sviluppato notevolmente rispetto a molti propri colleghi, e che gli ha consentito anche di sollevarsi di una spanna sopra la media.

Non parlerò di rivoluzione per quest'album come avevo fatto per Crack The Skye: le rivoluzioni si fanno una volta sola, e questa è già in corso. Si tratta però di un disco molto bello, davvero godibile, che renderà molto bene dal vivo e che avrà un suo posto d'onore nella storia di una delle band metal più importanti di questi anni.

PS: e gli perdono pure il quasi plagio di All Tomorrow's Parties in Creature Lives.

1 ottobre 2011

dEUS will keep me close

Keep You Close è il sesto capitolo della mutevole storia dei dEUS, una delle realtà musicali più strane e affascinanti di questo secolo.

La storia della band belga, sulle scene da ormai 17 anni, si divide in due sezioni principali. La prima si apre - discograficamente parlando - nel 1994, con Worst Case Scenario, un album che mescola un tale numero di influenze da non consentire neppure di citarle tutte: si va dal punk al prog, dal jazz al funk, un'orgia zappiana per la quale fu coniato l'appellativo di "Art Rock" (etichetta che il leader Tom Barman ha sempre rigettato). Vi fa seguito In A Bar, Under The Sea, rilasciato nel 1996, che resta sostanzialmente nella scia del debutto. A sorpresa, il successivo The Ideal Crash nel 1999 sfoggia una maggiore accessibilità, pur restando "altro", in un tentativo forse non riuscitissimo di fondare un "nuovo pop", che mescolasse melodia e cerebralità.

Qui la band, segnata da abbandoni e cambi di formazione, chiude il primo ciclo. Torna nel 2005 con Pocket Revolution, stavolta un album perfetto, dove l'alchimia tentata qualche anno prima funziona in modo quasi miracoloso. È uno dei dischi più significativi del decennio, e per inciso sbaraglia le vendite dei precedenti, pur suscitando ovvie discussioni tra i fan della prima ora. Lo segue tre anni dopo Vantage Point, un disco inafferrabile, che bissa in modo inaspettato le vendite del precedente pur essendo melodicamente meno accattivante e più sperimentale in senso stretto.

A questo punto, non sapevo predire cosa avrebbero combinato i dEUS. Temevo che in qualche modo si smarrissero, come pure era possibile e lecito. Invece, il nuovo Keep You Close non mi delude affatto, nel senso che mi ha spiazzato ma anche affascinato. Al primo ascolto mi sono chiesto cosa fosse, quella sorta di reazione "mah" che danno alcuni grandi dischi (ma anche alcune grosse boiate). Poi l'ho imparato a memoria in tre giorni. Mi ha riconciliato, come ogni tanto mi accade, con il concetto di pop. È un pop con radici nella musica alta, ma non per questo meno godibile. È musica sperimentale con momenti orecchiabili, ma non per questo meno interessante. È musica di dettagli, di testi cesellati con cura, ma anche una musica in qualche istante viscerale, inevitabile ma imprevedibile. Un disco di cose nuove, nell'unico modo in cui si può suonare nuovi in questo stanchissimo 2011.

25 settembre 2011

This Mortal Coil, the box

Lo dico subito: non me lo comprerò, perchè ne posseggo già tre quarti e sono stufo di sperperare denaro in riedizioni. Ma capperi, quanto è bello.

Annunciato da almeno un anno, il box in 4 CD dedicato ai This Mortal Coil (la creatura multiforme voluta da Ivo Watts-Russell della 4AD) uscirà finalmente nel mese di novembre.

Conterrà le versioni remastered e in HD dei tre album classici It'll End In Tears (1984), Filigree And Shadow (1986) e Blood (1991), riedite in un bel package in carta giapponese e con l'artwork originale rielaborato dal designer dell'etichetta Vaughan Oliver (lo stesso che ha curato le prime edizioni).

Il quarto CD, Dust & Guitars, è l'unica chicca che aggiunge qualcosa al risaputo. Raccoglie i pezzi usciti in singoli ed EP, più due tracce recuperate dagli archivi dell'etichetta e finora inedite: Thais (Bird of Paradise), una versione alternativa della traccia presente su Filigree & Shadow, e We Never Danced, una cover di Neil Young registrata durante le sessioni di Blood ma non utilizzata. Vi riporto la tracklist di questo quarto CD.

DUST & GUITARS
1. Sixteen Days/Gathering Dust
2. Song To The Siren
3. Sixteen Days (Reprise)
4. Kangaroo
5. It’ll End In Tears
6. Come Here My Love
7. Drugs
8. Acid, Bitter and Sad
9. We Never Danced
10. Thais (Bird of Paradise)

(Ribadisco, non lo comprerò. Ma il video qua sotto mi fa scendere un filino di bava lo stesso.)


Ritorni e cambiamenti dai '90 (capitolo 2)

Continuo la breve carrellata sui dischi appena usciti da band "anni 90".
Anche stavolta, un KO e un OK, per la parità. Accomodatevi.

Red Hot Chili Peppers: I'm With You

Va bene, ammettiamolo: i Red Hot sono una band nata negli anni '80, e negli anni '80 hanno sfornato ben 4 album. Ma il cambio di formazione dell'89, e il successo planetario conquistato con Blood Sugar Sex Magic solo nel 1991, ne fanno una band anni '90 a tutti gli effetti. Chiedete in giro ai 40enni a quale decennio associno i RHCP, e vedete cosa vi risponderanno.

Ammettiamo anche, già che ci siamo, che io non sono certo un grande fan della band di Antony Kiedis. All'epoca, avevo trovato molto divertente Mother's Milk, e avevo apprezzato la muscolarità e lo sfoggio di figosa funkosità del già citato Blood Sugar Sex Magic, anche se me ne ero stufato presto. Avevo però amato molto One Hot Minute, l'album meno RHCP della loro carriera. Dopo li ho trovati in caduta libera, molto attratti da una commercialità che a partire da Californication è diventata il marchio di fabbrica principale dell'azienda.

Ciò nonostante, mi stupisce scoprire che I'm With You è brutto almeno quanto Stadium Arcadium, visto che se ne parlava come di un grosso rientro. Frusciante non c'è di nuovo, ma lo accenno appena, visto che la differenza stavolta è poco percettibile. Molto evidente invece la scarsità di idee che aveva già assassinato il disco precedente, e la fiacchezza del sound di una band che forse a 50 anni avrebbe dovuto cambiare genere. Inutile.


Primus: Green Naugahyde

I Primus sono invece "purissimi anni '90": primo album (un live!) nell'89, e poi l'accoppiata devastante di Frizzle Fry ('90) e Sailing The Seas Of Cheese ('91) a dare alla band di Les Claypool lo status di discendenti, nientemeno, che dei Residents e dei Rush (due influenze dichiarate, forse in parte ironicamente, dal terzetto).

Dopo un picco creativo raggiunto nel 1995 con Tales from the Punchbowl, un album che aggiungeva alla solita mistura di funk, alternative rock e metal, degli elementi di squisitissima psichedelia, i tre dischi di studio successivi erano stati una lenta decadenza, sebbene il livello si fosse mantenuto sempre ben sopra la sufficienza.

Green Naugahyde è il primo disco di studio dei Primus in 12 anni: non ci avevano riprovato da Antipop del 1999. Dico la verità, quando l'ho ascoltato non mi aspettavo nulla: temevo un noioso sfoggio di perizia tecnica bassistica di Claypool in svogliate jam-session.

Invece i tre (perso per strada Tim Alexander, è stato ripescato il vecchio batterista Jay Lane a fare da spalla alla strana coppia Claypool/LaLonde) ci regalano quello che avrebbe potuto essere il degno seguito al loro momento d'oro dei primi '90. I Primus suonano esttamente come i Primus, addirittura infilando qualche gioellino e mantenendo un livello medio decisamente alto.

Certo, un disco che non cambia la storia della musica e guarda molto alla nostalgia dei "bei vecchi tempi". Ma con una freschezza e una verve che a molti farebbero invidia.

22 settembre 2011

Ritorni e cambiamenti dai '90 (capitolo 1)

Gli anni '90: territorio complesso e variegato, il decennio in cui tutto si è mescolato, in cui i gusti del pubblico sono mutati drammaticamente, in cui fuori dagli ambita metal e dance l'unica vera novità (almeno a livello di look e attitudine) è stato il grunge, un non-genere che si riappropriava degli slogan del punk trasformandoli in qualcosa di ancora più serio. Le band degli anni '90 hanno fatto strane parabole. In questi giorni c'è un profluvio di uscite da parte di formazioni con vent'anni di storia alle spalle. Mi ci immergo un po' e cerco di darne conto.

Dream Theater: A Dramatic Turn Of Events.

Questo è uno dei gruppi più attivi nel genere prog-metal, di cui sono, tra luci e ombre, tra gli esponenti più noti al pubblico dei non specialisti. Il primo album è del 1989, ma la consacrazione è stata raggiunta nel 1992 con Images And Words. A pieno diritto si tratta di un gruppo "anni '90", essendo quello anche il decennio della maggiore popolarità della band e delle prove di studio più convincenti. Sono stati prolificissimi: A Dramatic Turn Of Events è l'undicesimo disco di studio, con una media di un album ogni due anni (più 5 live, un EP e una raccolta).

Una quantità non sempre associata alla necessaria qualità. Dotati di una tecnica eccellente e indiscutibile, i DT non sono riusciti nell'arduo compito di suonare sempre musicalmente interessanti e di rispettare gli intenti che erano legati al nome della band.

Dopo il clamoroso abbandono da parte del membro fondatore, nonchè leader carismatico, Mike Portnoy, e la travagliata ricerca del sostituto, molti si aspettavano una sorta di nuova vita per la band. Niente di più falso: questo disco suona esattamente come una stanca riproposizione dei medesimi elementi dei tre noiosissimi album precedenti. Non fatevi ingannare dai primi due minuti del primo brano, che aveva fatto ben sperare i fan. Non appena sentirete entrare la voce di James "Ciccio" LaBrie, vi prenderà un torpore in stile nonno in sedia a dondolo col gatto in braccio. Ribadisco: tecnica ineccepibile, trame intricate, tutti gli ingredienti che fanno di una band come questa pane per i denti di impiegati di banca con sogni di plastica. Ma pochissima fantasia, linee vocali da schiaffi, pochissima anima e soprattutto una vocazione circense che ha proprio stufato. Bocciatissimo.


Opeth: Heritage

Una band dal seguito molto ampio, pur con la strana commistione di generi che la caratterizza. Partita nel 1995 con un album di Death Metal dai toni molto oscuri e quasi canonico per il genere, la band ha inserito via via elementi sempre più prog rock, caratterizzando la propria musica con partiture complesse, con tipici scambi tra cattivissimi riff veloci e ammalianti parti melodiche, e con la caratteristica alternanza di growl e voce pulita (e intensa) da parte del fondatore e leader Mikael Åkerfeldt.

La band fino al 2003 è stata incredibilmente prolifica: quasi un album all'anno. Da allora, gli Opeth hanno molto dilazionato le uscite, sfornando solo un paio di dischi, puntualmente discussi dai fan per le scelte stilistiche, ma di qualità assoluta indiscutibile. Ora, il decimo album di studio Heritage sembra voler segnare un punto di svolta importante per la band. Il disco non reca quasi tracce di metal, Åkerfeldt non accenna neppure per un istante a darsi al growl, le influenze più evidenti sono King Crimson e Genesis, il suono è decisamente anni '70 tra organi hammond, flauti, chitarre a 12 corde e pelli accordate con una morbidezza che è inusuale per un gruppo seguito da gente con le borchie ai polsi e i satanassi sulle t-shirt.

È un bell'album, rilassante, suonato con perizia e musicalmente vario, nonostante l'appiattimento su un sound che non riserva certo sorprese. Potrebbe far storcere il naso a molti fan della prima ora, ma una cosa è certa: nessuno può affermare che questa band riposi sui propri allori.

12 settembre 2011

Suck The Arctic Monkey And See

Che peccato, questo disco. Non me l'aspettavo. Eppure non stavano andando male, gli Arctic Monkeys. Fino al terzo disco li ho seguiti con interesse.

Avevano incasellato un paio di dischi di rock leggero, che si poteva magari anche tacciare di essere un po' commercialotto, ma molto energico, piacevole e dal grosso potenziale radiofonico (per inciso, il primo disco aveva battuto il precedente record di vendite di un disco d'ersordio, detenuto fino ad allora dagli Oasis). Poi un bel terzo album li aveva consacrati come band ormai matura e capace anche di prove meno adolescenziali, ben strutturate e rifinite. E cosa ti combinano? Arriva questo quarto dischetto fiacco e fuori fuoco, sin dalla copertina che non poteva essere più scialba di così.

Il lavoro è minato soprattutto da una pesante incoerenza interna, oltre che da una qualità di scrittura che in alcuni punti non conferma gli standard della band.

Niente di atroce, sia chiaro: l'album scorre via senza grossa infamia - e dopo qualche ascolto vi piazza anche in testa tre o quattro tormentoni, vedi per esempio Brick by Brick o Reckless Serenade - ma si avverte una artificiosa alternanza tra brani più poppy - come l'opener She's Thunderstorms - che ricordano i primi due album, e canzoni con arrangiamenti più psichedelici, nella scia dell'album precedente. È proprio lo stile del cantato a mutare brano per brano, con un "effetto compilation" che sgrana l'album e ne fa un'esperienza meno godibile di quanto sarebbe stato possibile.

Detto questo, l'altro problema è che ci sono troppe canzoncine vacue nel disco, che non hanno ne' il pregio di restare in testa ne' una qualsivoglia velleità di tipo artistica: stanno lì come puro riempitivo, e questo è un peccato mortale per una band che vuole aspirare a qualcosa in più che piazzare un paio di buoni singoli in classifica.

Chiuderei qui il discorso, ma mi scappa una coda analitico-polemica in tema di critica e definizioni, che chiunque non segua le mie solite farneticazioni può tranquillamente saltare.

Chi mi legge (il mio gatto e la mia ex bassista) me lo ha già visto scrivere: "Indie rock", "Alternative rock", "Brit rock"... queste etichette non sanno di nulla e non definiscono nulla, e per giunta non rendono un grande favore a band come gli Arctic Monkeys. Eppure la stampa (sia quella cartacea che il frammentatissimo universo della rete) ha fatto a gara ad inventarsi definizioni tra le più disparate e prive di senso.

Il fenomeno è diffuso e a volte ha impatti nefasti. È anche il segno di un'epoca, in cui le "rece" (parola abominevole che indica, appunto, una recensione monca) si fanno scopiazzando le pagine di Wikipedia, che sono a loro volta scopiazzate da vecchie rece.

Negli anni '00 ne ho viste tante di formazioni che sono esplose al primo album, hanno avuto cori di hosanna sperticati al secondo, e poi sono finite in una sorta di limbo, per diversi motivi ma a volte anche per l'incapacità della critica di ficcarle da qualche parte e quindi di presentarle per quello che erano: pop rock. Queste due parole messe assieme fanno orrore a tutti, ma il concetto è chiaro: "rock da classifica", roba su cui forse non bisogna nemmeno ragionare troppo, ma della quale un giornalista onesto potrebbe almeno far capire se si tratta di musica abbastanza figa, o non abbastanza, da meritare un ascolto da parte del pubblico adolescente.

Spesso queste band iniziavano con un pop-rock, appunto, chiassoso e scanzonato, con influenze brit anni '60 e molto radiofoniche, per un pubblico molto giovane. Poi molte sono cresciute e hanno cercano una propria maturazione stilistica. Al secondo o terzo album hanno iniziato a pescare consensi anche tra un pubblico più adulto, come è naturale.

Ma qui si è incasinato tutto: il blogger sedicenne si domanda "cosa fanno questi qua"? Che suono hanno? Sono cambiati? Si, un po'. Sorge spontanea la domanda successiva: chi ha prodotto l'album? Ha, il tale? Allora il genere è questo, ma con un po' di quello. La gente legge le recensioni, non ci capisce nulla e perde interesse. Come dite? Che le recensioni non le legge più nessuno? Mmmh, secondo me negli ultimi tempi invece sono ancora più importanti di una volta, soprattutto se parliamo di quelle in rete. Gli album nascono in rete, vengono downloadati, il pubblico legge i commenti su facebook...

Gli Arctic Monkeys sono un esempio tipio: iniziano la loro carriera nel 2006 con un album dal titolo chilometrico (Whatever People Say I Am, That's What I'm Not) e dal sound frenetico. Energia a mille, notti in bianco, follie adolescenziali, urgenza di esprimere qualcosa purché ci si esprima. Antagonismo a tutto e a niente, ribellione di maniera. Tutte cose già sentite, ovvio, ma dette molto bene, con coerenza ed efficacia. L'album attira attenzioni e pone la band nello status di "quelle da tenere d'occhio". Nel 2007 segue Favourite Worst Nightmare, di nuovo un bel disco, meno frenetico ma ugualmente energico, orecchiabile, suonato con vigore e un po' più smaliziato. Sempre nulla di incredibile, ma si va nella direzione giusta. La band resta sotto i riflettori ma ancora nessuno sa cosa faccia di preciso. Molti evocano a vanvera "i nuovi Oasis" (non si capisce sulla base di cosa). Il gruppo punta molto sui testi, intelligenti e vagamente inquietanti, proprio il contrario della band dei fratelli Gallagher. Passa un po', e la band chiama Josh Homme (Kyuss, Queens of the Stone Age) a produrre il terzo album. È fatta, si dicono i critici: ora possiamo parlare di "stoner rock". Peccato che Humbug non sia un disco stoner. È però molto diverso dai precedenti, anche perchè registrato negli States e, appunto, prodotto da Homme, la cui influenza bene o male si sente. Incidentalmente, è un bell'album, e potrebbe indicare la strada giusta. È il 2009 e si resta in attesa di vedere cosa succederà.

Ed eccoci qua, calendario aggiornato al 2011. Esce Suck It And See. Ohibò, difficoltà, stavolta è difficile usare la parola "brit", perchè l'album sa ancora molto di America. Ma non è stoner, no, certamente, anzi molti lo stoner lo nominano ancora ma parlano anche di psichedelia, leggo di influenze dei Queens of the Stone Age ma anche dei Beach Boys. Ma l'album è ancora più lontano del precedente da qualcosa che somigli ai Queens, anche perchè Homme non produce più. E cosa c'entrano i Beach Boys? Non si capisce. Un gran casino, insomma. La cosa peggiore è che, davvero, il disco non è un granchè, e non solo perchè lo penso io, ma per i motivi che dicevo più su. Ma molti ci girano attorno, non sanno come valutarlo. È evidente che tra chi ne scrive, la musica, ormai, la ascoltano proprio in pochi. E quelli che la ascoltano chissà cosa ci sentono.

22 luglio 2011

Horrors numero tre

Non dev'essere facile essere attesi al varco come lo sono stati gli Horrors per il loro terzo album. Criticatissimi all'epoca dell'uscita di Strange House nel 2007, quando venivano considerati niente più che gli ennesimi epigoni sbiaditi dei Joy Division (solita cecità di una stampa musicale da barzelletta, visto che si trattava di tutt'altro), poi quasi osannati con il successivo Primary Colors nel 2009 (potere del nome di un produttore di lusso, Geoff Barrow dei Portishead, e di un album più a fuoco), con il nuovo Skying si giocano la credibilità e la possibilità di restare tra i nomi di spicco della scena alternativa anglosassone, qualsiasi cosa ciò voglia dire.

Comincio col dire che il disco non è brutto, non drammaticamente brutto, ecco. Ma non è neppure il loro migliore. Anzi, dopo qualche ascolto mi sembra il loro sforzo più deboluccio, sebbene si sentano ormai l'esperienza ed una certa abilità negli arrangiamenti. La produzione è stata forse il punto critico: deciso di potersela cavare da soli, i nostri hanno fatto forse il passo più lungo della gamba, visto che probabilmente un orecchio esperto avrebbe potuto dare a questo disco un po' di sostanza in più.

Il problema non sono i singoli brani, sebbene qualcuno vacilli pericolosamente sul ciglio della vacuità (l'opener valga come esempio su tutti, strana scelta metterla in apertura), ma le eccessive sbandate di genere e l'assenza, questa volta, di una direzione sonora definita, problema del tutto assente negli album precedenti.

La band non mi dispiace, la voce di Faris Badwan è molto interessante e merita attenzione, quindi non sarà un mezzo passo falso a farmeli bocciare definitivamente. Dovranno però dimostrare di poter fare di meglio, perchè con questo disco hanno imboccato una strada molto pericolosa.

16 giugno 2011

Peter Murphy Ninth

Peter Murphy aveva annunciato l'imminente rilascio di quest'album da quasi due anni, tanto è vero che aveva iniziato a suonarne alcuni brani già nel tour del 2009.

Per qualche motivo l'uscita è slittata fino a questi giorni, ma Ninth è finalmente nei negozi e possiamo dunque ascoltarlo e parlarne. Il titolo, innanzi tutto: questo è in realtà l'ottavo album di studio, che segue il precedente Unshattered dell'oramai lontano 2004, ma a tutti gli effetti il nono della carriera solista di Murphy, se contiamo anche il live uscito nel 2002.

Musicalmente, l'album è un chiarissimo ritorno al passato. Con Ninth, Murphy sembra aver capito che i cambiamenti di direzione degli ultimi due dischi non gli avevano assicurato la simpatia di un nuovo pubblico, anzi avevano allontanato parte della fan-base di un tempo. E allora si torna alle sonorità ed al songwriting degli album, più "classici" come Holy Smoke e Deep.

Il problema è che di quei dischi eredita pari pari anche i difetti. C'è poco da fara: senza i Bauhaus, Murphy è un grande interprete ma non riesce ad essere autore di brani memorabili. Qui ne spiccano tre o quattro, mentre il resto va bene per un effetto nostalgia, ma ad essere sinceri fa da onesto riempitivo. Riempitivo di lusso, sia chiaro: il nostro con quella voce potrebbe cantare qualsiasi cosa. Ma da un simile mostro sacro sarebbe lecito attendersi anche qualcosa di più.

Menzione d'onore per la splendida I Spit Roses, romantica, ben strutturata e arrangiata con cura (e anche accompaganata da un video all'altezza), e per Memory Go, frizzante ed orecchiabile ma cantata con una classe che la rende un vero gioiellino. Tra le altre, non male per esempio See Saw Sway e The Prince & All Lady Shed; ma come si è detto, il livello medio è da sufficienza e non me la sento di gridare al miracolo (come vedo fare da molti altri in giro per il web).

Ultima piccola grande osservzaione: questa band non mi piace. Solida, quadrata, fa bene il suo compitino ma non riesce a dare all'ex vampiro quello che gli manca: un Daniel Ash. Questa chitarra perennemente compressa, piatta piatta e senza fantasia, non è degna di un Peter Murphy. Urgerebbe un innesto di altra levatura.

Gavin Friday is no more a Virgin Prune

Chi ricordasse Gavin Friday soltanto come il cantante dei Virgin Prunes, potrebbe considerare l'idea di stare assolutamente alla larga dal suo nuovo album Catholic.

O almeno, dovrebbe considerare alcune cose prima di azzardare l'ascolto: uno, che il buon Friday non ha più nulla, ma proprio nulla, dei tempi di If I Die I Die; due, che questo è un disco pop; tre, che questo è un disco pop molto, ma molto noioso.

Nell'elenco ho mancato di dire che col passare degli anni il nostro ha tentato in qualche modo di aderire alle sembianze del vecchio amico Bono; non mi sembrava carino dire un'altra cattiveria in fila.

D'altronde, la carriera solista di Gavin Friday è stata aspramente criticata in passato, sia per il distacco completo dalle sue origini, sia per l'eccessiva levigatura delle sue produzioni, che spesso rasentano il kitsch in quanto a coretti (che sono la cosa che più rammenta Bono) e arrangiamenti leziosi e artefatti.

L'album precedente, che risale addirittura a 16 anni fa, era stato Shag Tobacco, che pur con i difetti sopra citati, conteneva episodi interessanti e sulla distanza merita forse una certa rivalutazione. Catholic riparte da quel disco ma ne smussa qualsiasi angolo, lo priva di quasi ogni vitalità, e ci restituisce una raccolta (a parte un paio di episodi) di brani sussurrati, mormorati, accompagnati spesso dall'orchestra, languidamente costruiti attorno a ritornelli talmente orecchiabili da essere subito dimenticati.

Non è un ascolto sgradevole, ma l'appiattimento dei toni e la mancanza di una vera e propria vena compositiva ne fanno un'opera sostanzialmente inutile. Peccato, perchè delle potenzialità ancora ci sono, ma forse è meglio che Friday le sfrutti nelle colonne sonore, con le quali sembra invece ottenere discreto successo (vedi l'esempio di In The Name Of The Father).

PS: la bella cover del disco ha il suo perchè nei testi, che sono il vero punto forte dell'album. Friday, che è irlandese, usa la parola "catholic" (minuscola) con accezioni che per un italiano sono difficili da cogliere.

14 giugno 2011

Depeche Mode Remixes parte 2

Sentivamo il bisogno di una seconda raccoltona di remix dei Depeche Mode? Qualcuno aveva espresso la necessità di altri tre CD di remix vari a così pochi anni di distanza dai 3 precedenti (e quindi con pochissimo materiale davvero nuovo da aggiungere) e con l'inclusione di un intero CD di remix realizzati appositamente (e quindi, per le ragioni che vi spiegherò, non poi così appetibili)?

Dopo non lunga meditazione, la risposta onesta non può che essere no, non la sentivamo. E infatti prevedo che non concederò a questo box molto più che un paio di ascolti distratti.

Il problema di fondo è che se è vero che i Depeche Mode sono stati, senz'altro, i più grandi commissionatori di remix degli anni '90, dove con quel "grandi" intendo riferirmi alla qualità dei remix stessi, è anche vero che gli anni '90 sono finiti da un pezzo, e con loro sono finiti sia i grandi dischi dei Depeche Mode (il cui ultimo album degno di nota è Ultra del 1997, dopo si tira a campare) sia il periodo dei grandi remixatori (con buona pace delle pur notevoli eccezioni ancora rimaste in campo).

Il primo box triplo (Remixes 81-04) raccoglieva molte delle gemme disseminate dai DM nell'incredibile numero di maxi single prodotti nella loro carriera fino ad Exciter (l'album del 2001). Questo secondo box ne aggiunge ancora qualcuna, ma non tantissime (l'Anandamidic Mix di Walking In My Shoes; il Pulsating Orbital Vocal Mix di Happiest Girl; lo United Mix di Barrel Of A Gun; il Dan The Automator Mix di Only When I Lose Myself), concentrandosi però per lo più (come è logico) sui rifacimenti dei brani inclusi nei due album usciti nel frattempo. Qualcuno di questi remix è interessante, ma il problema è che sono i pezzi di partenza a non esserlo: canzoni come Suffer Well, John The Revelator, In Chains, Peace (sinceramente, migliorata da questo mix svuotato), Lilian, Corrupt, Fragile Tension, A Pain That I'm Used To, non sono memorabili e non lo diventano nelle versioni rielaborate da chicchessia.

Ciò nonostante, qualche chicca da segnalare c'è: l'interessante remix del 2006 di Everything Counts (Oliver Huntemann And Stephan Bodzin Dub), il Death Mix di Fly On The Windscreen (roba del 1985, finora edito solo sul singolo di It's Called A Heart), il ripescaggio della versione Dub In My Eyes del classico World In My Eyes (uscita nella re-release del 2006).

Discorso a parte per il terzo CD. Composto solo da versioni appositamente realizzate per questo box, è stato molto pubblicizzato grazie a due "ritorni": l'Alan Wilder Remix di In Chains e il Clark Remix di Freestate. Nessuno dei due rifacimenti mi emoziona, sarà anche perchè si tratta di due pezzi che trovo davvero bruttini di per se', anche sotto la media degli ultimi anni. Per il resto, il disco contiene cose non disprezzabili ma di nessun valore "storico", e con questa affermazione intendo che un remix che esce nel momento di pubblicazione del singolo, che viene trasmesso in radio, che viene ballato in discoteca, che viene ascoltato in cameretta da chi ha comprato il maxi single (quando c'erano, ahimè), assume un qualche alone di interesse se riascoltato negli anni successivi: nostalgia, fascinazione per un'epoca, riscoperta dei suoni di un periodo. Ma remixare nel 2011 un brano del 1982 (o del 1993, o del 2001) mi sembra un'operazione fredda, meccanica e puramente commerciale, francamente destituita da ogni senso.


[1-Disc version]
1. Dream On - Bushwacka Tough Guy Mix Edit (2001)
2. Personal Jesus - The Stargate Mix (2011)
3. Suffer Well - M83 Remix (2006)
4. John The Revelator - UNKLE Reconstruction (2006)
5. In Chains - Tigerskin's No Sleep Remix Edit (2011)
6. Peace - SixToes Remix (2009)
7. Tora! Tora! Tora! - Karlsson And Winnberg (from Miike Snow) Remix (2011)
8. Never Let Me Down Again - Eric Prydz Remix (2011)
9. I Want It All - Roland M.Dill Remix (2011)
10. Wrong - Trentemøller Remix (2009)
11. Puppets - Röyksopp Remix (2011)
12. Everything Counts - Oliver Huntemann And Stephan Bodzin Dub (2006)
13. A Pain That I'm Used To - Jacques Lu Cont Remix (2005)


[3-Disc version]
Disc 1:
1. Dream On - Bushwacka Tough Guy Mix (2001)
2. Suffer Well - M83 Remix (2006)
3. John The Revelator - UNKLE Reconstruction (2006)
4. In Chains - Tigerskin's No Sleep Remix (2011)
5. Peace - SixToes Remix (2009)
6. Lilian - Chab Vocal Remix Edit (2006)
7. Never Let Me Down Again - Digitalism Remix (2006)
8. Corrupt - Efdemin Remix (2009)
9. Everything Counts - Oliver Huntemann And Stephan Bodzin Dub (2006)
10. Happiest Girl - The Pulsating Orbital Vocal Mix (1990)
11. Walking In My Shoes - Anandamidic Mix (1993)
12. Personal Jesus - The Stargate Mix (2011)
13. Slowblow - Darren Price Mix (1997)

Disc 2:
1. Wrong - Trentemøller Club Remix (2009)
2. World In My Eyes - Dub In My Eyes (1990)
3. Fragile Tension - Peter Bjorn and John Remix (2009)
4. Strangelove - Tim Simenon/Mark Saunders Remix (1988)
5. A Pain That I'm Used To - Jacques Lu Cont Remix (2005)
6. The Darkest Star - Monolake Remix (2006)
7. I Feel You - Helmet At The Helm Mix (1993)
8. Higher Love - Adrenaline Mix Edit (2004)
9. Fly On The Windscreen - Death Mix (1985)
10. Barrel Of A Gun - United Mix (1997)
11. Only When I Lose Myself - Dan The Automator Mix (1998)
12. Ghost - Le Weekend Remix (2009)

Disc 3:
1. Personal Jesus - Alex Metric Remix Edit (2011)
2. Never Let Me Down Again - Eric Prydz Remix (2011)
3. Behind The Wheel - Vince Clarke Remix (2011)
4. Leave In Silence - Claro Intelecto 'The Last Time' Remix (2011)
5. In Chains - Alan Wilder Remix (2011)
6. When The Body Speaks - Karlsson And Winnberg Remix (2011)
7. Puppets - Röyksopp Remix (2011)
8. Tora! Tora! Tora! - Karlsson And Winnberg (from Miike Snow) Remix (2011)
9. Freestate - Clark Remix (2011)
10. I Want It All - Roland M. Dill Remix (2011)
11. A Question Of Time - Joebot Presents 'Radio Face' Remix (2011)
12. Personal Jesus - Sie Medway-Smith Remix (2011)