7 luglio 2013

Editors: The Weight of Your Love

Per qualche motivo continuo ad interessarmi agli Editors, e quindi eccomi qui a discettare del nuovo The Weight Of Your Love, dopo aver sostanzialmente massacrato 4 anni fa il precedente In This Light And On This Evening.

Quarto disco di studio, e primo senza il chitarrista fondatore Chris Urbanowicz, l'album sbaraglia ogni aspettativa e abbandona completamente gli arrangiamenti elettronici del precedente, puntando invece in modo deciso su sonorità chitarristiche di matrice pop-rock.

Un cambio di pelle quasi incredibile, se non fosse stato effettuato da una band che ha già dato prova di essere capace di rinnegare rapidamente il proprio passato senza troppe preoccupazioni. E non è certamente questo il problema, anzi, va ammirata la capacità di rinnovarsi.

Il singolo trainante è stato A Ton Of Love, una canzone indiscutibilmente riuscita, molto orecchiabile e con un refrain ("Desire, desire,...") che solo ai più distratti o (sia detto in senso neutro, per carità) crassamente ignoranti, può non aver riportato alla mente i Simple Minds della seconda metà degli anni '80. Incredibile: una band può passare dal quasi plagio dei New Order al quasi plagio dei Simple Minds, e continuare a sostenere di ispirarsi ai R.E.M. (leggere per credere).N.B. so che è facile dire che plagiano gli U2, ma bisogna citare sempre l'originale e mai una copia.

Ben confezionate anche la canzone di apertura The Weight, come la seconda traccia Sugar, poi giunge il già citato singolo, ma da qui in avanti il resto dell'album è noia mortale: a partire dalla terribile What Is This Thing Called Love (in cui la band entra in "modalità Coldplay") è un susseguirsi di brani che, a prescindere dagli arrangiamenti, sembrano scritti controvoglia e senza alcuna ispirazione. Si salva qualcosina verso la fine ma ormai l'abbiocco è partito e ci si dimentica anche di registrare il nome del brano "meno peggio".

Ciò nonostante, sono qua a citare l'album per alcuni buoni motivi:
- la voce di Tom Smith non passa inosservata, e sarebbe degna di migliori composizioni, per quanto lui cerchi di rovinarsi inanellando un'imitazione dietro l'altra;
- la critica musicale (con le dovute eccezioni, naturalmente) continua a paragonarli alle cose più improbabili, dimostrando quanto poco vengano ascoltati gli album, e questo mi stuzzica sempre (ragazzi, parlare ancora di parallelismi tra questa band e i Joy Division... leggete in giro e ditemi se non è imbarazzante);
- i rari brani azzeccati dalla band sono molto belli, e ormai siamo giunti al punto in cui, con le canzoni buone dei quattro album partoriti fino ad ora, si potrebbe fare un ottimo unico album (pare poco, ma non sono molte le band degli anni '00 di cui si possa dire la stessa cosa).

14 giugno 2013

QOTSA ...Like Clockwork?

Ne è passato di tempo da quando la dissoluzione dei grandissimi Kyuss diede vita ai meno grandi ma non disprezzabili Queens of the Stone Age.

Talmente tanto tempo che di quella formazione è ormai rimasto il solo Josh Homme, e certo è inevitabile che il divario tra le due esperienze, in termini stilistici, sia divenuto enorme, non solo rispetto alla band originaria, ma anche rispetto allo stesso bell'album omonimo d'esordio targato 1996.

Anche perchè la band si è costruita una storia estremamente variegata, fatta di cambi di organico, di sterzate stilistiche e di sperimentazioni più o meno riuscite, fino alla crisi di consensi coincisa con l'uscita dello sfortunato Era Vulgaris (2007)

Sinceramente, credevo che Homme e soci avessero deciso di considerare chiusa l'esperienza, visti anche i progetti paralleli portati avanti (Homme con i Them Crooked Vultures, Dean Fertita con i Dead Weather). Invece i supersititi hanno dato seguito ai ripetuti annunci che si susseguivano da un paio d'anni, ed hanno dato vita al sesto album come QOTSA, intitolato ...Like Clockwork, un'espressione che sembra essere frutto di un certo umorismo, vista la genesi tormentata dell'album.

Non entro in dettagli su chi sia entrato e chi sia uscito dalla band, su quanti ospiti ci siano nelle varie tracce e così via (si, ok, vi dico solo che c'è Mark Lanegan, ma dov'è che non sta?). Vorrei invece soffermarmi su quello che l'album sembra promettere, salvo poi farsi sfuggire tra le mani man mano che l'ascolto va avanti.

Innanzi tutto, è un album sorprendentemente coeso, niente a che vedere con la gran confusione di stili percepita soprattutto nelle ultime prove. Sembra per la prima volta che Homme abbia puntato su un lavoro molto a fuoco, con sonorità che ritornano canzone per canzone, e brani concisi che puntano al dunque e filano via in breve. Un'ottima cosa, peccato che la qualità della musica prodotta non faccia il paio con l'impegno profuso.

Non è un disco brutto, ma molto dimenticabile. E i brani che restano impressi sono fin troppo "facili" e stufano in breve. Forse è stato pensato con intenti eccessivamente commerciali (come i video promozionali con target adolescenziale farebbero ipotizzare) o forse, al contrario, si è cercata un'"opera della maturità" che, in tal caso, deve ancora arrivare. Un ascolto gradevole, ma lo metto nella lista dei dischi da comprare in special-special-price.

9 giugno 2013

Alice and the Devil

Superato il trauma della "sostituzione impossibile" del deceduto Layne Staley col nuovo cantante William DuVall, concretizzatasi quattro anni fa con la pubblicazione dell'ottimo Black Gives Way To Blue, gli Alice In Chains tornano con un nuovo album di studio.

Le dodici tracce di The Devil Put Dinosaurs Here spaziano in direzioni diverse, ma come nel lavoro precedente si mantengono nel solco della tradizione sonora della band, il cui marchio di fabbrica si conferma essere a questo punto nient'altro che la visione musicale del chitarrista - nonchè autore di tutte le tracce - Jerry Cantrell.

Il disco si apre benissimo: Hollow è una di quelle canzoni senza tempo che potrebbero essere nate all'epoca di Dirt, un'aggressione di chitarre sludge che fonde, in una ricetta ormai nota ai fan, lo stile dei vecchi Black Sabbath con i vocalismi grunge più incattiviti. Lo stesso si può dire delle successive Pretty Done (che aggiunge una marcata venatura psichedelica) e Stone, quest'ultima contraddistinta dall'alternanza furbesca di aggressività e distensione, un meccanismo anche questo già classico. La quarta traccia Voices rischiara la scena e si rivela per uno di quei gioielli alla AiC in cui chitarre acustiche ed elettriche si intrecciano in una sorta di ballata dai toni più positivi.

Per dare la cifra del disco basterebbe fermarsi qui - e infatti mi fermo per non risultare inutilmente prolisso - perchè le successive 8 tracce non fanno che ripetere i medesimi schemi, con una menzione d'onore per la splendida Phantom Limb, una lunga cavalcata cupa e ben degna di entrare a far parte del repertorio della band.

L'album soffre però di alcuni problemi piuttosto evidenti. Da un lato, non c'è alcuna traccia di innovazione, per cui ci si trova davanti a composizioni di buon livello, alcune anche ottime, ma prive di qualsiasi sorpresa, al punto che tra qualche tempo si potrebbe non ricordare più da quale album provengano. Dall'altro, l'album dura la bellezza di 67 minuti, con durate medie superiori ai 5 minuti, non sempre giustificabili con necessità compositive: qualche taglio qua e là ci starebbe, sia nel minutaggio delle singole tracce, sia nella scaletta, che poteva magari avvantaggiarsi di una riduzione a dieci brani. E infine, appunto, la scaletta stessa: l'ordine delle canzoni mi lascia un po' perplesso, alcuni passaggi inchiodano un po' la scorrevolezza dell'ascolto, vedi ad esempio proprio il brusco passaggio al panorama acustico e solare della quarta traccia dopo le tre bordate iniziali, elettriche e oscure.

Nonostante la più che piena sufficienza, e alcuni picchi notevoli, non posso nascondere una mezza delusione, visto che con le potenzialità sul campo sarebbe lecito aspettarsi da questa band un album vicino alla perfezione.

2 giugno 2013

Re-Mit: The Fall numero 30

Difficile, al 30° album di studio, dire qualcosa di nuovo su una band che, diceva John Peel, "non ha mai fatto un album brutto". Giudizio opinabile come qualsiasi giudizio personale, ma non troppo lontano dalla realtà se si considera che si tratta di un pensiero piuttosto condiviso dalla critica e dai fan della band di Mark E. Smith.

Diciamo allora un paio di notizie. Si, questo è proprio il numero 30, senza ombra di dubbio (secondo i miei calcoli, pare invece proprio il 29°). Aggiungendo live, raccolte e quant'altro, il numero triplica, se non peggio. Incredibile a dirsi, questo è il quarto album di fila con la medesima formazione. Un assoluto record per un gruppo che possiede addirittura una pagina dedicata ai propri cambi di organico su Wikipedia.

Re-Mit si segnala, musicalmente parlando, soprattutto per l'abbandono della formula "basso rutilante e cattivo, chitarra rombante, voce incazzosa" che era diventata un po' stanca sul precedente Ersatz G.B (ma aveva dato il meglio nell'eccellente Your Future Our Clutter), e per la maggiore varietà di stili ed esperimenti. Spesso la linea di basso resta indietro e dà spazio ai notevoli riff chitarristici (mai banali in questa raccolta). Il mood sembra in generale meno astioso, con qualche asperità in meno e qualche vaga cupezza in più. Ma sono sfumature. Al solito, la compagna di Smith e tastierista Elena Poulou interviene con la propria voce in un brano; come al solito, Smith se la prende in un altro con qualche gruppo che non gli va giù (stavolta tocca agli LCD: "James Murphy is their chief/They show their bollocks when they eat").

Per il resto, posso solo consigliarvi di aggiungerlo alla "collezione delle figurine" dei vostri album dei Fall, senza tema di rimanere troppo delusi. E poi la copertina è brutta abbastanza da meritare di essere posta di fianco alla precedente.

1 giugno 2013

Peter Murphy plays Bauhaus, Milano, 27/05/2013


Mr Moonlight Tour - Celebrating 35 years of Bauhaus

Senza commenti, il concerto completo di Peter Murphy ai Magazzini Generali di Milano, il 27/05/2013.

"Per chi l'ha visto e per chi non c'era"...  Ringraziate "lasyboylive" che lo ha caricato sul Tubo.

23 maggio 2013

False Idols, real Tricky?

False Idols è il nuovo album di Tricky, il nono della sua carriera, o il decimo se si conta anche la collaborazione con DJ Muggs + Grease del 1999. Dieci dischi son tanti, e azzardo allora un piccolo consuntivo.

La carriera del musicista di Bristol ha seguito una curva molto incostante, con picchi qualitativamente altissimi agli esordi (lo strabiliante Maxinquaye, l'inquietante Nearly God) e qualche punto molto basso nei primi del millennio (il traballante Blowback, l'atroce Vulnerable), per poi tornare almeno alla dignità negli ultimi anni: Knowle West Boy nel 2008 era stato un ritorno più che rispettabile.

Proprio con l'album del 2008 si era aperta una sorta di "nuovo corso", con ritmi più upbeat, produzione brillante, smussatura delle spigolature più "dark" e predominanza dell'elettronica sul trip hop, pur mantenendo una certa inquietudine di fondo. Solco nel quale si poneva, con risultati forse meno riusciti ma non disprezzabili, anche la prova del 2010 Mixed Race.

Ma evidentemente Tricky si è stufato ed ha pensato di tornare ad atmosfere più fumose ed oscure, che si ricongiungono alla prima parte della sua carriera, se non per qualità almeno per ispirazione. False Idols si avvale della collaborazione di Francesca Belmonte, la cui voce prende spesso il sopravvento su quella di Tricky, il quale si limita in molti brani a sussurrare su basi minimali e malinconiche, lasciando alla voce femminile la parte dominante.

Tirando le somme, si tratta di un disco pieno di classe, che scorre via piacevolmente, raffinato e in qualche caso riuscitamente ammaliante, ma non straordinario. Un episodio insomma apprezzabile, ma ancora lontano dai veri fasti del cantante di Bristol, ormai lontanissimi nel tempo.

22 maggio 2013

Mick Harvey, Four Acts of LOVE

Mick Harvey deve averci preso gusto, e ad "appena" due anni di distanza da Sketches From The Book Of The Dead torna con una nuova fatica discografica (si, l'ho scritto apposta, sa così tanto di antico giornalismo musicale italico).

Mentre l'album precedente non mi aveva esaltato (anche se era il tipico esempio di raccolta che si fa apprezzare sempre più col tempo), questo nuovo Four (Acts of Love) mi è piaciuto all'istante. Sarà l'insieme più orecchiabile, sarà la varietà musicale più ampia, sarà forse anche che su tratta di un gran bel disco suonato bene, appassionato e a tratti toccante.

Dopo il precedente album dedicato ai ritratti-omaggio di diversi amici trapassati, stavolta Harvey ha concepito una sorta di concept dedicato all'amore romantico ed alle sue diverse sfaccettature. Collegati tra loro in un ciclo ideale in tre fasi, si mescolano 10 brani nuovi, di cui uno scritto da PJ Harvey (Glorious), e a 4 cover: The Story of Love dei Saints, The Way Young Lovers Do di Van Morrison, Summertime in New York degli Exuma e Wild Hearts (Run Out of Time) di Roy Orbison.

Forse la vetta artistica di un musicista che sembra aver trovato una nuova giovinezza dopo essersi affrancato dall'ombra del vecchio sodale Nick Cave.

Act 1 – SUMMERTIME IN NEW YORK
1. Praise the Earth (Wheels of Amber and Gold)
2. Glorious
3. Midnight on the Ramparts
4. Summertime in New York
5. Where There’s Smoke (before)
Act 2 – THE STORY OF LOVE
6. God Made the Hammer
7. I Wish That I Were Stone
8. The Way Young Lovers Do
9. A Drop, An Ocean
10. The Story of Love
Act 3 – WILD HEARTS RUN OUT OF TIME
11. Where There’s Smoke (after)
12. Wild Hearts
13. Fairy Dust
14. Praise the Earth (An Ephemeral Play)

20 maggio 2013

Karl Hyde, Edgeland

Amo davvero il suono della voce di Karl Hyde, sin dai tempi della scoperta dei fantastici Freur a fine anni '80 (si, con un certo ritardo, grazie Luke!). Con la gioia accessoria di una seconda ri-scoperta, quando rimasi invischiato negli Underworld della seconda metà degli anni '90, solo per scoprire che c'era la stessa persona dietro quell'affascinante macchina da sogni ballardiani elettronici, che ha disegnato il paesaggio sonoro di fine millennio.

Mi spiace dunque ammettere che, nonostante mi ci sia messo d'impegno, non sono riuscito ad apprezzare troppo la sua prima opera solista.

Edgeland è sostanzialmente un album di canzoni, senza troppi rimandi allo "stile Underworld": Hyde ha voluto un album da cantante, anzi come diremmo in Italia, da "cantautore". Voce in primo piano, dunque, musica nata in solitudine probabilmente con un'acustica o al piano, poi infilata successivamente in strutture che in maggioranza si piegano al testo, e vestita di sonorità che seppure curate maniacalmente non diventano mai protagoniste della scena, ma restano sempre funzionali al brano.

Tutto questo è perfettamente sensato e coincide esattamente con quanto mi attendevo. Il problema sta nel fatto che l'album scorre via troppo lento, con soluzioni molto ripetitive, ed offre solo una manciata di attimi davvero memorabili. Mi pare che il classico flusso di coscienza alla Hyde non si adatti troppo ad una raccolta di canzoni, oppure che il cantante semplicemente non sia riuscito a scrivere un numero sufficiente di canzoni degne di nota. Ed è una occasione sciupata, perchè c'è classe da vendere, e forse una più accorta scelta delle strutture avrebbe giovato. Bellissima ad esempio l'apertura col primo brano The Night Slips Us Smiling Underneath It’s Dress, dove l'amalgama sonoro e il suono della voce rasentano la perfezione, ma per il sussulto successivo si deve attendere quasi in chiusura Shadow Boy, che offre uno sviluppo dinamico in crescendo e finalmente strappa un sorriso di approvazione.

Forse il desiderio di suonare sufficientemente pop, o quello di non suonarlo troppo, hanno nuociuto all'equilibrio dell'album. Stranamente, uno dei brani che mi hanno colpito in modo più favorevole è incluso solo nell'edizione deluxe: Dancing On The Graves Of Le Corbusier’s Dreams smuove un po' le acque e restituisce vitalità ad un album altrimenti davvero troppo statico.

Non ho visto il film sul DVD dell'edizione Deluxe; ma conoscendo le precedenti opere visuali di cui si è occupato Hyde, potrebbe essere più interessante dell'album. 

CD
01. The Night Slips Us Smiling Underneath It’s Dress
02. Your Perfume Was The Best Thing
03. Angel Cafe
04. Cut Clouds
05. The Boy With The Jigsaw Puzzle Fingers
06. Slummin’ It For The Weekend
07. Shoulda Been A Painter
08. Shadow Boy
09. Sleepless
10. Dancing On The Graves Of Le Corbusier’s Dreams (Deluxe Edition Bonus Track)   
11. Final Ray Of The Sun (Deluxe Edition Bonus Track)
12. Out Of Darkness (Japan Only Deluxe Edition Bonus Track)
13. Cascading Light (Japan Only Deluxe Edition Bonus Track)
14. Slummin’ It For The Weekend (Deluxe Edition Bonus Version Mixed By Brian Eno)
15. Cut Clouds (Figures Remix) (Deluxe Edition Bonus Track)
   
DVD (Deluxe Edition)
The Outer Edges (Edgeland Version) (A Keran Evens Film)

7 maggio 2013

Iggy and the Stooges are ready to die (?)

"Iggy and the Stooges" è un marchio di fabbrica che non appariva sulla copertina di un album dal 1973, quando Iggy Pop riformò gli Stooges (sciolti 3 anni prima), con l'aggiunta del chitarrista James Williamson e la complicità di David Bowie (in veste di produttore) e si ributtò in pista con quello che sarebbe diventato un grandissmo classico: Raw Power.

Sono passati 40 anni, e nel mezzo ci sono stati un disco a nome Williamson-Pop nel 1977, ben 16 album solisti dell'Iguana, e uno soltanto a nome Stooges, nel 2007 (con Ron Ashton alla chitarra e Mike Watt al basso), poco apprezzato sia dal pubblico che dalla critica, unanimi nel considerarlo piuttosto deboluccio.

La scelta di rispolverare la denominazione "Iggy and the Stooges" per il nuovo Ready To Die è probabilmente da far risalire al rientro di Williamson alla chitarra dopo la recente scomparsa di Ron Ashton, e il nuovo album sembra saltare a piè pari quanto fatto con lo sfortunato The Weirdness e si pone come vero seguito del disco del '73.

Ci riesce? Beh, inutile nascondersi che non può riuscirci, per ragioni storiche (ciò che era innovativo 40 anni fa, oggi può al massimo suonare come una buona copia), anagrafiche (Iggy ha 66 anni!) e anche per il senso del tutto diverso che ha oggi pubblicare un album, rispetto a quello che aveva allora (i dischi ce li si beveva dal primo all'ultimo solco centinaia di volte, oggi la norma è un paio di ascolti distratti).

Ma questa volta il tentativo è almeno credibile. La traccia di apertura Burn fa quasi il miracolo (e non per niente è stata messa lì). La tensione si tiene abbastanza alta, le due tracce lente fanno la loro porca figura, la durata contenuta (10 brani in 35 minuti) aiuta l'effetto endovena. Soprattutto, una cosa è certa: Williamson fa un lavoro egregio, e dimostra di essere sempre stato il chitarrista giusto per Iggy (riascoltare Kill City per credere). Anche l'apporto al sax di Steve Mackay non è secondario, e a tratti dà senso a brani altrimenti non eccezionali. Detto ciò, certo non è un disco essenziale, ma merita la sufficienza piena e questo non è poco, se ci pensate (cioè, ragazzi, 40 anni, ma ci rendiamo conto?)

20 aprile 2013

Diaframmate varie: demo, live, eventuali

Era datato 2009 il ciclo di ristampe in CD + DVD dedicato a 4 album "storici" dei Diaframma: Siberia (1984), 3 Volte Lacrime (1986), Boxe (1988) e Anni Luce (1992).

Non avendo la possibilità (o meglio, non essendo pratico ne' conveniente, ché volendo si potrebbe pure) di ristampare i titoli "assenti" Gennaio (EP, 1989) e In Perfetta Solitudine (1990), nel 2011 Federico Fiumani ha pubblicato il doppio LP (solo in vinile) Imperfetta Solitudine, raccolta delle demo dei due album in questione con l'aggiunta di alcuni inediti.

Due anni dopo esce, stavolta solo in CD, questo Studio Sessions ('95-'96), che raccoglie le demo (in questo caso però incomplete) dei due dischi successivi a Il Ritorno Dei Desideri (quest'ultimo, 1994, mai andato fuori stampa): Non È Tardi (1995) e Sesso E Violenza (1996). Ci sono 6 brani dal primo, 10 dal secondo, 3 inediti e una bonus track dal vivo.

Pur auspicando che prima o poi vengano comunque ristampati gli album originali, ho accolto con piacere quest'operazione per la freschezza delle versioni demo, che oltre a presentasi in una qualità non troppo dissimile da quella delle registrazioni finite su disco, offrono qualche ruvidezza di interpretazione o di arrangiamento che non mi dispiace affatto.

Segnalo inoltre qualche altro titolo recente che ripesca nel probabilmente sterminato archivio dello stesso Fiumani: Live 83 (anche questo solo su vinile) e Demos 1982 (idem). Una uscita in più per una band di culto come i Diaframma non è mai un problema. Ma questa confusione di formati mi lascia un po' perplesso. È vero che il vinile è di moda e che probabilmente il calcolo è corretto da un punto di vista commerciale, ma chi come me si intestardisce a non volerne acquistare (complici la mancanza del piatto e di ulteriore spazio in casa) si sente un po' tradito. Mannaggia Federico, al prossimo concerto ti cazzio (e poi ti lamenti che non vendi i CD).

10 aprile 2013

Crime & The City Solution, American Twilight

Mi ha incuriosito molto la rivitalizzazione del vecchio marchio di fabbrica dei Crime And The City Solution, e infatti ve ne avevo dato notizia già da molto tempo. Non si può parlare di "reunion", ma solo di ritorno di un nome glorioso, perchè come sempre tutto ruota attorno all'unico membro permanente della band, ossia il cantante Simon Bonney. Dell'ultima formazione ci sono il violinista Bronwyn Adams e il chitarrista Alexander Hacke (più noto per la militanza negli Einstürzende Neubauten), mentre i nuovi innesti ne fanno praticamente una nuova band: al terzetto si sono aggregati il tastierista Matthew Smith, il batterista Jim White (dei Dirty Three), il bassista Troy Gregory (ex dei Dirtbombs), il chitarrista David Eugene Edwards (ex 16 Horsepower, attualmente leader dei Woven Hand), e infine l'artista visuale Danielle de Picciotto.

Otto componenti costituiscono un collettivo forse un po' eccessivo per un disco di rock alternativo, ma questa abbondanza ha senso se si considera l'album per quello che effettivamente è: una grande rimpatriata al desco del padrone di casa Simon Bonney. I musicisti coinvolti, sebbene dai caratteri diversi e con personalità forti (si pensi al solo David Eugene Edwards, che abituato ad essere al centro della scena, qui fa da comprimario assieme ad altri due chitarristi), provengono da un'area artistica che ha una sua forte coesione interna, per linguaggio, temi, sonorità. C'è dunque, nonostante il pesante cambio d'organico, un deciso senso di continuità col passato. Già nella traccia di apertura, ad esempio, si possono riscontrare pesanti echi dello stile del compianto Rowland S Howard, membro dei Crime del primissimo periodo (assieme a Mick Harvey ed Epic Soundtracks), nonchè animatore dei Birthday Party e dei This Immortal Souls.

Ma se l'album guarda al passato e ad una scena che ha già detto moltissimo, e non si affanna in alcun modo a cercare strade innovative, alla resa dei conti dell'ascolto non suona come un inutile rifacimento di cose vecchie. Nelle otto tracce che lo compongono si può apprezzare la voglia di fare musica in modo sentito e passionale, a volte con mestiere ma in modo mai banale. I brani migliori sono la lunga cavalcata Goddess, la ballata My Love Takes Me There, il quasi gospel di Domina, ma anche la title track American Twilight se la gioca bene, assieme ai rimandi (in questo caso volutamente citazionisti) di River Man. Un disco solido, insomma, anche se manca di quel guizzo che avrebbe potuto renderlo indimenticabile. Una implicita conferma di quanto sia difficile per questa generazione, pur restando su livelli altissimi, continuare a sfornare opere essenziali. Da Nick Cave in giù si tratta di un genere oramai piuttosto logoro, e dopo trent'anni di persistenza sulla scena non è lecito aspettarsi nulla di meglio di questa pur buona prova di ritorno.

7 aprile 2013

Saint Julian is back (from Cope Island)

Saint Julian è il terzo album solista nella complessa discografia di Julian Cope, e quello che segnò la svolta (provvisoria, col senno di poi) rispetto alle sue prime uscite soliste, marcate da una forte componente psichedelica e surreale, verso una fase più chiaramente pop.

Una scelta sottolineata dal passaggio alla Island Records, nonché dall'immagine sfoggiata da Cope in copertina: capelli corti, abbigliamento curato ed in linea con lo stile mainstream del 1987, fotografia patinata (un confronto con la cover del precedente Fried consente di farsi un'idea).

Da un punto di vista musicale l'album è un passo indietro rispetto all'eclettismo ed al fascino emanato dalle due opere precedenti. La produzione è tesa ad ottenere un suono pulito e potente, con un effetto di spersonalizzazione che mal si adatta al musicista di Liverpool. Anche la scelta dei brani, che in alcuni casi provengono da vecchie sessioni, uno addirittura dall'eopca pre-Teardrop Explodes, contribuisce a rafforzare la sensazione di una mancanza di coesione e di tensione artistica.

Eppure, come affermato dallo stesso Cope, l'album, pur non essendo uno dei suoi migliori, "ha i suoi momenti". Col senno di poi, sarà un buon banco di prova per il successivo Nation Underground, che pur appartenendo dal punto di vista sonoro allo stesso filone, si dimostrerà molto più interessante. E c'è qualche bel brano degno di memoria: i singoli Trampolene e Eve's Volcano, oltre alla stessa title track e ad una rilavorata World Shut Your Mouth.

Assente dai cataloghi da un bel po' di tempo, l'album è stato finalmente ristampato dalla Universal in edizione doppia, recuperando in pratica la Expanded Edition della Island del 2004. Il secondo CD è la riproduzione integrale della compilation The Followers Of Saint Julian edita nel 1997, una raccolta di tutto il materiale realizzato da Cope nel "periodo Saint Julian": recupera 3 EP degli anni 86-87 con tanto di remix, b-sides e una manciata di live.

Per i fan di Cope, una edizione praticamente necessaria. Per gli altri, compratevi prima Peggy Suicide e Jehovahkill, porca miseria. Nota di servizio: il prezzo che vedo in giro è sui 22 euro, e mi pare troppo esoso. Se lo cercate online ve la cavate con 16-17 euro, una cifra molto più sensata per un album che, comunque, ha il suo bravo quarto di secolo di età.

31 marzo 2013

Young Gods, ristampa del primo album

Il terzetto svizzero degli Young Gods, composto agli esordi da Franz Treichler (voce), Cesare Pizzi (sampler) e Frank Bagnoud (batteria, percussioni), prese il nome dal un EP del 1984 degli Swans.

Curioso come una delle band più influenti degli anni '80 abbia dato il nome ad un'altra delle band più influenti della medesima decade (il cui impatto si riverserà però soprattutto sugli anni '90). Ma poco accomuna i primi ai secondi, se non l'appartenenza ad una non meglio identificata onda "post industriale", ossia tutti quei musicisti che sentivano l'influenza dell'opera fatta da gruppi come i Throbbing Gristle alla fine degli anni '70, e la assorbivano in contesti spesso diversissimi.

Gli Young Gods aggiunsero agli ingredienti del genere (drumming brutale, atmosfere oscure, rumorismi spesso in evidenza), almeno una novità epocale: l'uso del campionatore come strumento dominante. E in particolare, i tre fanno uso, soprattutto nel primo album e nei due successivi, di abbondanti campionamenti di chitarre elettriche di matrice heavy metal. Una sorta di inclusione di un genere nell'altro, ma con l'ulteriore mescolanza di elementi diversi, vedi la canzone brechtiana, la musica sinfonica, e qualsiasi altra cosa capitasse nel calderone.

A tutto va aggiunta la voce, roca e spesso luciferina, di Treichler (ad oggi unico membro permanente) il quale condiva tutti i brani con la propria inconfondibile presenza. Alternando tra l'altro inglese, francese e tedesco, ossia aggiungendo una babele linguistica a quella sonora.

Il primo disco, omonimo, è del 1987, segue di un anno l'EP Envoyé! ed è il prodotto più grezzo ed oscuro degli Young Gods, i quali due anni dopo con L'Eau Rouge inizieranno un percorso di raffinamento forse inevitabile (ma indubbiamente interessante). Sparito dai cataloghi da molti anni, The Young Gods è stato finalmente ristampato, in edizione doppia con l'aggiunta del live at Fri-Son, finora inedito, dello stesso anno, dall'etichetta svizzera Two Gentleman.

Chi ama i primi Einstürzende Neubauten, o gli stessi Swans dei primordi, troverà qui materia di sicuro interesse. Ma anche chi volesse scoprire da dove viene quella mescolanza di metal ed industrial che imperverserà negli anni '90, e sulla quale capitalizzeranno (come al solito) altri nomi molto meno innovativi.

Comunque, si tratta appunto di un album classico, e non mi metterò a farne adesso una recensione nei dettagli. Trovo invece interessante sottolineare l'ottima qualità del secondo CD, che fotografa una band molto sicura di se' e assolutamente in grado di riprodurre dal vivo le proprie composizioni senza alcuna sbavatura di sorta. L'incedere marziale dei brani e l'orchestrazione di tastiere e campionamenti sembrano quasi uscire da un lavoro di studio, così come i grugniti e le urla del cantante, sempre frutto di un controllo preciso e non di uno sfogo giovanile. Il che è piuttosto sorprendente, visto che spesso il confronto tra i primi album delle band industrial e i loro live coevi offrono fratture anche molto marcate, qui del tutto inesistenti.

22 marzo 2013

Delta Machine, eccolo qua

Sono stato talmente deluso, ai tempi, dal penultimo Sounds Of the Universe (al quale avevo dedicato una recensione ai limiti del livore), che Delta Machine ero tentato di non ascoltarlo neppure, tanto più che i singoli Heaven e Soothe My Soul non mi avevano detto proprio nulla.

Poi è successo l'inevitabile: ho trovato inaspettatamente il CD in un negozio di Milano con una settimana d'anticipo rispetto alla data di uscita prevista, e mi sono dovuto arrendere all'impulso del vecchio fan che compra compulsivamente anche la merda di Martin Gore inbottigliata.

E ora eccolo qua, pure in edizione doppia. Ok, lo confesso, l'ho ascoltato diverse volte, e sono meno contrariato del previsto. Vero che partendo da aspettative bassissime si rischia l'effetto "meno peggio", ma qualcosa di buono in questo album c'è, e pur tenendo a mente che stiamo parlando forse del secondo meno bel disco di una band storica (SOTU resta per me il peggio del peggio), per lo meno devo riconoscere stavolta un certo impegno nell'evitare di scadere nel ridicolo.

Certo, vorrei sapere come è venuto in mente agli stessi Depeche Mode di dichiarare che questo potesse essere un album tra Violator e Songs of Faith and Devotion, visto che non ha nulla ne' del primo (che annoverava numerosi brani immortali) ne' del secondo (che pur con qualche scivolone compositivo qua e là, sfoggiava sonorità irripetibili).

Non c'è nulla di immortale ne' di irripetibile qui dentro. Anzi, sicuramente ci sono i soliti suoni di batteria bruttini che Ben Hillier sembra prediligere su ogni altra cosa. C'è però finalmente un po' di elettronica cupa e ben programmata, ci sono intrecci tra le voci di Gahan e Gore molto meglio arrangiati che nel passato recente, c'è una coerenza che finalmente concede all'album una personalità, cosa che dopo Exciter era data per dispersa.

Insomma, un ascolto molto gradevole, se non altro. Con meno brani indovinati rispetto a Playing the Angel, ma più equilibrato. Forse anche più mediocre, con alcune canzoni non imprenscindibili, ma senza cadute di stile inaccettabili. E magari col tempo salterà fuori anche qualche brano favorito.

PS: il secondo CD è deboluccio, ma vanta il primo brano scritto a 4 mani da Martin Gore e Dave Gahan. Interessante, considerata la "tensione" che serpeggia tra i due da circa un decennio.

20 marzo 2013

John Foxx And The Maths, Evidence

Terzo album in tre anni per John Foxx And The Maths, anche se questo sarebbe una raccolta di collaborazioni e versioni alternative più che un disco di studio. Ma non c'è scritto da nessuna parte e quindi può benissimo essere considerato un "capitolo 3", come forse nelle intenzioni del duo (Foxx e Benge) e come la coerenza interna del materiale pare dopotutto giustificare.

Lontani dallo stile aggressivo del primo album (ahimè, e speriamo prima o poi vi facciano ritorno...) qui si resta sui territori più riflessivi e atmosferici del secondo, ma in modo più convincente e senza troppi strumentali ad appesantire l'ascolto (cosa di cui mi lamentavo a suo tempo).

Il disco si apre in realtà proprio con uno strumentale, ma si tratta di un bel brano caratterizzato da suoni interessanti ed energici, che fa da perfetta intro per la seconda traccia Evidence, collaborazione con i Soft Moon, originariamente edita come singolo. Ed è un grande recupero: cucita su riff di basso potenti e synth muscolari, è una canzone senza tempo, con un testo che gioca su un eterno tema da film poliziesco, e un ritornello da brivido in cui la voce di Foxx riporta alla mente quei trentacinque anni di tradizione elettronica di cui è uno dei padri fondatori.

Altri punti di forza del disco sono la splendida versione di Talk (Beneath Your Dreams) con la partecipazione di Matthew Dear, già apparsa come bonus del precedente album, e i due brani con Gazelle Twin, in particolare l'eterea versione di A Falling Star in cui la voce della cantante di Brighton si inserisce superbamente nel mood retrò del brano.
Ma convincono anche gli episodi che non nascono da collaborazioni, vedi ad esempio Walk, un classico brano distopico alla John Foxx, che non avrebbe sfigurato nei primi album degli anni '80.
Una menzione per la straniante versione di Have A Cigar dei Pink Floyd, un brano meno riuscito ma molto interessante, in cui il famoso testo anti industria discografica risplende di una nuova luce alienante grazie alla magistrale interpretazione dell'ormai sessantacinquenne eroe dell'elettronica.

Speriamo soltanto che nelle prossime uscite Foxx non si lasci prendere troppo la mano dalla sua recente tendenza all'iper produttività, una vena che in alcune sue opere soliste recenti ha spesso penalizzato la qualità per favorire la quantità.

15 marzo 2013

Lady From Shanghai, i Pere Ubu alla riscossa?

Lady From Shangai è il quindicesimo disco di studio dei Pere Ubu, l'ultimo arrivato in una sequenza di opere che sono state spesso disturbanti, a volte caotiche, regolarmente contestate, e sempre contraddistinte dalla caratteristica irrequietezza che ha costretto la band di David Thomas a non ripetersi mai, neppure nella formazione, che infatti muta di album in album da 35 anni.

In particolare, quattro anni sono trascorsi da Long Live Père Ubu, disco atipico che nasceva da uno spettacolo teatrale e rimane incollocabile (anche per la presenza della voce di Sarah Jane Morris), e sei dal precedente canonico album di studio Why I Hate Women, un disco non perfetto ma come sempre discusso secondo quello che a mio modo di vedere è un equivoco e anche un paradosso.

Ossia, l'eterno confronto dell'opera di una band col suo primo album o più in generale con il suo primo periodo. Che è sempre, per definizione, il migliore. Il che è spesso anche sacrosantemente vero. Ma se c'è una band che va valutata in modo atemporale, liberandosi dalla storia delle uscite, quella band sono i Pere Ubu. Il cui secondo album era già talmente diverso dal primo che avrebbe potuto essere stato prodotto 30 anni dopo, o anche 30 anni prima.

The Modern Dance fu d'altronde incredibilmente innovativo e "alieno", e in qualche modo lo resta tuttora, tanto che la stessa band non ha mai tentato di riprodurlo in alcun modo. In questo senso, e ribaltando il discorso appena fatto (adoro contraddirmi), Lady From Shangai mi incuriosiva molto proprio perchè annunciato come "l'album dance dei Pere Ubu". Uno statement che ovviamente era il solito scherzo di David Thomas e non andava preso alla lettera, ma nella parola "dance" non potevo non sentire un richiamo a quel primo disco. All'ascolto, non c'è invece alcun rimando evidente, se non quella confusione rumorista che è anche marchio di fabbrica, e l'abbondanza di ritmi che si potrebbero in qualche modo definire "ballabili", se per ballabile si intende che ci si può dimenare in modo sconnesso. All'interno dell'album d'altronde campeggia la scritta "Smash the hegemony of dance. Stand still."

In questo caso abbiamo di fronte un disco nervoso, ma anche malinconico (Mandy, Musicians Are Scum), con accelerazioni e bruschi rallentamenti nei brani più rumoristici. Il collettivo di 7 elementi consente di pennellare quadri di ampio respiro, con frequenti squarci di synth o di clarinetto nel mezzo di composizioni altrimenti pesantemente basate su sequenze tribali di basso e batteria e sulla caratteristica voce di Thomas. Nel complesso però non è un capolavoro, e a tratti sembra trascinarsi senza troppo mordente. Dopo qualche ascolto ho deciso che preferivo il precedente. Ma è nel complesso un album ancora godibile, soprattutto se si evita di dannarsi per gli antichi fasti perduti. Prendetelo per quello che è: l'opera di un collettivo anarcoide che non si arrende di fronte al tempo.

14 marzo 2013

E allora parliamo di The Next Day

Se ne è parlato e se ne parlerà talmente tanto che non mi era parso il caso di buttare giù le mie impressioni dopo il primo ascolto. Adesso, dopo qualche giorno e un po' di giri nel lettore, mi pare di avere qualcosa in più da dire. Mi perdonerete dunque se aggiungo la mia voce a quella dei migliaia di recensori del nuovo album di Bowie.

The Next Day ha avuto ottima stampa, con critiche generalmente positive se non entiusiastiche, ed è il primo disco di Bowie a raggiungere alte posizioni in classifica da vent'anni a questa parte (per quanto i numeri assoluti delle vendite siano ormai decisamente bassi e tendano dunque a premiare i ritorni delle "vecchie glorie" che si avvantaggiano di un pubblico più attempato, più affezionato ai formati "fisici" come vinile e CD, e forse anche meno incline allo scaricamento selvaggio).

L'album è certamente bello, e la media pesata delle valutazioni che ho visto in giro potrebbe far supporre sia eccellente. Per quanto riguarda l'aspetto esecutivo e gli arrangiamenti, c'è poco da dire: siamo di fronte ad un'opera di altissima caratura. Bowie si avvale come al solito di musicisti d'eccezione (tra cui spiccano David Torn, Gail Ann Dorsey, Gerry Leonard, Tony Levin) e del vecchio compare Tony Visconti, che ha garantito una produzione molto accurata e soprattutto nel rispetto di una tradizione consolidata e riconoscibile.

Soprattutto sono colpito però dall'ottimo livello dei testi, che mi sembrano il vero "ritorno al passato" - un concetto sul quale si è giocato con la copertina e con la scelta del primo singolo, con tanto di richiami decadenti alla Berlino che fu. In quest'album Bowie gioca con temi complessi, dosando il mestiere con una certa dose di sincero bisogno espressivo. Qua e là tocca una profondità raramente avvertita negli album successivi alla famosa trilogia berlinese, e la totale assenza di cover fa sì che per la prima volta da moltissimo tempo Bowie si sia davvero concentrare sulle liriche (14 testi nuovi in un solo album è il record del Duca nella sua intera carriera).

E fin qui, tutto bene. L'unica cosa su cui mi trovo un po' in difficoltà è l'aspetto strettamente musicale, e nello specifico la presenza di alcuni brani che per eccesso di leggerezza trascinano verso il basso il mio giudizio complessivo. Una questione di coerenza interna più che di qualità dei singoli brani, ci tengo a sottolinearlo perchè è davvero difficile trovare qualcosa di mal fatto in questo disco. Ma è come se Bowie avesse voluto ficcarci un po' troppo, troppe vecchie incarnazioni che riaffiorano, e se la cifra del disco è un rock maturo venato di inquietudini, allora alcune canzoni ci stanno un po' strette. Un peccato, perchè fino alla quinta traccia inclusa l'album scorre via perfettamente, salvo poi incappare nell'attacco di Valentine's Day, che mi fa domandare se per caso non sono cascato in un altro disco per errore.

Comunque, se volete una valutazione sintetica, si tratta di una prova diverse spanne sopra album come Heathen e Reality, vicino forse a Scary Monsters più che ad ogni altro album precedente, ma con puntatine che strizzano l'occhio a diverse fasi della carriera di Mr Bowie.


E allora, anche se lo faccio di rado (ma questo è il classico caso per cui fare eccezione), eccovi di seguito due-righe-due su ogni canzone.

The Next Day - L'apertura rock con chitarre in evidenza e groove tirato. Il testo parla di un "antico tiranno assassinato dalla folla" (dichiarazione di Visconti) ma ha richiami più complessi e pare parlare di mille altre cose. Contiene numerosi rimandi al passato: chitarre alla Heroes, un'isteria alla Diamond Dogs... e richiami di melodie che vi lascio ricercare.

Dirty Boys - Dal rock alla scuola d'arte, con spruzzate funky. Un ritornello che sembra preso da un'altra canzone, frammenti no-wave, un pastiche che sta miracolosamente insieme e forse uno dei momenti più riusciti del disco.

The Stars (Are Out Tonight) - Il singolo che gioca con il concetto di fama (ancora) e di paranoia (ancora). La voce drammatica e appassionata è quella di sempre, gli archi di Visconti anche, una goduria.

Love Is Lost - Un grandissimo brano, il mio preferito, con un testo inquietante e dalle infinite possibili interpretazioni, per quanto apparentemente semplice ("you've cut out your soul and the face of thought"). La musica cresce all'infinito senza risoluzione, una prova in quartetto (Bowie, Leonard, Ann Dorsey e Alford) che vorrei proprio ascoltare dal vivo.

Where Are We Now? - Il singolo che tutti abbiamo accolto come il melanconico canto di Bowie al proprio passato, presagendo un album riflessivo e compassato (quale migliore inganno?). Spezza il ritmo di un album serrato e lo fa nel momento giusto. Splendida, ad ogni ascolto si apprezza di più.

Valentine's Day - Il primo brano con ritornello gaio e coretti sguaiati, che si possono apprezzare o meno. Ma comunque, un esempio d'altissima scuola di pop sixties, potrebbe venire diritta diritta da Absolute Beginners. Il testo, ancora una volta, parla di qualcosa di diverso da ciò che appare.

If You Can See Me - Ancora pop ma di tutt'altro genere: qui ci si sposta su territori tra 1.Outside (per la voce e l'atmosfera) ed Earthling (per il ritmo quasi jungle). Un concentrato di paranoia ma l'arrangiamento non traborda mai nell'eccesso, un senso della misura che è caratteristico di tutta l'opera.

I'd Rather Be High - Un brano di impossibile classificazione, anche se si sentono richiami al pop psichedelico d'altri tempi. Il ritornello fa presa subito, il testo gioca tra le memorie di un veterano e le inquietudini del genere umano in generale.

Boss of Me - Un mid-tempo con fiati, un testo d'amore (Who'd have ever dreamed / That a small town girl like you / Would be the boss of me), ingredienti che in mano a Bowie ed alla sua voce diventano una canzone fuori dal tempo.

Dancing Out in Space - Un campo da gioco per Leonard e Torn, che stratificano le loro chitarre su un tempo ballabile e schizoide, con un testo "spaziale" e un pizzico di ironia. Tra i brani di cui potevo fare a meno, sempre con rispetto parlando.

How Does the Grass Grow? - Con un testo ispirato ad una sorta di cantilena recitata dai soldati della seconda guerra mondiale mentre si esercitavano infilzando pupazzi con le baionette, un altro brano con molti elementi musicali differenti mescolati in modo quasi impossibile.

(You Will) Set the World On Fire - Riff di chitarra in primo piano, ritmica accattivante, ritornello che in altri tempi avrebbe fatto sfracelli, arrangiamento di archi alla T.Rex, l'ultimo assalto adrenalinico dell'album. Forse la migliore tra le canzoni più pop del disco.

You Feel So Lonely You Could Die - Se qualcuno pensava che Bowie non avesse più la magia di canzoni come Wild is the Wind, eccolo servito. Quello che Bring Me The Disco King prometteva, questo pezzo lo mantiene dalla prima all'utima nota.

Heat - Il brano precedente avrebbe potuto essere un degno finale, ma questo lo supera e aggiunge pathos a pathos, tristezza a stratificazioni di tristezza, e gioca ancora una volta tra il Bowie persona e i cento Bowie personaggi della commedia dell'Arte. "And I tell myself I don’t who I am", cantano tutti assieme Ziggy, Aladdin Sane, il Duca Bianco e tutti gli altri, con una chitarra acustica e un muro di rumorismi sullo sfondo. Magistrale.

10 marzo 2013

Wire: Change Becomes Us

Potrebbe sembrare un'operazione un po' triste e il segno di una raggiunta stanchezza compositiva: il recupero di brani inediti risalenti al proprio primissimo periodo (che per gli Wire significa fine anni '70), mai incisi in studio ma ripescati da vecchi nastri e riproposti oggi in nuove registrazioni.

Questo è quanto propone il nuovo album dei Wire, e temevo in effetti di trovarmi ad ascoltare una fotocopia sbiadita dell'originale, come spesso accade quando una band di vecchie glorie si cimenta col vecchio repertorio.

E invece. Invece il terzetto di superstiti della formazione che aveva dato vita ormai dieci anni fa all'acclamato album del ritorno Send (il cantante Colin Newman, il bassista Graham Lewis e il batterista Robert Grey), affiancati dal chitarrista Matthew Simms (che sostituisce il dimissionario Bruce Gilbert) si riappropria di quei bozzetti e li rielabora in maniera vitale e niente affatto auto-celebrativa, dando vita ad un disco che riflette, certamente, la storia del gruppo, ma si inserisce anche perfettamente nella sequenza di uscite recenti, diventando forse anche una pietra angolare per la prossima produzione.

Il confronto con alcune versioni di queste stesse canzoni, rintracciabili nel live Document And Eyewitness dell'81 (attenzione: i titoli dei brani non corrispondono a quelli usati adesso...) renderà chiaro quanto quelle composizioni siano state utilizzate solo come base di partenza per un'altra cosa, ossia un album vivo e vegeto che non puzza di muffa nemmeno un po'.
Non è forse il più bel disco della band, ma questo è un altro discorso. Per la prima volta è la durata, che rasenta l'ora per 14 tracce, a penalizzare un po' l'opera: l'esclusione di qualche brano a favore della sintesi avrebbe forse aiutato il risultato finale a passare da buono ad eccellente.

9 marzo 2013

The Sound, Durutti Column, JAMC... ristampe dalla 1972

Si chiama 1972 (un nome piuttosto enigmatico), è una etichetta californiana (sconosciutissima), ma si sta dando da un paio d'anni ad una serie di ristampe molto interessanti di band (soprattutto anglosassoni) degli anni '80 (e un po' di '90).

Profluvio di parentesi a parte (mai usarne troppe, mi insegnarono i miei maestri), mi sembra utile in particolare segnalare che dopo i primi due album dei Sound, ristampati l'anno scorso, tocca adesso al terzo album All Fall Down - stavolta in edizione cartonata, sempre senza bonus.

Contemporaneamente escono le ristampe dei primi due bellissimi dischi di Vini Reilly alias Durutti Column: Return of the Durutti Column ed LC. Il primo era introvabile da un po', del secondo potreste apprezzare l'edizione fedele all'originale e preferirla a quella in due CD ancora reperibile in giro.

Nuove edizioni anche per Barbed Wire Kisses (B-sides And More) e Sound of Speed dei Jesus And Mary Chain, dei quali la stessa etichetta aveva già ristampato altri titoli.

Una lista (incompleta?) delle ristampe della 1972 (che comprendono anche Aphex Twin, Television Personalities, Echo & the Bunnimen, Stereolab ed altri) la trovate qui.

La scelta dei titoli può sembrare un po' caotica (qualche album davvero irreperibile, qualcosa che invece si può ancora trovare nelle edizioni di qualche anno prima...) ma chissà che non vengano fuori altre belle sorprese (tanto per dirne una: ma nessuno pensa mai ad una ristampa degli Wah! di Pete Wiley?)


28 febbraio 2013

Crime & The City Solution: Goddess

Del nuovo album dei Crime & The City Solution, in uscita nel mese di marzo, vi avevo già parlato qualche mese fa, vi rimando dunque a quell'articolo per informazioni in merito. La notizia di questi giorni è invece la presentazione del video per Goddess, primo singolo estratto dall'album.

 

Non si può non avvertire la presenza di David Eugene Edwards in questa nuova formazione... e tanto di cappello per la performance di Simon Bonney.

26 febbraio 2013

David Bowie, secondo singolo dal nuovo album


The Stars (Are Out Tonight) è il secondo singolo tratto dall'album The Next Day che vedrà la luce nel mese di marzo. Qui sopra il video, diretto da Floria Sigismondi, con Tilda Swinton nei panni della compagna di Bowie. Enjoy.

24 febbraio 2013

Bad Seeds, disco numero quindici in trent'anni

Sono trascorsi 30 anni dalla fondazione dei Bad Seeds, e tantissime cose sono cambiate. Tanto per dire la principale, i fondatori e membri eccellenti Blixa Bargeld e Mick Harvey hanno entrambi abbandonato la barca. Della formazione di From Her To Eternity resta ormai il solo Cave. E anche lui è passato attraverso varie mutazioni.

Sono trascorsi anche 10 anni dallo sfrotunato Nocturama, un esperimento di scrittura e registrazione di getto in studio, da tutti considerato un passo falso ed il peggior album della formazione. Anche da allora sono cambiate diverse cose. I Bad Seeds hanno dato alla luce l'anno successivo il variegato e sovrabbondante doppio Abattoir Blues/The Lyre of Orpheus, molto più all'altezza della band, poi è nato il progetto Grinderman che ha dato voce ad un aspetto viscerale, quasi furioso del vecchio Nick Cave (dai Birthday Party ai primi Bad Seeds) che giaceva dormiente da molti anni, e lo stesso album Dig, Lazarus, Dig!!! dei Bad Seeds del 2008 era su una linea simile.

Una scarica di energia ed adrenalina che però non poteva andare avanti all'infinito, pena una certa stagnazione da fine carriera, che certamente Cave è troppo lucido per consentirsi.

Non sorprende dunque che Push The Sky Away sia per contrasto un disco dai toni sommessi, caratterizzato da arrangiamenti spesso ultra-minimali, che vede un Nick Cave meno sornione e più serio, quasi al punto da fare poco se' stesso e limitarsi spesso a cantare i propri testi come se li raccontasse a un pubblico di pochi amici seduti attorno al camino.

L'album è ben scritto, ben suonato e rappresenta una tappa interessante nella lunghissima carriera di Cave e dei musicisti che lo accompagnano (qui Warren Ellis, violino, mandolino, viola, chitarra e una quantità di altri strumenti, Thomas Wydler, batteria, Jim Sclavunos, percussioni, Martyn P. Casey, basso, Conway Savage, voci, mentre di piano e organo si occupa stavolta lo stesso Cave). In qualche modo però non riesce a recuperare la magia che c'era in altre raccolte, sebbene sia probabilmente superiore ad esempio a The Boatman's Call, un altro disco dai toni pacati ma nell'insieme più accattivante nelle melodie e nell'atmosfera.

È vero anche che questa è un'opera della tarda maturità, e un disco che tanti se lo sognano (Water's Edge, Jubilee Street e la conclusiva title track sono materiale d'eccellenza, su cui qualcuno costruirebbe una intera carriera), ma per ora non mi ha fatto fare salti sulla sedia. Sarà anche che nel confronto con lo splendido Sketches From The Book Of The Dead dell'ex compagno Mick Harvey, un album costruito su toni e sonorità molto simili, quest'ultimo mi pare vincere ai punti.

PS: una nota per la copertina. Dalla prima volta che l'ho vista in rete, mesi fa, l'ho odiata. Potenzialmente è una bella foto: Cave apre la finestra e fa entrare la luce che investe il corpo della moglie. Però, quello che ci vedo io (e che ci vedono in tanti) è un uomo vestito da capo a piedi che osserva con sguardo truce (e pare fare un gesto come a cacciare via) il corpo nudo di una donna che pare essere in lacrime e sembra emanare un senso di umiliazione e di vergogna. Non vedo perchè una foto che suggerisce un'idea simile non sia stata sostituita con un'altra meglio costruita - a meno che il senso non volesse essere proprio questo. Spero di no.

16 febbraio 2013

Sotto casa c'è il bel disco di Gazzè

Di Sanremo non ce ne frega notoriamente nulla, ma qualche anno capita anche che l'esibizione di un cantante in gara coincida con l'uscita di un bel disco.

Gazzè è all'ottava prova di studio, lo seguo dal primo album, e speravo che dopo alcuni tentennamenti visti nel precedente Quindi? riproponesse quel mix di sperimentazione, rock e gusto originale per l'arrangiamento che avevano benedetto Tra L'aratro E La Radio.

Invece Max mi ha spiazzato e ha tirato fuori un disco che suona forse meno originale di alcuni altri suoi, ma molto maturo, profondo, bello, solido come una roccia e resistente a numerosi ascolti ripetuti.

Dieci tracce per meno di 40 minuti, Sotto Casa è un disco che lascia poco spazio a frizzi e lazzi (che furono comunque di eccelsa qualità in alcuni vecchi brani di Gazzè), concede pochissimo alla "leggerezza" e punta su una materia nostalgica, a tratti amara, non seriosa ma spesso molto seria. C'è un'atmosfera adulta, anche dove si parla di argomenti triti come gli amori finiti o banali come le discussioni di coppia. E i testi, sempre brillanti, offrono stavolta in minore percentuale gli abituali raffinati giochi funambolici - che pure affiorano qua e là - ma scavano spesso in maggiore profondità, laddove non si spingono adddirittura verso una spiritualità che finora pareva esclusa dal repertorio Gazzè (il quale, ricordo, scrive quasi tutti i brani con il fratello Francesco).

Musicalmente la qualità è altissima, nelle scelte armoniche mai scontate, negli arrangiamenti curati all'inverosimile, ma anche nei fraseggi di basso che sporgono dalle trame ritmiche e nell'uso del moog e degli archi - che per una volta non sembrano una roba spalmata lì perchè con Sanremo ci stanno bene.

E poi lasciatemelo dire: in un momento in cui non riesco ad ascoltare quasi nulla, questo disco è stato una carezza di cui avevo disperatamente bisogno. E dunque, grazie, Max.

1 febbraio 2013

Depeche Mode, nuovo singolo, la discussione impazza


Sono stati due giorni di delirio su facebook e gli altri social network: un impazzare di link che avrebbero dovuto puntare al nuovo singolo dei Depeche Mode, Heaven, ma che a cliccarci si rivelavano immancabilmente dei fake o video già rimossi da YouTube o dallo stesso utente.

Poi è apparso da qualche parte un link che se,brava quello giusto, e giù tutti a commentare, con divisione quasi calcistica in due opposte tifoserie: chi si sperticava in commenti entusiastici, chi si ritirava disgustato. Io non mi pronuncio, il video è qui sopra, fate un po' voi. Mi colpisce però la modalità di questo fenomeno, mi riporta indietro di molti anni, quando si attendeva una nuova uscita con una sorta di trepidazione oramai rarissima, che pare riemergere solo per pochi grandi nomi come questo.

Il singolo Heaven viene pubblicato ufficialmente oggi, in due versioni. L'album Delta Machine, prodotto da Ben Hillier (che si è già occupato dei due precedenti) e mixato dal mitico Flood, giungerà nei negozi il 26 marzo, anch'esso in due versioni. Qui sotto le tracklist e le copertine, il cui artwork ha a sua volta scatenato discussioni animate tra approvazioni e stroncature.


“Heaven” CD single
1. “Heaven”
2. “All That’s Mine” (b side bonus track)

“Heaven” maxi single
1. “Heaven”
2. “Heaven” (Owlle Remix)
3. “Heaven” (steps to heaven rmx)
4. “Heaven” (Blawan Remix)
5. “Heaven” (Mathew Dear vs Audion Remix)


Depeche Mode, Delta Machine
1. “Welcome to My World”
2. “Angel”
3. “Heaven”
4. “Secret to the End”
5. “My Little Universe”
6. “Slow”
7. “Broken”
8. “The Child Inside”
9. “Soft Touch/Raw Nerve”
10. “Should Be Higher”
11. “Alone”
12. “Soothe My Soul”
13. “Goodbye”

Bonus disc:
1. “Long Time Lie”
2. “Happens All the Time”
3. “Always”
4. “All That’s Mine”



27 gennaio 2013

Voivod: Target Earth

Usciti da una sorta di lunga elaborazione del lutto (il chitarrista Denis "Piggy" D'amour è morto nell'ormai lontano 2005), durante la quale hanno pubblicato due album basati sulle registrazioni lasciate dallo stesso Piggy, i canadesi Voivod hanno alla fine trovato forze e slancio per una nuova rinascita.

Rientrato il bassista storico Jean-Yves "Blacky" Theriault, assorbito come membro stabile il chitarrista Daniel "Chewy" Mongrain, il quartetto (che si completa con il batterista Michel "Away" Langevin, unico stabile in formazione dalla fondazione della band, e il cantante Denis "Snake" Belanger) ha appena rilasciato, dopo una serie di tour, il primo album di inediti dopo 4 anni dal precedente Infini.

Target Earth per molti suonerà come un grande ritorno, soprattutto per coloro i quali non avevano apprezzato la produzione recente, pregevole ma molto semplificata nelle strutture e lontana da quel misto di trash, prog e psichedelia che era stato il marchio di fabbrica del gruppo negli anni '80 e nei primi '90.

L'album ritorna invece a stile e sonorità che non si ritrovavano nella loro produzione da The Outer Limits, e sprigiona potenza, inventiva e passione da tutti i pori. La sezione ritmica è spaventosa. Away ci ha abituati in tutti gli album al suo drumming preciso, solido e musicale, ma qui è soprattutto evidente il grandissimo lavoro di Blacky, le cui linee di basso possenti, intricate e aggressive sono onnipresenti e altissime nel mix, senza mai stancare e senza suonare sbruffone. La cosa impressionante è la resa del bassista dal vivo: nella serata al Bloom di Mezzago qualche mese fa mi è apparso come una macchina instancabile e precisa. Snake offre una prova eccellente e nonostante siano passati trent'anni dagli inizi la sua voce suona ancora come quella di un giovane punk inferocito, un vero marchio di fabbrica. Ma ancora più sorprendente è il lavoro di Chewy, che è riuscito in un'impresa impossibile: prendere il posto di Piggy, assorbirne in parte lo stile originalissimo, e in parte metterci un po' del suo, con risultati davvero al livello dello stesso predecessore. Evitare sia di clonarlo, sia di deludere i fan con uno stile troppo diverso, non era impresa che potesse riuscire a molti. Le linee di chitarra sono sempre angolari, psicotiche quanto si addice ad un album dei Voivod, piene di sorprese, e la scelta dell'effettistica non lascia mai delusi.

In un disco del genere è difficile individuare uno o anche più brani migliori degli altri: mi viene da citare quello più sfacciatamente prog, Mechanical Mind (ma forse dipende dal fatto che è quello diffuso prima dell'album e quindi più assimilato) oppure le cattivissime Kluskap O’Kom e Corps Étranger, o ancora la stessa title track, ma ogni pezzo del disco è una vera delizia per gli amanti del metal. Accendete i motori e godetevelo nel viaggio verso il pianeta al quale evidentemente i nostri desiderano ancora approdare, nonostante tutto.

01.  Target Earth   6:04
02.  Kluskap O'Kom   4:24
03.  Empathy for the Enemy   5:46
04.  Mechanical Mind   7:35
05.  Warchaic   7:01
06.  Resistance   6:45
07.  Kaleidos   6:27
08.  Corps Étranger   4:35
09.  Artefact  6:26
10.  Defiance   1:32

12 gennaio 2013

Le cover del nuovo Bowie: Barnbrook, Momus

1. La copertina (Barnbrook)

La cover del nuovo disco di David Bowie, annunciato nel giorno del suo 66° compleanno dopo 10 anni di silenzio discografico, ha suscitato reazioni contrastanti.

La copertina riprende pari pari quella di Heroes, con il vecchio titolo barrato da una riga nera ed un grande quadrato bianco a coprire il volto di Bowie. Il titolo The Next Day è stampato in nero, con un font alquanto anonimo, al centro del quadrato.

Cosa significa questa cover? Lo si può individuare in qualcosa che ha a che fare con lo scorrere del tempo e con l'immagine dell'artista, ma a prescindere da questo, è una cover bella oppure la pretesa di renderla  significante ha prodotto un oggetto esteticamente brutto?

Non ho risposte mie a questi interrogativi, ma ho trovato molto interessanti le risposte che l'autore del concept, Barnbrook, ha fornito sul proprio blog alle domande maggiormente ricorrenti in rete.

"Normalmente, usare un'immagine dal passato significa riciclaggio oppure greatest hits ma qui volevamo riferirci al titolo The Next Day. La copertina di “Heroes” oscurata dal quadrato bianco è sullo spirito della grande musica pop o rock che è sempre ‘del momento’, dimenticando o rimuovendo il passato. In realtà, sappiamo tutti che questo non è quasi mai possibile, per quanto possiamo tentare, non riusciamo a liberarci del passato.  [...] la gente ti giudicherà sempre in relazione alla tua storia [...] L'oscuramento di una immagine dal passato è anche sulla condizione umana in generale; ci muoviamo incessantemente nelle nostre vite da un giorno a quello successivo, abbandonando il passato perchè non abbiamo altra scelta."

Più interessanti però le riflessioni sull'aspetto tecnico del lavoro di designer: "Abbiamo lavorato su centinaia di possibili realizzazioni usando il concetto dell'oscuramento di questa copertina, ma la più forte è risultata quella più semplice – doveva essere qualcosa che fosse in diretto contrasto con l'immagine sottostante ma che non apparisse troppo studiato (anche se sappiamo che tutto il design è studiato, questa è infatti l'essenza della parola ‘design’). Sarebbe stato più chiaro per molte persone se avessimo scarabocchiato su tutta la copertina ma questo non avrebbe avuto il distacco d'intenti necessario per esprimere la malinconia delle canzoni dell'album. Oscurare l'immagine di Bowie è anche un riferimento alla sua identità, non solo nel passato quando mutava continuamente, ma anche che è stato assente dalla scena musicale per gli ultimi dieci. È stato un atto per nascondere la sua identità o più semplicemente questa gli è diventata più congeniale?"

E più avanti: "Detto tutto ciò, si, lo sappiamo che è solo la copertina di un album con un quadrato bianco in mezzo, ma spesso nel design può essere necessario un lungo viaggio per arrivare a qualcosa di molto semplice che funzioni e la cui semplicità funzioni su molti diversi livelli - spesso le idee più semplicipossono essere le più radicali. Capiamo che molti avrebbero preferito una nuova bella foto di Bowie ma abbiamo ritenuto che questa sarebbe stata molto meno interessante e non avrebbe abbracciato molte delle cose che abbiamo tentato di discutere realizzando questo design."

2. La cover (Momus)

L'artista scozzese (ma attualmente residente a Osaka) Momus ha realizzato un'operazione piuttosto notevole a poche ore dall'annuncio dell'album di Bowie e della pubblicazione su YouTube del nuovo singolo Where Are We Now.

Particolarmente colpìto, per una serie di ragioni che vedremo più avanti, dalla notizia più che dalla nuova canzone in se', decide di realizzarne una versione molto meno mainstream ma ricca di riferimenti all'era berlinese di Bowie. Quello che più colpisce è il fatto che la pensa, la registra, realizza una copertina nel medesimo stile di quella di The Next Day (ossia prende una propria vecchia copertina, cancella il titolo e sovrappone un quadrato bianco al proprio volto), ne monta un video con spezzoni di materiale "trovato" (tra cui frammenti del film Il pianeta delle scimmie") e la pubblica nel giro di sole 9h30' dalla diffusione del brano originale.

Il video ha raccolto oltre 5000 visite solo nelle prime 24h (nel momento in cui scrivo ha superato le 22.500) ma soprattutto ha ricevuto ieri 11 gennaio l'onore di una citazione sul sito ufficiale di Bowie.

In un post sul proprio blog, Momus fornisce, in risposta ad alcune domande ricevute su YouTube, i tempi dell'operazione ed un numero impressionante di dettagli sulle tecniche e sugli strumenti utilizzati. Di seguito vi propongo un sunto composto di frammenti del post originale.

""
[...] la cover è stata realizzata quasi interamente con prodotti di Apple e Google, come tutta la mia musica ultimamente. Con l'uso di un MacBook Air, Garageband, Google Search, il browser Chrome e YouTube, ho messo assieme la canzone in otto ore. Bowie ha fatto una canzone bella e malinconica, perseguitata dai fantasmi dei ricordi, e la mia cover è ossessionata dai miei ricordi personali di Berlino e di una intera vita immersa nell'opera di Bowie. È anche perseguitata da una serie di campionamenti sonori che ho raccolto da video di YouTube usando Audio Hijack Pro. Questa è la cronostoria:

2pm - David Bowie posta il suo nuovo singolo su Vimeo a mezzanotte, ora di New York, ossia le 2pm in Giappone.

3.50pm - Avvisato da un amico su Facebook, ascolto il nuovo singolo di Bowie e guardo il video di Tony Oursler.

4.00pm - “Gesù,” posto su Facebook, “sono elettrizzato ed emozionato da tutto questo. E Berlino, che smuove tanti ricordi miei. E il suo volto, così bello e rugoso…”

[...]

4.45pm - Considero di ripostare il mio falso annuncio del Novembre 2012 che Bowie stessse per pubblicare un album intitolato Vivid Old Man: “Su un organo microtonale, ed un sottofondo di arpa e tamburi, ispirato al primo Penderecki, al Messiaen del periodo di mezzo ed al tardo Webern, Bowie canta avant-canti marinareschi nel ruolo del “vivid old man” del titolo”.

4.55pm Decido improvvisamente di incidere una versione cover della nuova canzone nello stile descritto dal post sul falso Vivid Old Man. Scarico il video da YouTube e inizio a trascrivere il testo.

5.00pm Inizio a registrare gli accordi della canzone su un click a 81 bpm con Garageband.

6.00pm Canto le parti vocali. Alla fine occupano sei tracce, alcune trasposte digitalmente ottave sopra e sotto la linea principale, per ricreare quell'evocativo effetto “Bewlay Brothers”.

6.25pm Ispirato dalla mia storia fasulla, (e siccome ho scoperto che Penderecki è una specie di fonte musicale universale), campiono l'avvio atmosferico del Concerto per violino e Orchestra (1974 / 1976) di Krzysztof Penderecki.

[...] [NdR c'è qui la descrizione dei campionamenti, di cui molti poi non usati, del remix di Heroes di Aphex Twin, di Life on Mars, We Are The Dead, Sweet Thing e After All dello stesso Bowie, di Floating Music di Stomu Yamashta]

9.30pm Costruisco una sezione alla fine della mia cover che finisce in It’s No Game: “Silhouettes and shadows watch the revolution…” Abbandono l'idea.

[...]

11.00pm Inizio il video, avviando iMovie. Usando KeepVid, scarico l'home movie di Roddy McDowall che mostra il makeup artist Don Cash che lo trasfroma, nel 1968, nel personaggio Cornelius di Planet of the Apes.

11.15pm Edito il film di Cornelius per adattarlo alla cover di Bowie. [...]

11.30pm Carico la mia cover di Bowie su YouTube e la linko dagli account di Facebook, Tumblr e Twitter. [..]
""
(Traduzioni, pessime, mie e non autorizzate. Stanno qua solo per invogliarvi a leggere gli articoli originali!)

8 gennaio 2013

Bowie, nuovo disco dopo 10 anni

È una notizia talmente grossa e inattesa che anche le testate giornalistiche generaliste l'hanno messa in home page stamattina: David Bowie ha annunciato l'uscita del suo nuovo album.

La data di uscita in Italia è nel prossimo marzo,  il titolo è The Next Day ed si tratta della prima raccolta di inediti del cantante britannico da Reality del 2003.

Produttore il fidato Tony Visconti, l'uomo che ha supervisionato diversi album di Bowie negli anni '70, inclusa la nota trilogia berlinese (Low, Heroes e Lodger) per poi tornare negli anni '00 a lavorare con il vecchio compare sui più recenti Heathen e Reality.

Apparentemente svanito nell'ultimo decennio, su Bowie si era detto di tutto: che fosse gravemente ammalato, che fosse depresso, che avesse deciso di ritirarsi spaventato dall'attacco di cuore che lo colpì durante il tour del 2003, che a 66 anni suonati fosse semplicemente stanco di essere il Bowie pubblico e avesse deciso di rinchiudersi nel Bowie privato, quello che pochissimi conoscono.

E ormai dopo 10 anni di silenzio (fatta salva qualche rara apparizione televisiva) si era persa ormai ogni speranza di un album di inediti. Come tanti altri fan in tutto il mondo, ho provato un certo brivido stamattina quando ho letto la notizia.

The Next Day sarà disponibile in due versioni, una "standard" da 14 tracce ed una "deluxe" da 17 tracce. L'uscita è preceduta dal singolo Where Are We Now? il cui video potete vedere qui sotto.



Tracklist:


1. “The Next Day”
2. “Dirty Boys”
3. “The Stars (Are Out Tonight)”
4. “Love Is Lost”
5. “Where Are We Now?”
6. “Valentine’s Day”
7. “If You Can See Me”
8. “I’d Rather Be High”
9. “Boss of Me”
10. “Dancing Out In Space”
11. “How Does the Grass Grow?”
12. “(You Will) Set the World On Fire”
13. “You Feel So Lonely You Could Die”
14. “Heat”
15. “So She” (Bonus Track)
16. “I’ll Take You There” (Bonus Track)
17. “Plan” (Bonus Track)

3 gennaio 2013

Hogre: Pankow in limited edition

È uscito a novembre, l'ho preso a dicembre, ve ne parlo a gennaio: Hogre è il nuovo EP dei fiorentini Pankow, pionieri dell'elettronica dai primi anni '80 e gruppo di grande culto soprattutto nell'Europa centro-settentrionale, che del loro genere se ne intende molto più che noi mediterranei.

L'ultimo album, l'eccellente Great Minds Against Themselves Conspire, risale al 2007. Da allora silenzio, se si eccettua la pubblicazione, a fine 2011, della raccolta Kunst Und Wahnsinn (meritoria ristampa di numerosi brani del periodo '88-91, precedentemente editi solo su EP o raccolte).

Hogre contiene 7 remix, di cui 2 provenienti da Great Minds (Deny Everything ed Extreme), 1 dall'EP God's Deneuve del lontano 1984 (Das Wodkachaos, presente qui in una versione devastante), altri 4 (Don't Follow in 2 diverse versioni, Crash & Burn e Radikal) da un album che sarebbe di prossima uscita.

Tutta roba buona, dai 10 minuti di serratissima techno della traccia di apertura alle sonorità d'atmosfera della traccia di chiusura. È in tiratura limitata di 666 copie, ad un prezzo ridicolo (si trova a poco più di 10 euro), e non vedo proprio perchè non dovreste comprarlo.

1. Don't Follow - hogremics - fm
2. Das Wodkachaos - bp rmx - binary park
3. Deny Everything - pne remix - plastic noise experience
4. Crash & Burn - memory lab remix - marc urselli
5. Extreme - remix by die-6/ismael martinez
6. Don't Follow - escorbuto remix - paolo favati
7. Radikal - nems-secam rmx - p·a·l