14 giugno 2013

QOTSA ...Like Clockwork?

Ne è passato di tempo da quando la dissoluzione dei grandissimi Kyuss diede vita ai meno grandi ma non disprezzabili Queens of the Stone Age.

Talmente tanto tempo che di quella formazione è ormai rimasto il solo Josh Homme, e certo è inevitabile che il divario tra le due esperienze, in termini stilistici, sia divenuto enorme, non solo rispetto alla band originaria, ma anche rispetto allo stesso bell'album omonimo d'esordio targato 1996.

Anche perchè la band si è costruita una storia estremamente variegata, fatta di cambi di organico, di sterzate stilistiche e di sperimentazioni più o meno riuscite, fino alla crisi di consensi coincisa con l'uscita dello sfortunato Era Vulgaris (2007)

Sinceramente, credevo che Homme e soci avessero deciso di considerare chiusa l'esperienza, visti anche i progetti paralleli portati avanti (Homme con i Them Crooked Vultures, Dean Fertita con i Dead Weather). Invece i supersititi hanno dato seguito ai ripetuti annunci che si susseguivano da un paio d'anni, ed hanno dato vita al sesto album come QOTSA, intitolato ...Like Clockwork, un'espressione che sembra essere frutto di un certo umorismo, vista la genesi tormentata dell'album.

Non entro in dettagli su chi sia entrato e chi sia uscito dalla band, su quanti ospiti ci siano nelle varie tracce e così via (si, ok, vi dico solo che c'è Mark Lanegan, ma dov'è che non sta?). Vorrei invece soffermarmi su quello che l'album sembra promettere, salvo poi farsi sfuggire tra le mani man mano che l'ascolto va avanti.

Innanzi tutto, è un album sorprendentemente coeso, niente a che vedere con la gran confusione di stili percepita soprattutto nelle ultime prove. Sembra per la prima volta che Homme abbia puntato su un lavoro molto a fuoco, con sonorità che ritornano canzone per canzone, e brani concisi che puntano al dunque e filano via in breve. Un'ottima cosa, peccato che la qualità della musica prodotta non faccia il paio con l'impegno profuso.

Non è un disco brutto, ma molto dimenticabile. E i brani che restano impressi sono fin troppo "facili" e stufano in breve. Forse è stato pensato con intenti eccessivamente commerciali (come i video promozionali con target adolescenziale farebbero ipotizzare) o forse, al contrario, si è cercata un'"opera della maturità" che, in tal caso, deve ancora arrivare. Un ascolto gradevole, ma lo metto nella lista dei dischi da comprare in special-special-price.

9 giugno 2013

Alice and the Devil

Superato il trauma della "sostituzione impossibile" del deceduto Layne Staley col nuovo cantante William DuVall, concretizzatasi quattro anni fa con la pubblicazione dell'ottimo Black Gives Way To Blue, gli Alice In Chains tornano con un nuovo album di studio.

Le dodici tracce di The Devil Put Dinosaurs Here spaziano in direzioni diverse, ma come nel lavoro precedente si mantengono nel solco della tradizione sonora della band, il cui marchio di fabbrica si conferma essere a questo punto nient'altro che la visione musicale del chitarrista - nonchè autore di tutte le tracce - Jerry Cantrell.

Il disco si apre benissimo: Hollow è una di quelle canzoni senza tempo che potrebbero essere nate all'epoca di Dirt, un'aggressione di chitarre sludge che fonde, in una ricetta ormai nota ai fan, lo stile dei vecchi Black Sabbath con i vocalismi grunge più incattiviti. Lo stesso si può dire delle successive Pretty Done (che aggiunge una marcata venatura psichedelica) e Stone, quest'ultima contraddistinta dall'alternanza furbesca di aggressività e distensione, un meccanismo anche questo già classico. La quarta traccia Voices rischiara la scena e si rivela per uno di quei gioielli alla AiC in cui chitarre acustiche ed elettriche si intrecciano in una sorta di ballata dai toni più positivi.

Per dare la cifra del disco basterebbe fermarsi qui - e infatti mi fermo per non risultare inutilmente prolisso - perchè le successive 8 tracce non fanno che ripetere i medesimi schemi, con una menzione d'onore per la splendida Phantom Limb, una lunga cavalcata cupa e ben degna di entrare a far parte del repertorio della band.

L'album soffre però di alcuni problemi piuttosto evidenti. Da un lato, non c'è alcuna traccia di innovazione, per cui ci si trova davanti a composizioni di buon livello, alcune anche ottime, ma prive di qualsiasi sorpresa, al punto che tra qualche tempo si potrebbe non ricordare più da quale album provengano. Dall'altro, l'album dura la bellezza di 67 minuti, con durate medie superiori ai 5 minuti, non sempre giustificabili con necessità compositive: qualche taglio qua e là ci starebbe, sia nel minutaggio delle singole tracce, sia nella scaletta, che poteva magari avvantaggiarsi di una riduzione a dieci brani. E infine, appunto, la scaletta stessa: l'ordine delle canzoni mi lascia un po' perplesso, alcuni passaggi inchiodano un po' la scorrevolezza dell'ascolto, vedi ad esempio proprio il brusco passaggio al panorama acustico e solare della quarta traccia dopo le tre bordate iniziali, elettriche e oscure.

Nonostante la più che piena sufficienza, e alcuni picchi notevoli, non posso nascondere una mezza delusione, visto che con le potenzialità sul campo sarebbe lecito aspettarsi da questa band un album vicino alla perfezione.

2 giugno 2013

Re-Mit: The Fall numero 30

Difficile, al 30° album di studio, dire qualcosa di nuovo su una band che, diceva John Peel, "non ha mai fatto un album brutto". Giudizio opinabile come qualsiasi giudizio personale, ma non troppo lontano dalla realtà se si considera che si tratta di un pensiero piuttosto condiviso dalla critica e dai fan della band di Mark E. Smith.

Diciamo allora un paio di notizie. Si, questo è proprio il numero 30, senza ombra di dubbio (secondo i miei calcoli, pare invece proprio il 29°). Aggiungendo live, raccolte e quant'altro, il numero triplica, se non peggio. Incredibile a dirsi, questo è il quarto album di fila con la medesima formazione. Un assoluto record per un gruppo che possiede addirittura una pagina dedicata ai propri cambi di organico su Wikipedia.

Re-Mit si segnala, musicalmente parlando, soprattutto per l'abbandono della formula "basso rutilante e cattivo, chitarra rombante, voce incazzosa" che era diventata un po' stanca sul precedente Ersatz G.B (ma aveva dato il meglio nell'eccellente Your Future Our Clutter), e per la maggiore varietà di stili ed esperimenti. Spesso la linea di basso resta indietro e dà spazio ai notevoli riff chitarristici (mai banali in questa raccolta). Il mood sembra in generale meno astioso, con qualche asperità in meno e qualche vaga cupezza in più. Ma sono sfumature. Al solito, la compagna di Smith e tastierista Elena Poulou interviene con la propria voce in un brano; come al solito, Smith se la prende in un altro con qualche gruppo che non gli va giù (stavolta tocca agli LCD: "James Murphy is their chief/They show their bollocks when they eat").

Per il resto, posso solo consigliarvi di aggiungerlo alla "collezione delle figurine" dei vostri album dei Fall, senza tema di rimanere troppo delusi. E poi la copertina è brutta abbastanza da meritare di essere posta di fianco alla precedente.

1 giugno 2013

Peter Murphy plays Bauhaus, Milano, 27/05/2013


Mr Moonlight Tour - Celebrating 35 years of Bauhaus

Senza commenti, il concerto completo di Peter Murphy ai Magazzini Generali di Milano, il 27/05/2013.

"Per chi l'ha visto e per chi non c'era"...  Ringraziate "lasyboylive" che lo ha caricato sul Tubo.