23 maggio 2013

False Idols, real Tricky?

False Idols è il nuovo album di Tricky, il nono della sua carriera, o il decimo se si conta anche la collaborazione con DJ Muggs + Grease del 1999. Dieci dischi son tanti, e azzardo allora un piccolo consuntivo.

La carriera del musicista di Bristol ha seguito una curva molto incostante, con picchi qualitativamente altissimi agli esordi (lo strabiliante Maxinquaye, l'inquietante Nearly God) e qualche punto molto basso nei primi del millennio (il traballante Blowback, l'atroce Vulnerable), per poi tornare almeno alla dignità negli ultimi anni: Knowle West Boy nel 2008 era stato un ritorno più che rispettabile.

Proprio con l'album del 2008 si era aperta una sorta di "nuovo corso", con ritmi più upbeat, produzione brillante, smussatura delle spigolature più "dark" e predominanza dell'elettronica sul trip hop, pur mantenendo una certa inquietudine di fondo. Solco nel quale si poneva, con risultati forse meno riusciti ma non disprezzabili, anche la prova del 2010 Mixed Race.

Ma evidentemente Tricky si è stufato ed ha pensato di tornare ad atmosfere più fumose ed oscure, che si ricongiungono alla prima parte della sua carriera, se non per qualità almeno per ispirazione. False Idols si avvale della collaborazione di Francesca Belmonte, la cui voce prende spesso il sopravvento su quella di Tricky, il quale si limita in molti brani a sussurrare su basi minimali e malinconiche, lasciando alla voce femminile la parte dominante.

Tirando le somme, si tratta di un disco pieno di classe, che scorre via piacevolmente, raffinato e in qualche caso riuscitamente ammaliante, ma non straordinario. Un episodio insomma apprezzabile, ma ancora lontano dai veri fasti del cantante di Bristol, ormai lontanissimi nel tempo.

22 maggio 2013

Mick Harvey, Four Acts of LOVE

Mick Harvey deve averci preso gusto, e ad "appena" due anni di distanza da Sketches From The Book Of The Dead torna con una nuova fatica discografica (si, l'ho scritto apposta, sa così tanto di antico giornalismo musicale italico).

Mentre l'album precedente non mi aveva esaltato (anche se era il tipico esempio di raccolta che si fa apprezzare sempre più col tempo), questo nuovo Four (Acts of Love) mi è piaciuto all'istante. Sarà l'insieme più orecchiabile, sarà la varietà musicale più ampia, sarà forse anche che su tratta di un gran bel disco suonato bene, appassionato e a tratti toccante.

Dopo il precedente album dedicato ai ritratti-omaggio di diversi amici trapassati, stavolta Harvey ha concepito una sorta di concept dedicato all'amore romantico ed alle sue diverse sfaccettature. Collegati tra loro in un ciclo ideale in tre fasi, si mescolano 10 brani nuovi, di cui uno scritto da PJ Harvey (Glorious), e a 4 cover: The Story of Love dei Saints, The Way Young Lovers Do di Van Morrison, Summertime in New York degli Exuma e Wild Hearts (Run Out of Time) di Roy Orbison.

Forse la vetta artistica di un musicista che sembra aver trovato una nuova giovinezza dopo essersi affrancato dall'ombra del vecchio sodale Nick Cave.

Act 1 – SUMMERTIME IN NEW YORK
1. Praise the Earth (Wheels of Amber and Gold)
2. Glorious
3. Midnight on the Ramparts
4. Summertime in New York
5. Where There’s Smoke (before)
Act 2 – THE STORY OF LOVE
6. God Made the Hammer
7. I Wish That I Were Stone
8. The Way Young Lovers Do
9. A Drop, An Ocean
10. The Story of Love
Act 3 – WILD HEARTS RUN OUT OF TIME
11. Where There’s Smoke (after)
12. Wild Hearts
13. Fairy Dust
14. Praise the Earth (An Ephemeral Play)

20 maggio 2013

Karl Hyde, Edgeland

Amo davvero il suono della voce di Karl Hyde, sin dai tempi della scoperta dei fantastici Freur a fine anni '80 (si, con un certo ritardo, grazie Luke!). Con la gioia accessoria di una seconda ri-scoperta, quando rimasi invischiato negli Underworld della seconda metà degli anni '90, solo per scoprire che c'era la stessa persona dietro quell'affascinante macchina da sogni ballardiani elettronici, che ha disegnato il paesaggio sonoro di fine millennio.

Mi spiace dunque ammettere che, nonostante mi ci sia messo d'impegno, non sono riuscito ad apprezzare troppo la sua prima opera solista.

Edgeland è sostanzialmente un album di canzoni, senza troppi rimandi allo "stile Underworld": Hyde ha voluto un album da cantante, anzi come diremmo in Italia, da "cantautore". Voce in primo piano, dunque, musica nata in solitudine probabilmente con un'acustica o al piano, poi infilata successivamente in strutture che in maggioranza si piegano al testo, e vestita di sonorità che seppure curate maniacalmente non diventano mai protagoniste della scena, ma restano sempre funzionali al brano.

Tutto questo è perfettamente sensato e coincide esattamente con quanto mi attendevo. Il problema sta nel fatto che l'album scorre via troppo lento, con soluzioni molto ripetitive, ed offre solo una manciata di attimi davvero memorabili. Mi pare che il classico flusso di coscienza alla Hyde non si adatti troppo ad una raccolta di canzoni, oppure che il cantante semplicemente non sia riuscito a scrivere un numero sufficiente di canzoni degne di nota. Ed è una occasione sciupata, perchè c'è classe da vendere, e forse una più accorta scelta delle strutture avrebbe giovato. Bellissima ad esempio l'apertura col primo brano The Night Slips Us Smiling Underneath It’s Dress, dove l'amalgama sonoro e il suono della voce rasentano la perfezione, ma per il sussulto successivo si deve attendere quasi in chiusura Shadow Boy, che offre uno sviluppo dinamico in crescendo e finalmente strappa un sorriso di approvazione.

Forse il desiderio di suonare sufficientemente pop, o quello di non suonarlo troppo, hanno nuociuto all'equilibrio dell'album. Stranamente, uno dei brani che mi hanno colpito in modo più favorevole è incluso solo nell'edizione deluxe: Dancing On The Graves Of Le Corbusier’s Dreams smuove un po' le acque e restituisce vitalità ad un album altrimenti davvero troppo statico.

Non ho visto il film sul DVD dell'edizione Deluxe; ma conoscendo le precedenti opere visuali di cui si è occupato Hyde, potrebbe essere più interessante dell'album. 

CD
01. The Night Slips Us Smiling Underneath It’s Dress
02. Your Perfume Was The Best Thing
03. Angel Cafe
04. Cut Clouds
05. The Boy With The Jigsaw Puzzle Fingers
06. Slummin’ It For The Weekend
07. Shoulda Been A Painter
08. Shadow Boy
09. Sleepless
10. Dancing On The Graves Of Le Corbusier’s Dreams (Deluxe Edition Bonus Track)   
11. Final Ray Of The Sun (Deluxe Edition Bonus Track)
12. Out Of Darkness (Japan Only Deluxe Edition Bonus Track)
13. Cascading Light (Japan Only Deluxe Edition Bonus Track)
14. Slummin’ It For The Weekend (Deluxe Edition Bonus Version Mixed By Brian Eno)
15. Cut Clouds (Figures Remix) (Deluxe Edition Bonus Track)
   
DVD (Deluxe Edition)
The Outer Edges (Edgeland Version) (A Keran Evens Film)

7 maggio 2013

Iggy and the Stooges are ready to die (?)

"Iggy and the Stooges" è un marchio di fabbrica che non appariva sulla copertina di un album dal 1973, quando Iggy Pop riformò gli Stooges (sciolti 3 anni prima), con l'aggiunta del chitarrista James Williamson e la complicità di David Bowie (in veste di produttore) e si ributtò in pista con quello che sarebbe diventato un grandissmo classico: Raw Power.

Sono passati 40 anni, e nel mezzo ci sono stati un disco a nome Williamson-Pop nel 1977, ben 16 album solisti dell'Iguana, e uno soltanto a nome Stooges, nel 2007 (con Ron Ashton alla chitarra e Mike Watt al basso), poco apprezzato sia dal pubblico che dalla critica, unanimi nel considerarlo piuttosto deboluccio.

La scelta di rispolverare la denominazione "Iggy and the Stooges" per il nuovo Ready To Die è probabilmente da far risalire al rientro di Williamson alla chitarra dopo la recente scomparsa di Ron Ashton, e il nuovo album sembra saltare a piè pari quanto fatto con lo sfortunato The Weirdness e si pone come vero seguito del disco del '73.

Ci riesce? Beh, inutile nascondersi che non può riuscirci, per ragioni storiche (ciò che era innovativo 40 anni fa, oggi può al massimo suonare come una buona copia), anagrafiche (Iggy ha 66 anni!) e anche per il senso del tutto diverso che ha oggi pubblicare un album, rispetto a quello che aveva allora (i dischi ce li si beveva dal primo all'ultimo solco centinaia di volte, oggi la norma è un paio di ascolti distratti).

Ma questa volta il tentativo è almeno credibile. La traccia di apertura Burn fa quasi il miracolo (e non per niente è stata messa lì). La tensione si tiene abbastanza alta, le due tracce lente fanno la loro porca figura, la durata contenuta (10 brani in 35 minuti) aiuta l'effetto endovena. Soprattutto, una cosa è certa: Williamson fa un lavoro egregio, e dimostra di essere sempre stato il chitarrista giusto per Iggy (riascoltare Kill City per credere). Anche l'apporto al sax di Steve Mackay non è secondario, e a tratti dà senso a brani altrimenti non eccezionali. Detto ciò, certo non è un disco essenziale, ma merita la sufficienza piena e questo non è poco, se ci pensate (cioè, ragazzi, 40 anni, ma ci rendiamo conto?)